Emmanuelle Seigner e Eva Green in Da una storia vera di Roman Polanski |
di Roberto Silvestri (*)
Cannes
Scriveva più o meno Borges (Le rovine circolari): “Non essere una donna: essere la proiezione del sogno di un’altra donna: che umiliazione incomparabile, che vertigine!”.
Il desiderio inconscio, i sogni, il doppio, il
fantasma e le suggestioni notturne e mutanti in generale sono la
specialità di Polanski. Uno specialista nella regia dell’azione. Dunque.
Brividi forti e chiari di paura, sia grazie a Lynch che a Da una storia vera, perfido titolo spiazzante del nuovo, meraviglioso Polanski di Cannes 70. È più o meno come se Per favore mordetemi sul collo fosse ambientato alla fiera del libro di Parigi.
Solo loro due, Lynch e Polanski, sono ancora capaci
di tagliarti in due con un improvviso primo piano d’amore (e in seconda
battuta di morte). Non più un vampiro, un demonio, un inquilino che ti
fissa dalla finestra accanto, un mostro che ruba l’acqua ai messicani,
un Blair che massacra un popolo per sbaglio, però, questa volta. Ma
addirittura il primissimo piano della donna più bella del mondo che
entra a forza nella tua vita. A cominciare dal sogno. Gli occhi prensili
di Eva Green, nel ruolo di una donna, L. o Elle, colta, sofisticata,
impeccabilmente à la page e scrittrice sicura di sé, che incontra
casualmente e poi si insinua nella vita quotidiana e diventa l’amica
intima del cuore e imprescindibile di una romanziera di best seller,
Delphine, che si trova nella brutta situazione, già descritta da Billy
Wilder in Giorni perduti, di non riuscire più a scrivere O a
scrivere meglio. Oltre ad avere modi nervosi e capelli biondi
disordinati. E un amante un po’ distratto e volatile. E una figlia
insopportabilmente pilota d’aereo, altro che insicurezze. La bruna L è
proprio l’amica disponibile, generosa, simpatica, complice che si ha a
17 anni. Come il conigliaccio Harvey di Jimmy Stewart.
Ma non è la
sicurezza che attrae Delphine. L al contrario è importante per il suo
lato dark scoperto (che poi è anche nel lato dark coperto di Delphine: i sensi di colpa per aver
utilizzato e strumentalizzato la vita vera degli altri e ascendere,
opportunisticamente, al successo): “qualcosa di nascosto, di appena
percettibile, mi diceva che L. era una sopravvissuta, che aveva alle
spalle un passato torbido e misterioso, che aveva messo in atto una
straordinaria metamorfosi." Una sopravvissuta, come tutti gli scrittori o
le persone o i cineasti pericolosi. L. pericolosa come Delphine. Una
coppia più vicina di quanto non sia un rapporto lesbico dichiarato.
Eva Green, Roman Polanski e Emmanuelle Seigner a Cannes |
Conservatori
della messa in scena sintatticamente più che corretta, Lynch e
Polanski, questi rivoluzionari dell’immagine creano paesaggi interiori
tematicamente perturbanti, simili alla messa in scena di un atto
psicoanalitico, di un transfert nel quale però è arduo trovare il punto
di vista dell’analista. È il regista? E' lo spettatore? E' il critico? Da cui
l’imbarazzo di fronte ai suoi film più riusciti. Forse solo un po’
l’allieva inglese Ramsay sembra seguire (sulla Croisette) gli stessi
sentieri deliranti, fantasmatici, futili, babbei (da beato: da “povero
di spirito”) e schizofrenici della strana coppia. Un bel finale di
festival.
È paradossale però che il nomadismo fatto persona e cinepresa del regista polacco di Rosemary’s Baby, L’inquilino del terzo piano e Chinatown
sia stato fermato negli ultimi tempi, per colpa di leggi internazionali
non consone a uno stato di diritto. Roman non può mettere piedi fuori
dalla Francia o dalla Svizzera, vittima di una sorta di “sindrome
Sofri-Negri” planetaria. La perfida vendetta contro chi ci aiuta con le
immagini visive e sonore a capovolgere il mondo. E il suo indagare che inquieta.
Da una storia vera
è un romanzo del 2015 di Delphine de Vigan, scrittrice francese
cinquantenne pubblicata in Italia da Mondadori, che aveva sfiorato il
premio Goncourt nel 2011 con Niente si oppone alla notte, biografia
romanzata della vita e del suicidio della madre. Proprio dal successo
di quest’ultimo libro, e da una fiera del libro dove l’autrice lo
presenta con successo, parte sia il nuovo libro (ancora una volta
autobiografico) di de Vigan che il nuovo film di Roman Polanski, scritto
con l’ex critico e collega francese Olivier Assayas, interpretato oltre
che da una Eva Green perfetta sia come spettro cinematografico sia come
proiezione fantasmatica di Delphine, che è la moglie di Polanski,
Emmanuelle Seigner. È proprio lei che ha voluto il film, colpita da un
romanzo in cui realtà e finzione giocano a nascondino, e dunque
perfettamente in linea (anche se non dritta, curva) con le
ossessioni, i sogni, i fantasmi, insomma la poetica del grande cineasta
polacco.
Film scandalosamente e masochisticamente tenuto fuori dal concorso di Cannes, solo
per evitare che vincano sotto film e le solite polemiche che intrigano i bigotti di tutto il
mondo. Il romanzo è del 2015, proprio lo stesso anno del suicidio di
Chantal Akerman, la regista belga che ha reinventato il tempo
cinematografico, ha creato un sito facebook estremamente sospetto e ha sempre, costantemente, tragicamente raccontato i suoi rapporti con
la madre sopravvissuta di Auschwitz, imbastendo realtà e
finzione senza preconcetti. Spesso c’è più vita vera
nell’immaginazione. Mi piacerebbe che questo film le fosse stato
dedicato da Polanski e Assayas. Anche perché Akerman come Polanski non
usava ralenti per mettere in scena sogni. Non usava il flou per eliminare
il fondo, che nel sogno è opaco. Il sogno non è solo ciò che si vede ma
ciò che si sa. E nulla è statico nei sogni. Tutto si muove e cambia. E
si rischia l’incubo. E i colori non sono mai vividi…
* (pubblicato su Alfabeta2)
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