Roberto Silvestri (*)
Cannes
Qui
a Cannes, direbbe Serge Daney, “siamo alla ricerca di film modesti, ma
con una più giusta presa sulla vita. Dunque di film ispirati di più al
sogno, come quelli dei surrealisti o di Bunuel”. Invece siamo nella
fiera del film piuttosto tronfio, sveglio, e per tutti. Per ogni tipo di
pubblico. Alto basso nero o giallo. Nordico o sudicio. Questo
l'obiettivo dell'ideologia Netflix imperante. Produrre i film “per la
nazione intera”. “Nel campo delle immagini e dei suoni - aggiungeva
Daney - ci sono i mistici e quelli che vanno a messa. Io preferisco i
mistici”. Cannes preferisce invece gli altri, i fedeli che approvano
all'unisono e fanno dell'agiografia un vanto (e non a caso nasconde
quasi, vergognandosene, i pochi film-sogno, quello di Polanski, di
Schroeder, di Garrel, di Carpignano...).
E dunque cavalca l'affezione
epocale per le passioni tristi degli anni - ormai decenni - senza gloria
che sono la droga audiovisiva masochista degli spettatori di oggi.
Questi qui. Se è l'“insocievole socievolezza”, come definisce il
filosofo De Carolis il sentimento dominante del nostro presente (è
appena uscito e va letto il suo Il rovescio della libertà, edizione Quidlibet, sulla
deflagrazione del neoliberalismo), e non solo sulle scalinate di
Cannes, alla caccia di un posto in sala con ogni trucco necessario, ecco
che avremo sempre a protagonisti del grande schermo contro-eroi di
identificazione rapida, solo un po' meno crudeli e sadici, disgustosi e
immorali di quelli che gli stanno intorno. Perché vincono, e gli altri
no. Così in nome di una performatività abietta alla moda (dagli al
perdente!) Danimarca, Svezia, Francia, Germania e Stati Uniti si
coalizzano per produrre in nome della comune civiltà occidentale “The
Square”, di Ruben Ostlund, un titolo vestito di grigio che avrebbe fatto
inorridire nell'altro secolo qualunque hipsters, versione seria e un
po' pompieristica delle commedie un po' meno volgari e un po' più argute
che Alberto Sordi dedicava negli anni 90 alla borghesia chic, ammaliata
dall'arte contemporanea, ma marcia dentro: ricordate Le vacanze intelligenti l'episodio di Dove vai in vacanza?
scritto con Silvia Napolitano, con tanto di risate sulle bizzarrie
dell'arte concettuale esibita alla Biennale Arte di Venezia che
costringeva la ricezione di tutti a un lavoro artistico faticosissimo e
mai pagato?
Due esempi. 120 battiti al minuto. Regia del francese, nato in Marocco, Robin Campillo (ex montatore e sceneggiatore di Cantet) e Jupiter's moon
dell'ungherese Kornel Mundruczo. Entrambi in concorso. Le passioni, in
entrambi i soggetti, sono all'apparenza, tutt'altro che tristi. Si
combatte per la libertà sessuale nel primo e per la libertà, e il
diritto, per ogni profugo, allo spostamento e al diritto di cittadinanza
mondiale, nel secondo.
E, certo, non si può non notare che il primo
rimandi, con affetto e commozione, a Cyril Collard, e al suo film gay
del 1993, Notti selvagge, e anche agli ultimi giorni di vita di
Michel Foucault, che assiste francescanamente alla morte dell'amante,
prima di morire lui stesso di Aids, vedendo ricostruite con certosina
verosimiglianza le azioni di guerriglia e controinformazioni di Act up
Paris, raccontateci con rabbia antisistemica da Campillo, e che colpì
tutti, i media, lo stesso movimento Lgbtq in festa funesta, e l'industria
farmaceutica, la scuola e la politica, primo tra tutti “l'assassino
Mitterrand”.
Sull'importanza di un movimento mondiale che obbligò
scienza e potere a velocizzare ricerca e leggi per salvare più vite
possibili, Campillo è più che corretto. E, per motivi biografici, anche
esperto. Così che la parte più documentaristica (gli 'attivi' del
movimento, i dibattiti interni, le trattative esterne e le azioni
“armate”) diventa quella più recitata e artefatta, mentre quella che è
di solito la zona più drammatizzata (la love story tra due militanti del
movimento) diventa quella più documentaristica, le scene d'amore e di
morte soprattutto. E' vero che questo ribalta un luogo comune. Ma a 25
anni quella battaglia, che vide il cinema combattere in prima persona,
da Rosa von Praunheim in Germania a Todd Haynes off Hollywood, questo
requiem assume il tono della danza macabra estetizzante. Con il regista
costretto continuamente a modificare il tono emozionale del racconto per
non essere mai troppo brutale, mai troppo accorato e sentimentale, mai
troppo poco umorista. Anche quando si entra grossolanamente nel cattivo
gusto. E si che i francesi ci rimproverano spesso di movimenti di
macchina e di spirito abietti....
Jupiter's moon di Kornel Mundruczo |
Jupiter's moon fischiato in
sala solo dai colleghi laziali, perché il regista, nella sua scena
migliore e più inventiva, punisce l'ultrà nazi di Budapest, che inneggia
al razzismo in stile Paolo Di Canio, come merita, è la storia di un
super eroe, Aryan. Un siriano. Profugo. Che per entrare nell'Ungheria di
Orban e sopravvivere deve dimostrare di avere qualità sovrumane
certificate. Se no, niente. Che librarsi in aria lì dove si ergono muri
sia una qualità immaginariamente corretta ce lo aveva già mostrato Elia
Suleiman anni fa parlando di Palestina. Mundruczo pasticcia però un po'
troppo stilisticamente, rievocando ora il cinema socialista (il
poliziotto stalinista Laszlo esecutore cieco degli ordini), ora le
geometrie di pistole alla John Woo-Quentin Tarantino (perché il cinema
asiatico-americano è orribile, ma noi sappiamo farlo meglio), ora un po'
di clima noir (il personaggio meno corrotto di tutti, il gentile e
opportunista dottor Stern, angosciato dai sensi di colpa), senza trovare
pace. Finché c'è Orban sarà difficile.
(*) pubblicato su Alfabeta2
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