venerdì 9 giugno 2017

Nessuno ci può giudicare, il musicarello rock. Silvia Toso, Alberto Crespi e Stefano Della Casa. Hollywood Party passa alla Storia



Roberto Silvestri



"A ben riflettere, mi sembra che uno storico debba anche necessariamenteessere poeta, giacché solo i poeti possono intendersi di quell'arte che consiste nel raccordare abilmente i fatti" (Novalis) 





Dalle parti di Hollywood Party, programma di Radiotre Rai ideato da Silvia Toso nel secolo scorso, c’è tanta voglia di raccontare non solo quotidianamente e in diretta aneddoti e storie, ma anche la Storia. Certo. In maniera diversa, senza freddezza accademica o paternalismo didattico. Efisio Mulas, proprio come Melies o i Lumiere, infatti, non gradirebbe.
Raccontare la Storia del cinema, ovviamente e prima di tutto. Vedi il libro collettivo, truffauttiano e interattivo I 100 colpi di Hollywood Party, ovvero, a 100 anni dal primo lungometraggio, quali sono stati, fino al 2015, i migliori cento film italiani, e qualcuno di più (Eri editore). E ha vinto, grazie ai voti degli ascoltatori del programma in onda ogni giorno dalle 19 alle 19.45, tranne sabato e domenica, C’era una volta in America, di Sergio Leone, che è il meno italiano, e il più cosmopolita, di tutti….

E proprio Silvia Toso, poi, con Evelina Nazzari, in Fratelli d’arte (edizioni Sabine 18 euro), prefazione di Goffredo Fofi (che delle storie oblique è il decano e il teorico), ha voluto cucire e imbastire una multistratificata storia familiare del cinema italiano, dal muto ad oggi, raccogliendo le testimonianze segrete, comiche, commuoventi, o diversamente professionali dei figli e delle figlie di star e registi del nostro cinema le cui carriere si sono incrociate con quelle degli amici, e nemici sullo schermo, Amedeo Nazzari e di Otello Toso. I loro papà, divi adorati del cinema popolare tra fascismo e postfascismo che hanno lavorato sia con i pionieri dell’epoca muta (Blasetti, Camerini), sia con i giovanissimi cineasti che avrebbero “inventato” un altro cinema (Rossellini, Lattuada, D’Amico, Zampa), un altro teatro (De Filippo, Dapporto, Foà, Ninchi, Gassman) e la televisione “leggera” (Panelli, Pisu, Togliani) e sia con registi e attori e attrici che avrebbero conquistato di nuovo, come all’epoca di Cabiria, una supremazia mondiale (De Sica, Mastroianni, Loren). 

Evelina Nazzari e Silvia Toso a Hollywood Party 
Ne esce una densa e profonda incursione negli interni domestici, psicoanaliticamente scorretti e serenamente giocosi, di artisti fuori dalla scena; e una lettura spregiudicata e disincantata, di tipo decostruttivo, di circa trenta genitori “pesanti” visti all’opera dai propri cuccioli, spesso colpevolmente trascurati da un lavoro assai poco casalingo.  Interviste che ci invitano a entrare nel mondo mitico e inaccessibile del cinema di una volta, quello classico e con l’aura dei nostri nonni e genitori, soddisfacendo la curiosità fertile dello studioso e quella futile del fan. Dove futile non è da intendersi se non, filologicamente, come l’acqua che fuoriesce dal vaso crepato, come fuga ribelle dal luogo comune (il volume può essere ordinato inviando una mail con i dati personali a ordini@edizionisabin)


 Ma non solo. Si vuole raccontare anche la storia-storia, visto che da oltre un secolo il cinema, questa “finestra sul mondo” di tecnologica complessità, magica duttilità e aptica qualità ha cambiato la visione e il senso delle cose e l’incidenza degli artisti non solo sull’industria specifica degli audiovisivi ma sulla vita, sui comportamenti di tutti i giorni e sulla politica (per esempio Nanni Moretti e Grillo hanno inciso profondamente sul sistema dei poteri nazionale e Bernardo Bertolucci, e più ancora Pier Paolo Pasolini ne sono stati vittima).


Ha iniziato questo rosselliniano lavoro di chiarificazione, informazione e comunicazione Alberto Crespi con Storia d’Italia in 15 film (Laterza editore), un libro appassionante e di straordinaria scioltezza affabulatoria sull’Italia, da Cavour a Renzi, passando per capitoli raggruppati attorno a 1860; Cabiria e Amarcord (il ventennio), Tutti a casa, Se sei vivo spara (guerra partigiana), C’eravamo tanto amati, Don Camillo, Il sorpasso, Sandokan  (ovvero il 68),  Indagine su un cittadino, Salò, Caimano, Diaz e Carlo Giuliani ragazzo, Gomorra. Film bipolari e in costume che raccontano sia avvenimenti storicizzati, anche se trascorsi da poco, che storia, stile e cultura dell’epoca in cui sono girati.
Il cinema, di genere storico o celato dalla commedia o dal western o dal genere avventuroso, filologicamente corretto o fantasy, di propaganda diretta o indiretta, non ha il compito servile di illustrare e sintetizzare a scopi didattici i fatti che cambiarono il mondo, focalizzandosi sui grandi uomini e sulle potenti donne che hanno il copyright morale o immorale degli avvenimenti clou. Guerre mondiali. Crisi economiche. Passato glorioso imperiale o buio “medievale”. Rinascimento. Risorgimento. Colonialismo. Resistenza, Sessantotto e così via.
usare il western, come fa Giulio Questi, per raccontare la guerra antifascista dei partigiani 
Perché i film stessi sono “mondi” complessi, “corpi” che scendono in campo e contribuiscono a modificare la storia, regalando altre “parole” e luci alla memoria, illuminando cose profonde e dimenticate, resuscitando spettri inquietanti, non rimuovendo traumi opachi e non reprimendo desideri dell’inconscio collettivo. Fanno gigantografie dei dettagli collaterali e utilizzano campi/controcampi di imparziale oggettività che confondono gli storici più profondi e avveduti. Ricordate la polemica di Beniamino Placido con Arthur M. Schlesinger, lo storico accademico e liberal per antonomasia, che in un volumone grande e grosso su F.D. Roosevelt (The coming of the New Deal) si era dimenticato totalmente del cinema, di Forty Second Street, per esempio (anche se i disoccupati non per mangiare ma per andare al cinema spendevano i loro sussidi di disoccupazione), e perfino di film di straordinaria potenza riconciliativa come Via col vento, senza il cui potenziale suggestivo la tenuta del “grande patto” non avrebbe portato l’intera nazione allo sforzo anti-nazista?  I film lottano per modificare la nostra percezione della realtà e inventare un’altra lingua comune, altri simboli, altri linguaggi non verbali.  E non riflettono, in schermi deformanti o agiografici, le cose in sé. Ma ciò che è visto dai mille occhi. Anche da quelli spenti per sempre. E che il cinema resuscita.  

Stefano Della Casa 
E poi c’è Stefano Della Casa. Che usa il cinema per fare Storia e critica della storia e del cinema. Insomma ha realizzato (con la documentarista, antropologa e regista Chiara Ronchini) quel che si chiama un crito-film. Si usano le immagini per fare critica. Adriano Aprà, alla Mostra di Pesaro, dedica per il secondo anno consecutivo, una sezione del festival proprio a questa tendenza che è diventata di punta nella ricerca autoriale (riuscita, come Gus Van Sant che rifà Psycho, Guadagnino che ritorna a Suspiria, o Sofia Coppola che ristudia una pietra miliare della new Hollywood e della guerra di secessione, La notte brava del soldato Jonathan; o non riuscita, come il lavoro grossolano di Hazanavicius su Godard). 


Della Casa e Ronchini (che ha recentemente montato il Pugile del Duce ed è abituata a maneggiare materiale di repertorio) si concentrano su Lucio Fulci e Piero Vivarelli (a lungo intervistato e sempre provocatorio e sorprendente) e si sono dedicati all’Italia degli anni 50-60, alla gioventù ribelle del beat, al musicarello rock (anche Fizzarotti e Westrmuller), intervistando gli idoli della gioventù ribelle: Shel Shapiro dei Rokes, sempre molto lucido e radicale; Rita Pavone, che diventa it girl dopo aver visto Audrey Hepburn, dispiaciuta di non aver potuto esprimere al cinema tutte le sue doti recitative drammatiche e di non aver potuto partecipare al Movimento, miliardaria com’era; Caterina Caselli, ribelle istintiva e naturale, ma già pronta a capitalizzarsi, più dei suoi manager “arcaici”; Gianni Pettenati, Ricky Gianco. E i cineasti che furono al loro fianco, fiancheggiandoli nella loro ricerca controculturale musicale e cinematografica: come rifare, qui, Elvis Presley e i Beatles, i musicisti che hanno cambiato tutto. Il mondo. La Storia. Stile, vita, abbigliamento, taglio di capelli, ritmo, modo di parlare, di urlare, di amare, di uscire di testa, di recitare. Un’esplosione. Una bomba atomica spirituale di immane potenza. 
 

La tv a colori in Italia arriverà, non senza bocche storte, nell’anno del signore (metropolitano) 1977, ovviamente.
Ma l’intero paese, congelato dalla guerra fredda dopo i beati anni dell’anarchia delicata e ricostituente (1945-1947), era giù passato dal bianco, nero e soprattutto grigio al colore, in un crescendo di cromatismo iridato sempre più gioioso tra i primi anni sessanta del boom e dei socialisti al governo (sgonfiati da figuri inquietanti e ingombranti della politica, come Rumor, Fanfani, Andreotti e Restivo), colonna sonora rock’n’roll (Ghigo, Brunetta, Mina, Celentano, Dallara e Little Tony), fino al decennio rosso fuoco (purtroppo magentato nelle ricostruzioni che se ne fanno oggi, e non solo Mieli… colonna sonora Stratos-Skiantos) vanamente contrastato dalle bombe sui treni e nelle banche che tanto hanno inebriato e ispirato poi Isis e Daesh.


Da Claudio Villa e Luciano Tajoli a Maurizio Vandelli e 24 mila baci il passaggio non fu traumatico solo grazie a una collezione di maschere dell’eterna commedia dell’arte nazionale, da Totò a Fred Buscaglione, da Franca Valeri a Franco e Ciccio, da Sordi a Sergio Leone e i western spaghetti che hanno accompagnato e anticipato, come faranno i comici demenziali inglesi nell’epoca punk, quella ironica voglia matta di Hollywood e di America, di fine della fame atavica e di “consumo zero”, di scatenamento dei sensi della gioventù scatechismizzata e di libertà, che finalmente non si dava limiti che non fossero nei paraggi dell’arbitrio, dello stravizio. E oltre.      


L’Italia andrà insomma su di giri, diciamo almeno a 68 giri (e durerà un decennio), a mano a mano che i ritmi di fabbrica sostituivano quelli della vendemmia, e il paese diventava industriale-agricolo, ma il documentario sul musicarello urlato e rock, le sue origini e consequenze,  Nessuno ci può giudicare (da non perdere prima che lo smontano, a Roma è al Farnese), sottotitolo “un film a 45 giri”, ci racconta il prequel e il senso di quella attesa rivolta ribelle (che la fabbrica e le sue atrocità distrusse, e che contribuì a porre fine all’eccidio nel sud est asiatico, grazie anche a Morandi), per chi c’era, e si illuminerà di nostalgia. E per chi non c’era, e gli sembrerà di esserci stato.
Plumbeo era il mondo prima del beat. Una parola deviata dalla serietà culturale di Ginsberg & co. verso l’effimero musicale più piacevole da Gianni Boncompagni, il nostro compianto Moondog di Bandiera Gialla (il dj dello scatenato programma radiofonico tutto copiato da quelli di Alan Freed) che replicava così quel saccheggio di cover angloamericane che divennero nel nostro immaginario collettivo gli hit originali di Caselli e Pavone, Nomadi e Camaleonti.

Chet Baker in un musicarello rock di Fulci e Vivarelli

Stefano Della Casa (che c’era) e Chiara Ronchini (che non c’era) dopo una nuotata rigeneratrice nell’archivio storico del Luce, tra i film di famiglia Superottimisti del Piemonte e in vari fondi privati zeppi di tesori, inanellano alcune interviste e sequenze celebri o rarissime (c’è anche un Giuliano Ferrara scatenatissimo danzerino al Piper, sotto la regia di Tito Schipa jr. o un Renato Zero juniores incredibile) riuscendo a cogliere  le scaturigini, il motorino di avviamento segreto che cambiò, per effetto contagioso e virale, il mondo. Quel passaggio epocale tra disco grande a 33 giri e disco piccolo a 45 giri, che forse non svuotò improvvisamente e immediatamente le chiese e le sue tecniche di imbalsamazione dei desideri, ma certo, parola di Caterina Caselli, accolse finalmente in chiesa donne coi pantaloni aderenti di pelle e uomini coi capelli lunghi sulle spalle, anoressici, vistosamente gay come quel Renato Zero che nel film si vede danzare come un elfo a 17 anni e già idolo lgbtq. Vivarelli ricorda che di musicarelli la storia del cinema italiano è piena. Il primo film sonoro, La canzone dell'amore, lo dimostra. Ma il musicarello rock è stato una svolta rivoluzionaria. Perché, nome a parte, che molto deve a Carosello e alla promozione discografica, il debito va a William Asher e ai suoi rock movies con Funicello e Avalon che incrociavano band e surf band sulla battigia della California e lottavano contro i boss locali oscurantisti e nemici dei nuovi ritmi esattamente come in Ragazzi del juke box, Urlatori alla sbarra e Sanremo la grande sfida, pieni di cantanti e gruppi, erano i notabili dc a censurare e contenere una vitalità e una anarchia gioiosa che si considerava pericolosissima (e si vede in Parlamento un intervento di un democristiano di fede Greggi gettare un anatema come fosse su un pulpito contro la licenziosità e la pornografia che doveva essere cancellata nei cinema. E la coralità che conta nel musicarello rock, l'energia incontenibile che spaventa, non la singola canzone romantica e il cantante melodico di successo da promuovere. Già negli anni 80 i ragazzini cominciarono a ricollezionare i dischi dell’Equipe 84, Ribelli, Clan, De Gregori (“non lo vollero alla Rca perché aveva l’erre moscia, confessa Caselli), a respirare l’aria di “prima della rivoluzione”. La rivoluzione era andata male e bisognava ripercorrerne le tappe, meticolosamente. Le generazioni successive continueranno a ispirarsi a Doors, Hendrix, Pink Floyd come quella. Il motivo è spiegato da una giovanissima operaia bionda e sorridente, intervistata in quell’epoca. “Che ci fai coi soldi che guadagni?” Il 30% va in vestiti. Il 50% in divertimenti e il resto, pochissimo, lo do in casa. Se no perché starei qui a lavorare?



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