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martedì 13 settembre 2022
Prénom Godard. Chi scriverà più le immagini ora che la "politica dell'autore" è morta?
Di Roberto Silvestri
Prima di lui si andava comodamente nel cinema sotto casa, soprattutto in famiglia. Da almeno tre decenni (1920-1950) la settima arte era regredita – più ancora in Europa che in America - a poco a poco a tempio del conformismo calligrafico, della narrazione compiaciuta di sé, della recitazione pompier e tossica, tra codici Hays e censure bigotte, in molti casi fasciste, terrorizzate dalle immagini.
Ma dopo lo tsunami Godard, dopo la scomposizione che lui ha attuato, come un gioco contagiante, su tutti gli elementi del linguaggio visivo, sonoro, non verbale, gestuale, comportamentale, involontario, e della memoria combinatoria che attiva la ricezione (se era vietato fare un primo piano con un grandangolo ebbene lui lo faceva, se il montaggio deve essere invisibile ecco il jump cut continuo), andare al cinema è diventato certo un gran lavoro ma anche un vero piacere, un divertimento da parco giochi, un’avventura dell’occhio-mio-dio, un gesto chic e snob e sovversivo. Ti sentivi uscire dal tuo corpo, essere Belmondo e Karina allo stesso tempo. Solo contro il mondo. Estasi.
Avevi scoperto finalmente qualcosa che non avresti mai trovato nella letteratura, nella musica, nella pittura, nell’architettura. “La verità 24 fotogrammi al secondo”, parafrasando Cocteau (“il cinema è la morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo”) vuol dire poter cogliere le cose vere, cioè mutanti e conflittuali, che il visuale paralizza nell’ideologia, e “trasformare la notte in luce”, come scrive nel suo virtuale libretto rosso mai pubblicato, perché noi, fuori dalla sala buia, non vediamo di non vedere.
Pochi registi erano riusciti prima di Godard a liberarsi dai lacci e legacci imposti dai produttori – e, ricordiamolo, un film è un rapporto a due: regista e produttore, e Godard preferiva Thalberg a von Stroheim - mandando segnali segreti a critici ribelli e spettatori perspicaci. Les années Cahiers lo vedono alla macchina da scrivere a liberare nelle sue recensioni le immagini vitali incastonate nei mélo di Sirk, nei thriller di Hitchcock, nelle tragedie femministe di Mizoguchi e nelle commedie di Tashlin e Blake Edwards.
Ecco perché Godard - e anche i suoi critofilm più incomprensibili, i suoi film-saggio più rivoluzionari e filosofici - piace nel subconscio a Hollywood. Ma quell’Oscar alla carriera lui l’ha rifiutato sdegnosamente, per non essere da meno di Marlon Brando (e per farsi premiare di più). Il suo decennale lavoro sulle unità spazio-temporali della sequenza ha vivisezionato funzioni e procedimenti di un film, e perennemente fatto rinascere il cinema, che se non sconvolge tutte le funzioni, logiche e emozionali, del nostro cervello, non c’è. Non esiste. E da neo-formalista (adorava Eisenstein e come era indignato con Kenneth Anger quando osò rimontare Que Viva Mexico) ha attivato in tutta la sua ultracentenaria opera sensazioni, intellezioni, immaginazioni e memoria, anche rianimando forme antiche e dimenticate: ecco “il bello”, che non è la copia di un modello, ma di un monello. Ecco la funzione estetica, attivare la costituzione d’oggetto e la formulazione di immagine. Abbassando il più possibile i costi di produzione. Lavorando sodo, come un falegname, un operaio. Senza guadagnare di più. Si tratta di psicosi egualitaria? No. Di come si intende democrazia. Lui la intende come Thoreau, Whitman e gli altri trascendentalisti americani dell’800 romantico e utopistico, pur con le sue origini calviniste, da dio cattivo che punisce, sono pochi i non peccatori. La intende come priorità delle persone e non dei proprietari.
Prendiamo una sequenza western normale (non alla Monte Hellman, che adorava tanto quanto non sopportava Woody Allen). Arriva il cowboy a cavallo, attacca il cavallo alla sbarra entra nel saloon e la cinepresa lo segue. Ebbene Godard non lascia mai il cavallo. Resta con lui. Il cinema è atto, movimento, tragitto, mai personaggio….
Con Godard il cinema tornò quell’avventura sulfurea, delle origini, quel montaggio delle attrazioni da circo che trasforma le nostre parti basse in general intellect. Il teatro in documentario e viceversa.
Strano che Guy Debord, criticandolo da sinistra lo definisse “il tipico cineasta borghese". Anche se si riferiva al Godard primo periodo, quello della modernità di fraseggio, della soggettività desiderante, dell’anarchia come programma minimo, quello che lo stesso Godard poi ha autocriticato reinventandosi – chi non ha vissuto quei momenti non riuscirà a comprendere l’ovvietà di quella decisione, tra stragi di stato e Vietnam, polizia assassina e mostri prepotenti al poyere ovunque - come militante rivoluzionario maoista, e assieme a Gorin fondando il gruppo Dziga Vertov per realizzare dal 1968 al 1974 non film politici ma film fatti politicamente, ovvero applicando correttamente la politica dell’autore (che non è come si crede erroneamente sovranità del regista, ma sovranità della politica, committente le masse). Godard "ha giusto delle idee di cinema, più che delle giuste", e senza indipendenza e piena libertà, dunque senza basso costo e senza il costante aggiornamento sulle tecnologie audio, suono, video e digitali da dominare teoricamente ("bisognerebbe pagare chi vede la tv, non chi la fa"; oppure "i telereporter sono criminali di guerra", infine "i bambini sono prigionieri politici") Godard non sarebbe un pedagogo, come Rossellini gli ha insegnato ad essere e Serge Daney (il critico francese "di fase" più stimolante alla fine del secolo scorso) ha confermato che fosse. Da Ici et Ailleurs, Numéro deux e Comment sa va in poi, insomma dal 1974, prima a Grenoble poi nel villaggio svizzero di Rolle, cantone di Vaud, Godard mette in scena solo "persone che si fanno la lezione". Il Godard di questa "parte seconda" è soprattutto quello elettronico, che lavora per le sue società "Sonimage" e poi "JLG Film", assieme alla fotografa, artista multimediale e cineasta e storica dell’arte Anne-Marie Miéville. Ha gelato l'amicizia con Francois Truffaut, ha avuto un orribile e traumatico incidente di moto (nel 1972, in piena militanza maoista, quando ha abbandonato la totalizzante "unità di produzione Dziga Vertov" e il suo alter ego Jean-Pierre Gorin, ma metterà alla prova il metodo marxista-leninista non solo rispetto alla lotta di classe in Occidente e nei paesi dell’Est Europa o alle insorgenze anticoloniali in Mozambico e in Palestina, ma alla costruzione di un’immagine, e alle questioni interiori e sotterranee del privato, alla crisi ambientale, all’uscita dall’antropocene. Insomma il suo è un surplus di cinema politico, mai riflusso. Solo Godard (e Straub e pochi altri) combatte, con raffinata tecnica pugilistica, contro la televisione e il visuale virale e brutto di certo cinema (a volte contro Spielberg e Bertolucci) e di certa televisione, ma sul loro stesso terreno, campo contro campo. Truffaut diceva che Godard "ha sempre pensato al di sopra dei propri mezzi", ma certo molta tv e molta Hollywood pensano ben "al di sotto dei loro mezzi"... Ponendosi, per esempio in Je vous salue, Marie, non problemi di verginità della Madonna, ma di purezza/sporcizia dell'immagine. Il critico Alberto Farassino, scomparso troppo presto, grande studioso di Godard a cui ha dedicato un fondamentale Castoro, ricorda nella versione ampliata del 1996 una sua frase bellissima: "Dato quel che è accaduto in Cile, il fascismo, Pinochet, la mia vita prende di conseguenza una direzione piuttosto che un'altra. Quando incontro qualcuno non mi interessa dirgli che il fascismo è buono o cattivo, o che Pinochet è un imbecille. Gli parlo di me e di lui".
“La macchina infernale capace di generare fantasmi e di infondervi vita e anima, di giocare pericolosamente al confine tra il visibile della nostra vita quotidiana e l'invisibile di un aldilà inconoscibile”, insomma il cinema secondo Cocteau, diventa per Godard sempre qualcosa d’altro, di differente, di contraddittorio, il contrario di prima. E’ la sensibilità postmoderna, ovvero soggettività drastica coniugata a altissima etica politica che lo invita al nomadismo, alla deriva, al continuo cambio di set mentale. Ancora una volta.
Il lago, le montagne, il cane, quei certi quadri adorati, quella letteratura amata (il buffone shakespeariano, l'idiota dostoievskiano...), diventeranno gli elementi visuali fissi e di suggestione da impasto, molto più importanti delle storie, sempre "da non raccontare", o della Storia, da non perdere mai di vista, o della storia del cinema, che andrebbe bruciata. Se i film sono merci bisognerebbe bruciarli. Ma con il "fuoco interiore". Perché l'arte nasce da ciò che brucia. Così Godard, l'artigiano, il grande parlatore seducente (assistere a una sua conferenza stampa era come entrare nello stand della donna barbuta) lavora molto negli anni 80 per la tv di stato, da cattivo allievo di Rossellini: ecco le videoconferenze, le lezioni sul centenario, gli spot, ma anche i remake, produttivi non iconografici, come Fino all'ultimo respiro. II Leone d'oro di Venezia con Passion (una magnifica giuria tutta nouvelle vague, scelta da Rondi, con Bertolucci e Oshima tra gli altri, non poteva non premiarlo) fece inorridire il critico del Corriere della sera che, coraggiosamente lo stroncò, a rischio di perdere la direzione del Centro Sperimentale di cinematografia che, lo dice la parola stessa, o è godardiano o non dovrebbe neppure esistere.
Negli ultimi anni ancora scandali, detour. Una torta in faccia a Cannes, l’invito recente a votare Le Pen, inorridito dalla fine del socialismo, capelli perennemente arruffati e Gitanes papier mais in bocca. Forse aveva ragione Debord. L’ultimo grande borghese è morto.
lunedì 12 febbraio 2018
Detour. Clint diventa rosselliniano. 15,17 to Paris
di Roberto Silvestri
Tre ragazzi americani tre
anni fa fermarono disarmati, su un treno in corsa, un coetaneo stragista
all’opera. Poi hanno scritto in un best seller la loro storia. E Clint li ha
fatti esordire come attori a raccontarci questa avventura straordinaria e i suoi
retroscena. Un instant movie che utilizza e stropiccia
sistemi emozionali di ogni tipo (action movie, spiritual movie, racial movie,
school movie, road movie, femminist movie, buddy movies, war movie, sex movie,
film commission movie…) e perfino materiali di repertorio con tanto di
presidente Hollande in campo, e risponde alla domanda che tutti ci poniamo. La
domanda non è: come mai in America tutti
sono attori nati come Alec Skarlatos, Anthony Sadler e Spencer Stone? Ma: cosa possiamo fare noi cittadini disarmati davanti
a un gruppo organizzato, dinamitardo, e presumibilmente disperato di morituri
che può massacrare decine e decine di civili ovunque e in qualsiasi momento nel
mondo? Dobbiamo armarci tutti, uomini e donne e bambini, come urlano i
reazionari collusi con la Beretta? Dobbiamo riempire le strade e le piazze di
mercenari pubblici e privati agganciati agli MK17? No. Clint dice no. Il
fascismo non si combatte così. Ce lo ha insegnato Franklyn Delano Roosevelt.
Nella prima parte del film i tre bambini, che fanno a pezzi assieme alle loro
mamme l’ipocrisia e la pericolosità dell’insegnamento cattolico, si interessano
solo alla seconda guerra mondiale, studiando strategia militari sul fronte
orientale e occidentale, con la stessa grinta e passione di George Lucas
davanti alla sua collezione di supereroi Marvel. Sorprendente questo detour per chi ha sempre preferito i repubblicani, i presidenti
forti che non dimentiano l’opzione atomica, e enfatizzato il concetto di
individualismo drastico come base della civiltà Usa. Davanti a scenari inediti,
però, ci spiega Eastwood, si richiede un salto di ingegno, una deviazione dalla
ragione comune e dalla immaginazione solita. Due dei tre amici sono bianchi.
L’altro è nero. I due bianchi amano le pistole - l'altro ricorda sarcasticamente che gli african american frequentano poco la caccia - con la stessa determinazione del
protagonista di Gun Crazy, il noir di
Joseph H. Lewis del 1950 che raccontava come la passione per le armi, e per
saperle usare con grande competenza, non sia solo sintomo di pulsioni autoritarie
distruttive, ma a volte garanzia di democrazia, se non deviata dalle maligne (in quel
caso) macchinazioni di una femme fatale o strumentalizzate da dittatori pericolosi.
Questo non è sorprendente. Fin dall’epoca dell’ispettore Callaghan, Clint, come
Rossellini, ha sempre affermato l’importanza della storia per comprendere
meglio le novità che attentano alla convivenza democratica anti razzista e
antisessista. Se la giustizia diventa formale bisogna darle uno scossone sostanziale. Solo chi è in malafede non ha capito che questa radiografia
d’America aiuta a capire il mondo che cambia attraverso ipotesi nuove. Dunque
che Clint è un cineasta d’avanguardia.
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Alec Skarlatos, Anthony Sadler, Spencer Stone |
Nessuno si aspettava, però,
un film così. Squilibrante. Strano. Semplicissimo. Può causare irritazione
patologica. Oltretutto è vietato in Gran Bretagna ai minori di 15 anni! Gore,
sesso, parolacce, una sceneggiatura demenzial-popolare che ha tolto - come
faceva Bresson - ogni inutile orpello psicologico alla triade gloriosa (merito
di una rookie, e Clint adora i
giovani alle prime armi come Dorothy Blyskal). 15,17 to Paris è soprattutto una rilettura storica dei fatti non
agiografica e una concezione spirituale della vita che fa infuriare accademie,
chiese e tromboni vari. Il cittadino armato può essere utile solo se la società
e sana a possiede valori comunitari alti. Questo è il messaggio che
infastidisce. Sembra che Clint parli dell’Armata rossa, russa o
cinese, o dell’esercito popolare svizzero…
Si è detto invece, in America
e qui. Questa trilogia sull’eroismo americano dell’uomo comune avrebbe
riesumato alfine lo sciovinismo destrorso del regista. Si sapeva, no? Clint ha
sbagliato sempre al voto, da Nixon a McCain a Trump… Ma questa volta, più che
davanti a American Sniper e Sully, gli altri pezzi della trilogia seccante sull’eroismo dell’uomo comune -
comune poi fino a un certo punto
perché sono tutti e tre fortunati e ben addestrati e soprattutto non sono loro
ma un altro il primo che disarma il terrorista, altro guizzo destabilizzante
della storia - qualcosa ha fatto deragliare l’intelligenza e i nervi degli
spettatori, professionali o meno. Tanto che ci viene un sospetto. Per gli
anarchici come Clint il voto nullo è proprio come un’estasi erotica. E quali
voti sono stati più nulli dei suoi (a favore di baby kisser scacciati o sconfitti o smaniosi di impeachment…)?
“Film commerciale – ricordava Renoir a Rossellini – non vuol dire ricerca
del profitto a tutti i costi, coi mezzucci e l’uso di algoritmi dello
statisticamente corretto, ma imporre un’estetica”. A una certa età
ridicolizzare quell’estetica omogeneizzante (per esempio quella ben ricalcata
da Greengrass in un blockbuster simile, ma esageratamente leccato e adorato, United 93) deve essere diventato la
piacevole missione di Clint. Che ha fatto dunque il suo primo (si spera di
molti) film testamento, molto autobiografico. E’ anche lui l’uomo qualunque che
viene dal nord California (Sacramento come San Francisco), ha dei principi
morali che entrano in rotta di collisione con le autorità religiose (in questo
caso cattoliche, a giudicare da quel poster del cuore di Gesù, molto ottuse),
che si impone una disciplina fisica e psichica durissima ma non per non essere
un loser ma perché vuol diventare una persona degna di rispetto, utile agli
altri (tutto il contrario di chi smania per il successo personale ai danni
di tutti, si ascolti la più blasfema
delle preghiere notturne, in epoca scientology, di Spencer Stone) e poi viene
sradicato dai suoi amici di infanzia per colpa dei bigotti, e ha la fortuna di
trovare in Europa (e proprio nell’odiatissima, dagli Usa, per anni, Francia)
fama e Legione d’onore… Non basta l’individuo degno di rispetto e tecnicamente preparato.
Deve essere attorniato da istituzioni integre. Maestri affascianti,
addestratori militari efficienti. Che sanno come salvare la vita a un ferito. Uno stato sociale di cui si fa un elogio che proprio non ci aspettavamo. Rooseveltiano.
Il film è andato di traverso
così anche nel middle e tra i
rednecks che di stato non vogliono sentir parlare. E poi. I bravi ragazzi non
dicono parolacce, non fumano canne, non si sbronzano e non frequentano la “Roma
più perversa” o i club olandesi alla Kechiche (in due minuti tutto Mektoub my love canto uno e due). Quella
tirata berlinese contro gli americani, infine, che pretendono sempre di aver
salvato il mondo, e perfino dall’immonda bestia, mentre sono stati i comunisti
e pure russi a distruggere Berlino e Hitler, ha fatto uscire dalle sale metà pubblico
statunitense infuriato.
Insomma. Eastwood, a destra e
a sinistra, questa volta avrebbe proprio
dato i numeri.
A 87 anni compiuti, questi 94
minuti (record di sintesi) girati al volo come se in un instant movie della New
World di Corman, sarebbero noiosi, banali, turistici, cartolineschi. Personaggi
senza spessore psicologico, permeati da religiosità equivoca, non fosse per le
scene d’azione finali, quando il montatore, il direttore della fotografia e il
musicista prenderebbero il sopravvento rispetto al regista canuto e lo
immobilizzano. Colpa, ovvio, anche di una donna, della sua sceneggiatrice,
dilettante, che ne sa di macha possanza, addirittura ex producer, che ne sa di
dinamismo adrenalinico? E poi, a chiudere con questo capolavoro di cinema illuminista-irrazionale,
come lo avrebbe chiamato senza affetto Cesare Cases, Ore 15,17: attacco al treno, o meglio, in originale, Alle 15.17 verso Parigi, è pieno di numeri.
Ben quattro numeri già nel titolo. Il primo è fortunato, l’altro
annuncia disgrazia. E poi la data, 21 agosto 2015. Siamo già nei territori
della Cabala. Apparirà poi, su sfondo biancorosso, un grande 25 - la Legge, la
parola di Dio, il giorno del sacrificio - che infatti è anche il numero di
maglia di Thomas Mueller, il centravanti (e anche centrocampista!) magico del
Bayern Monaco e della nazionale tedesca (un nome, oltretutto, Robert Swan
Mueller, diventato l’incubo di Trump).
Ma per tutto il film si
continuerà a insistere sui numeri e sulla loro fondamentale importanza,
scientifica non magica, per comprendere qualunque cosa. Arte della guerra
compresa.
87 anni, 36 regie, Eastwood la sa lunga,
ha esperienza, non si fa intrappolare dal già fatto o dallo stile e migliora i
classici. Adesso maneggia davvero alla perfezione la saggezza visiva di Don Siegel e si avvicina perfino agli europei. Come Eisenstein fabbrica un film
come “campo di guerra”. Ma non si indicano le cose vere se non si attraversano le verosimili. Gelato, colazione da Gritti, ostelli per studenti, ballo,
sballo, selfie e torre Eiffel sembrano banalità turistiche degne di Woody Allen
a Roma. Già. Lo sono. Verosimiglianze molto plausibili quando si tratta di
vederle alla luce dell’obiettivo terroristico.
Come Rossellini. Non
ripetersi mai. Non affidare il film ai plasticosi clichés ritmici (qui la
poliritmia è proprioi free jazz, come
scrive Giulia D’Agnolo Vallan). Afferrare il protagonista e farlo passare nei
tentacolari labirinti dal destino al quale non sempre ci si può opporre (e qui
i fan del libero arbitrio si inalberano). Certo, anche alternare attori
professionisti con non attori presi dalla strada. Certo anche voler spiegare i punti essenziali
della storia di un paese a forza di sembrare indifferenti al versante
“spettacolare”. Ripartire dalla seconda guerra mondiale, la guerra giusta, per
vedere come affrontare quest’altra guerra, talmente inedita ma apparentemente
infinita che ci obbliga a percorrere altre opzioni oltre a quelle militari. Che
ne dite di cambiare un modello economico finanziario così disastrosamente
imperiale? diceva Rossellini e oggi Clint.
Come Brecht. Non si può dire
che questi “attori” abbiamo problemi a indicare quel che i veri protagonsti
dell’azione abbiano fatto, senza sforzi interiori per immedesimarsi nei ruoli. Come quel treno alla Dario Argento, di questo che tra i suoi thriller è il più horror.
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martedì 19 settembre 2017
Ex Libris di Wiseman. Anche se tutti i libri diventeranno presto oggetti da Museo .....
Roberto Silvestri *
Incredibili variazioni di montaggio su una struttura formale e un procedimento di ripresa e di alto dinamismo spaziale sempre identico, che articolino un'idea. Proprio come fanno i film high concept a Hollywood...
Dal 1967, influenzato dal "cinema diretto" (registrazione simultanea di suono e immagine, oggi con il numerico una norma, ma un tempo no), da Grierson e Rouch (ma sessantottino come van der Keuken e Depardon), Fredrick Wiseman, 87 anni, 41esimo film, ha scelto di dedicare a New York il suo quinto lavoro, esplorare il metodo del cinema-saggio e sincronizzare questa volta tre ore (197' per la precisione) di immagini e suoni, per scoprire qualche verità vera sulla storia della “New York Public Library” nelle sue tre sedi di Manhattan, Bronx e Staten Island, una delle più grandi biblioteche al mondo. E si è gettato nei suoi labirinti e segrete e sale di lettura gigantesche per scoprire su come funzionano oggi questi gioielli, aggrediti dalle nuove tecnologie informatiche e dalla minaccia (sempre in agguato) di tagli pubblici ai fondi necessari per sopravvivere. L'idea è che questa istituzione, secondo una antica tecnica di combattimento del New Deal, può reggere la competizione senza svendere la sua natura comunicativa gratuita, non a finish lucrativo verticale, anche nell'era del Nasdaq, del mercato borsistico elettronico.
Non sempre infatti si eleggono politici che ci difendono dalle avide manone della finanza e delle big company. A volte si scherza troppo, e ci si ritrova giocondamente con un pericolosissimo Trump capace di chiudere istituzioni essenziali solo perché non danno profitti immediati.. Anche se la maturità capitalistica degli States ha saputo quasi sempre (maccartismo a parte) ben gestire commercialmente la cultura (i contenuti sono preziosi per il mercato, sono l'oro della società dello spettacolo) e poi la sede centrale della Public Library (public a metà, come ci spiega il film) è proprio prestigiosa e sembra intoccabile: è quel maestoso palazzone simile a una reggia, con ampie scalinate protette da giganteschi leoni eisensteiniani, che tutti i turisti conoscono e che chi non è ancora andato a Manhattan ha ammirato in tv o al cinema: Newsroom, Law and Order, Sex and the City; e Colazione da Tiffany, Spiderman 1 e 3, Ghostbusters, Prizzi's Honor, Finding Forrester, Il caso Thomas Crown, Chiamami Bernardo, Quiz Show, per nominarne solo alcuni degli oltre 50 "ospiti" di questa superattrazione metropolitana. La spesa pubblica Usa per la cultura è, in percentuale, molto più alta rispetto all'Italia. E' sempre bene ricordarlo a chi si consola a forza di sbeffeggiare le "americanate".
Già. Luoghi superstar. Negli ultimi anni Wiseman per continuare a lavorare con il suo metodo (dai tempi lunghi) ha avuto bisogni di luoghi turisticamente sempre più "forti" che potevano favorire la chiusura dei budget attraverso interventi istituzionali o misti (l'università pubblica di Berkeley nel 2013, il Crazy Horse nel 2011, l'Opera di Parigi nel 2009, l'Assemblea Legistativa di Stato dell'Idaho nel 2006, la Comedie Francaise nel 1996...).
Paradossale no? Il più libero e indipendente dei cineasti nordamericani è quello che viene più sovvenzionato dallo stato. Anche se le sue opere non sono mai agiografiche, si occupino di licei, sistema giudiziario, prigione, ospedale, manicomi, polizia, esercito, scienza, religione, problemi di quartiere, assistenza sociale, scuole per ciechi, moda, commercio, violenza domestica, istituzioni del tempo libero (Racetrack, Zoo, Aspen, Central Park). E non c'è bisogno di ricordare la famosa censura al suo primo film, il carcerario Titicut Follies (1967) durata fino al 1992. Film così, alla Foucault, in Italia non te li farebbero nemmeno girare. O il suo rifiuto di continuare un film se la sotuazione scelta pretendesse di mettere voce sul lavoro durante le rirpese o in sede di montaggio.
Anche perché per andare in un carcere e saper cosa fare per non essere infinocchiati dai direttori tipo Eddie Albert in Quella sporca ultima meta, bisogna, come Wiseman, avere una certa preparazione culturale alle spalle. Diciamo che per Wiseman il cinema è la prosecuzione dell'insegnamento universitario su scala più ampia. E' stato infatti docente alle università di Boston e Brandeis in diritto criminale, diritto di famiglia, medicina legale e psichiatria. La differenza tra il suo progetto enciclopedico e quello di Rossellini è tutto qui, senza per questo avere una esagerata predilezione per i cineasti più accademici.
Torniamo negli spazi della Public Library. Certo non ci racconta come si entra in epoca di terrorismo e di sicurezze accentuate. Però.
Wiseman come al solito ti conquista subito, da eccellente giornalista sportivo, fin dal primo "paragrafo". Interroga bibliotecari alle prese con il web, dove e come diffondere i tesori custoditi nei suoi giganteschi edifici; "spia" gli amministratori in riunione, quando pianificano i nuovi investimenti e gli impiegati che spiegano il rapporto tra finanziamenti pubblici e privati ma negano gentilmente al telefono il prestito e la visione della versione originale della Bibbia di Gutenberg "ci scusi, signore, non è proprio possibile!". Cattura interventi radicali di poeti, storici, saggisti del cinema e maghi della cibernetica invitati a tenere conferenze. Tra questi frammenti, uno è particolarmente interessante. Si tratta di uno studioso dell'Islam nell'Africa occidentale che ha scritto un libro sulla partecipazione attiva dei musulmani nelle prime lotte antischiaviste in Senegal, anticipando di gran lunga i filantropi inglesi del XVIII secolo. A proposito di primati fasulli dell'Occidente. Maledizione non troviamo indicazioni del libro né dell'autore neppure nei titoli di coda. Non si fa pubblicità qui.
Wiseman non fa “documentario documentaristico”: fiancheggia una istituzione in mutazione fertile conoscendo bene il suo funzionamento e obiettivo. Centro culturale vivo, transculturale e aperto alle arti performative, non deposito sterile (e, nel maccartismo, censorio ma questo si sa inutile ricordarlo?) di libri e audiovisivi. Servizio sociale pubblico che offre alla comunità strumenti informativi e aiuti lavorativi finché il capitale privato sarà copioso, ma sotto controllo. Un patrimonio iconografico unico, inoltre, nato più di un secolo fa, di cui gli artisti americani (Andy Warhol soprattutto, ma tanti tanti altri) beneficiano da 100 anni. E ne vediamo gli esiti.
Wiseman si smarca così dalle accuse fatte al cinema diretto di enfatizzare troppo la capacità della realtà di raccontare da se la propria verità. No, bisogna avere un criterio. Il suo più che cinema del reale è macchina desiderante un "mondo realmente rovesciato" come intitolava Fulvio Baglivi una monografia edita dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Roa. Non fare domande in libertà, ma saper dare risposte in anticipo che modifichino il reale. Anche se si èp convinti che un film non serva a nulla, e la realtà è immodificabile. Comunque. Non girare o gironzolare a vanvera.
Il cinema-verità, nato negli anni 60 grazie alle nuove tecnologie leggere (camera 16 mm, magnetofono Nagra) che permettevano di girare in esterni con una certa comodità audiovisuale, teorizzava riprese improvvisate a grande forza d'urto a-grammaticale e non più teste parlanti prestigiose e inamidate intervistate in studio. E anche far dialogare le persone comuni per strada e non concepire più il documentario come solo sociale, strettamente legato al lavoro, ma anche ai temi più vasti delle relazioni umane. Pasolini, per esempio in Gli italiani e l'amore, piegò il cinema verità a una sorta di cinema-documento approfondito, giansenista (come suggeriva Edgar Morin) cioé non purificato artisticamente, con immagini con maggiore valore emozionale perché restituite allo stato bruto, perfino goffe e fortemente soggettivo. Wiseman cerca di socializzare le sue competenze creando un punto di vista singolare-collettivo o individuale-comune attraverso un forte rispetto etico per l'intera struttura e per tutte le articolazioni di sistema.
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Fredrick Wiseman nella Public Library |
*NEL CORSO DELLA MANIFESTAZIONE VENEZIA A ROMA IL FILM EX LIBRIS DI FREDRICK WISEMAN VERRA' PROIETTATO IL 19 AL CINEMA GIULIO CESARE E IL 20 AL CINEMA EDEN
giovedì 22 settembre 2016
Muore a 95 anni Gian Luigi Rondi, dalla critica del potere al Potere del Critico
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Gian Luigi Rondi a destra con Ingmar Bergman sul set di un programma televisivo Rai |
Roberto Silvestri
A 95 anni è morto oggi, 22
settembre, dopo una vita stracolma di onori e potere, Gian Luigi Rondi, l’ex
comunista-cattolico poi costretto dal Papa a scegliere e a diventare “cattolico
e basta”.
Rondi è stato per oltre mezzo
secolo il decano dei critici italiani, cavaliere della Legion d’onore francese
a soli 30 anni, un membro influente del Sncci, il responsabile cinema della Dc
(e quello ombra del C.C.C. e del Vaticano), il direttore della Biennale cinema
e il presidente della Biennale, il presidente della Fondazione Cinema per Roma
e della Festa del cinema, il direttore dell’Enciclopedia dello Spettacolo, il
fondatore e il presidente dell’Accademia del cinema italiano-Premi David di
Donatello, il presidente della Siae (nomina di Berlusconi) e un membro coccolato,
fin da quando aveva 28 anni, delle più importanti giurie festivaliere…Ha
collaborato a periodici specializzati francesi come Cinémonde e Le Film
Français, e con il belga Cinérevue. Critico cinematografico de La Fiera
Letteraria, ha tenuto corsi di storia ed estetica del cinema all'Università
Internazionale Pro Deo (oggi Luiss), a Perugia e a Milano.
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Gian Luigi Rondi in una foto degli anni 80 |
Ed era un critico che sapeva bene
di cosa parlava. Infatti negli anni 50 è stato sceneggiatore per Georg Wilhelm
Pabst, Joseph L. Mankiewicz, René Clair, Jean Delannoy e Ladislao Vajda e ha
partecipato, anche come regista, alla realizzazione di documentari di carattere
storico e biografico (mentre il fratello più giovane, Brunello, allievo di
Chiarini, Fellini, Blasetti e Pasolini, ha scelto decisamente la regia, di
documentari e film a soggetto, oltre che la didattica, al Centro Sperimentale).
Ma Gian Luigi Rondi è stato soprattutto
l’ultimo rappresentante della vecchia guardia della critica, quella anagraficamente
forgiata (nel bene e nel male) dal realismo francese e dal neorealismo, di
colta (e anche accecante) formazione teatrale e letteraria e di spregiudicata
abilità politica, degna di un professionista della Curia Romana o del Soviet
Supremo.
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Rondi con Alberto Sordi |
Ammirava davvero molto anche gli
artisti della politica. Non solo De Gasperi e Ignazio di Loyola, ma perfino il Pcus di Breznev, capace “di
gestire con ordine realtà complesse”. E fu molto omaggiato anche nell’ex mondo
comunista. Così come nell’ambiente post fascista di Alemanno. Un giorno nella
sua casa di via Bertolone a Roma, zeppa di libri magnifici, mi regalò un libro (autografato)
di Miguel Littin, che tra i registi comunisti di Allende era quello che mi
piaceva di meno (già, sapeva colpire con perfida gentilezza).
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Rondi a Venezia con Charlie Chaplin |
Peccato. Si è perso l’ultima
Mostra di Venezia. Ci mancava la sua immancabile sciarpa di seta bianca sul
completo scuro, in sala Grande. E anche i suoi furori critici. Come quando
rifiutò di invitare al Lido Blue Velvet
di David Lynch (“questo pasticcio è un’offesa alla memoria di Ingrid Bergman!”)
o trovava aberrante moralmente e graficamente l’estroversione omosessuale di
Pedro Almodovar. Ma avrebbe sicuramente adorato il film di Lav Diaz, perché il
cinema lo conosceva a fondo, e La la land
(che avrebbe preferito vedere a Roma, dove c’è lo spettacolo e non l’arte sul
piedistallo) ma soprattutto Paradiso
di Andrej Konchalovsky. Perché parlava un po’ di lui, di una partigiana
cristiano che salva la vita di una prigioniera a Auschwitz prendendone il posto
nella camera a gas…. Scrisse infatti Dante Matelli su La Repubblica che quando Rondi era combattente nel Movimento armato
dei Cattolici Comunisti, si travestì, alla Lubitsch, da ufficiale della
Wehrmacht e fattosi consegnare un italiano destinato alla fucilazione, lo
liberò: “discretissimo, di questa cosa non si vanterà mai”.
Rondi è stato sicuramente il
critico cinematografico più decorato “al valor culturale” del mondo (dell’Est e
dell’ovest, del nord e del sud).
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Rondi con Federico Fellini |
Ha diretto di tutto, ha
fondato una Accademia che assegna annualmente i David, ma decidendo lui quali
ne fossero i membri (dilatando, da inguaribile bolscevico, il concetto di
“personalità culturale” al di là dei limiti consentiti), eppure passa per un
premio prestigioso, ma ha partecipato a mille giurie internazionali (quando i
critici erano stimati più delle star) e ha lottato perché vincesse a Venezia Rashomon dell’allora sconosciuto Akira Kurosawa,
riaprendo la nostra cultura a Oriente. Fu un vero capolavoro diplomatico, poi,
la sua giuria tutta composta da esponenti delle nouvelle vagues (da Bertolucci a
Oshima a Sembene Ousmane) che assegnò il Leone d’oro a Jean Luc Godard nel
1983, facendo inviperire i critici seduti alla sua destra (Giovanni Grazzini, e
il Corriere della sera, in
particolare). Eppure collaborava a Le
Figaro,
il cui critico ufficiale si
diverte, in stile Foglio, a ridicolizzare
tutti i cineasti non conformisti del globo. Fu Rondi a presentarmi invece
Abdelsalam, e a farmi scoprire all’Accademia d’Egitto La mummia, un capolavoro del cinema cairota che Rossellini aiutò a
produrre e che avendo poco a che fare con il ricettario del film divertente
spremi emozioni viene bandito dalla critica demagogica tanto alla moda oggi.
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Rondi da Marzullo |
Dal 1950, quando sostituì
Elsa Morante come responsabile radiofonico della rubrica cinema, il
valtellinese Rondi (nato nel dicembre del 1921 a Tirano, provincia di Sondrio,
figlio di un ufficiale dei carabinieri, ma si trasferisce presto a Genova e
finisce gli studi a Roma, dove si laurea in giurisprudenza nel 1945 dopo aver
frequentato il Giulio Cesare) è stato la voce ufficiale del cinema secondo la
Rai, e per quasi mezzo secolo, fino al 1998. I suoi tanti libri, come Prima delle “prima” (sul cinema
italiano) e 7 domande a 49 registi (il 50°, Citto Maselli, unico comunista davvero irriducibile, gli disse no) testimoniano la finezza delle sue intuizioni
artistiche e il coraggio del suo schierarsi. Ma per il suo lavorare nell’ombra
del potere Gramsci lo avrebbe definito “un perfetto rappresentante della classe
dominante”. A chi si lamentava delle fatiche e degli oneri della direzione,
rispondeva sempre: “Ma no. Il potere è bellissimo, ringiovanisce, mai farne a
meno”. E dal 2012 aveva perduto tutte le sue cariche …..
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Rondi con il produttore Goffredo Lombardo |
Però la cacciata di Elsa
Morante fu più che un atto immorale, un vero episodio di maccartismo, con Rondi
connivente o docilmente usato, perché la scrittrice si era giustamente rifiutata di recensire, per
ordini superiori, un documentario prodotto da Luigi Freddi, ex responsabile
della cinematografia fascista, appena riabilitato…Il fatto è che Rondi era ben
stretto al fianco di Andreotti quando nel 1947 il giovane sottosegretario annunciò
che presto sarebbe rinata Cinecittà (il gioiello di Freddi) e basta coi panni
sporchi... Andreotti non poté che ringraziare, per quella dichiarazione, gli
Stati Uniti, perché fosse dipeso da Londra il cinema italiano sarebbe morto per
sempre. E da allora Rondi sarebbe stato anche il consulente cinematografico, ad
alto livello, di un altro stato sovrano, la città del Vaticano (da Pio XII a papa
Giovanni XXIII a Paolo VI “che ne capiva poco di cinema”….), aprendo un gioco
promiscuo che dura tuttora (si veda la Festa di Roma e la scelta “di sinistra” della
direzione Monda), e collaborando strettamente anche con il padre gesuita
Lombardi, il “microfono di dio”. Da cui
la famosa sferzante e geniale battuta poetica di Pier Paolo Pasolini “Sei così
ipocrita che quando l’ipocrisia ti avrà ucciso / sarai all’inferno e ti
crederai in paradiso” (epitaffio che Rondi, naturalmente, adorava, anche perché la tecnica per addomesticare perfino Belzebù, e non solo Francesco Rosi, la conosce perfettamente).
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Con Laura Betti e Pier Paolo Pasolini |
Ho lavorato qualche anno con
lui alla mostra di Venezia, assieme a Enrico Ghezzi, Claudio Trionfera e Bruno
Restuccia, perché probabilmente Rondi aveva anche bisogno, in quel frangente,
di una “copertura” dell’estrema sinistra (allora lavoravo al manifesto), dato che il nuovo statuto
della Biennale, grazie alle Giornate barricadiere, aveva decapitato le parti
più aristocratiche e fasciste del vecchio (e non ha ancora ghigliottinato le coppe Volpi). Ma non fu facile per me accettare
quell’incarico, se non fosse stato per Alberto Abruzzese che insisteva….
Trovavo infatti scandaloso - nonostante la calligrafia critica di Rondi, e
l’essersi battuto contro le zone più fanatiche e bigotte della Dc per difendere
La dolce vita e il Ken Russell dei Diavoli, e poi il Salò di Pasolini - il suo decennale rapporto di lavoro con un
quotidiano, Il Tempo, e con il da lui
più che stimato direttore Gianni Letta, che si era particolarmente distinto per
aver coordinato bugie e nefandezze giornalistiche, durante tutto il ciclo di
lotte 68-77. Indimenticabile.
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Rondi e Ingrid Bergman |
Però poi non me ne sono
pentito perché ho lavorato senza alcuna pressione con una persona gentile e
autorevole, circondato da una squadra di fedelissimi attivi, precisi e generosi (gli straordinari fratelli Longardi, Mario Natale, che sembrava il braccio destro di George Raft, Franco Mariotti... capaci di tenere a bada perfino i mastini della Biennale, quel tesoriere, quel responsabile dell'ospitalità...), ho potuto scoprire film e valorizzare cineasti di grande talento, e
poi mi ha insegnato un sacco di cose. Che bisogna lasciare libertà (quasi)
assoluta a chi si occupa di sezioni parallele. A resistere (apparentemente)
alle telefonate-raccomandazioni di Craxi e Martelli. A organizzare
scientificamente un palinsesto da grande festival. A espellere i documentari e
i cortometraggi perché in quel momento lo stato italiano non li finanziava e la
mostra di Venezia è sostenuta da soldi pubblici. A costruire una giuria in modo
tale che si valorizzino le scelte fatte e si premi chi si vuole premiare. Alla
diplomazia, quando si tratta di rifiutare un film senza offendere il regista o
il produttore, impedendogli odio eterno (tecnica che troppi direttori ignorano). Ma il suo capolavoro politico era un altro. Riusciva a convincere i registi che amava a tagliare il finale, modificare il montaggio, togliere mezz'ora di pellicola. Era più di un regista, di un produttore, di un critico. Era l'angelo custode dei film che prolungava la pratica dello sterminio di emozioni tossiche brevettato in via della Ferratella. Li riplasmava a volontà, quei film, anticipando la legge Mammì (in cambio, poi, li prendeva in concorso).
La cosa di Rondi che mi piaceva di più era che pur lasciando molta libertà ma
rifiutando alcune mie proposte (perché non mettere un Landis o un Dante o un
Edwars o un Bartel in concorso? Forse che la commedia è di serie b?) anni dopo,
memoria di elefante, era pronto a pentirsi, o a fingere di pentirsi, e a confessare: “ah, avevi ragione
sulla commedia, in fondo il mio maestro era René Clair…”. L’unica vera litigata
fu nel 1985 su Donna Deitch e sul suo bellissimo poema lesbico Desert Hearts. Anni dopo mi disse: “Sì,
avevi ragione. Bisognava prendere in concorso quel film canadese…”. Ma la
politica culturale ha i suoi tempi. La sua ora, il suo mese e il suo anno
precisi. Leninista, da sempre, Rondi.
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Rondi e Antonioni |
La sua carriera è stata
infatti un capolavoro di mediazione ecumenica tra i suoi Autori prediletti (da
Tati a Bondarciuk, da Wilder a Bresson, da Bunuel a Rossellini) e il pubblico.
Penetrare spregiudicatamente nel sistema nervoso e cerebrale di un film e
isolarne i punti vitali e quelli malati. Questo il metodo, quasi chirurgico,
con il quale ha restituito i processi alchemici delle opere adorate di Bergman
e Antonioni, Jodorowsky e Fellini (difendendolo dai suoi denigratori bigotti),
Tarkovski e Renoir, Clair e Truffaut, Lizzani e Rosi (a parte Mani sulla città, lì era il partito in gioco). Mai iconoclasti i
cattolici. Una scienza dell’immagine maneggiata da secoli li ha resi così sicuri
nella valutazione critica che colgono l’eresia nascosta addirittura con il
tatto e con l’olfatto. Ma. Non distaccata, non impressionista, non oggettiva,
la sua analisi della narrazione e delle psicologie in campo. Piuttosto la sua
era una critica che sarebbe piaciuta a Georges Poulet, che si esaltava quando
c’era la possibilità di incorporarsi nella scrittura di un’opera, meglio se
ascetica, tragica, mai contaminata da tentazioni di mercato o di comunicazione
facile e demagogica, di happy end posticcio. Il suo limite, forse
generazionale, fu quello di non abbassare mai, come ci invitavano a fare Allen
Ginsberg e i poeti beat, il baricentro critico, più giù del cervello, nelle
parti basse e non alte del corpo. Gli anni 50 italiani, dal punto di vista
della sessualità, furono infatti i veri anni di piombo di quel secolo, delle
corazze muscolari imposte, delle ipocrisie fanatiche e bigotte (che Pasolini
smascherò acutamente in quell’epitaffio perché conosceva bene chi resisteva al
coming out) foriere di tragedie, nevrosi e psicosi (non solo individuali) ma
anche di errori, fraintendimenti e incomprensioni critiche, a non finire.
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Rondi e Gina Lollobrigida |
Diversamente “rigidi” anche
molti altri colleghi critici della sua generazione, che non compresero la
rivoluzione delle segnaletiche estreme, il camp, il trash, la sensibilità gay e
l’insorgenza di un genere (l’horror spinto) che stava diventando metafora di
quegli orrori planetari studiati e profetizzati da Rossellini analizzatore del
rapporto Mit. E cioè Grazzini, Aristarco, Biraghi, Kezich, Micciché, Bianchi,
Casiraghi e Savioli. A differenza del più raffinato e meno istituzionale e per
nulla sessuofobico Giuseppe Turroni, conoscitore profondo della pittura, della
fotografia, della musica, della narrativa visuale e soprattutto vitale di
quegli anni. Di Cosulich che osava scrivere su Abc e recensire Mekas e dei giovani turchi formalisti e post strutturalisti di Cinema & Film e di Filmcritica, Macini, Cappabianca, Ungari, Aprà, Menon, Donda...
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Con Sylva Koscina e Nino Manfredi |
Però per chi della mia
generazione si è innamorato negli anni 50 del cinema la presenza ingombrante di
Rondi, prima ancora di quella di Edoardo Bruno o Adriano Aprà, era inevitabile,
come quella di Sadoul in Francia, che ostruiva l’incontro con Bazin e Daney. Da
piccolo, in vacanza, durante la Mostra del cinema di Venezia, quando si
invitavano i doc di Pretoria nazista perché chi la dirigeva erano ancora fascisti
riciclati, leggevo le belle critiche cinematografiche di Gian Luigi Rondi,
belle perché mi facevano sentire proprio come se fossi al Lido, e invece
prendevo le granite di limone del caffè Cin Cin di piazza Sant’Oronzo, a Lecce,
perché mio nonno, ex operaio delle ferrovie ma fascista, perché i rossi lo
schernivano in quanto invalido di guerra (la prima), comprava sempre e solo Il Tempo di cui Rondi era titolare di
rubrica. Rondi era anche una faccia conosciuta, una sorta di Marzullo
preistorico, il monopolista Rai della critica (radio e televisiva). L’incontro
tra i due, sul set del programma cinema di Raiuno, è stato come un passaggio di
consegne ufficiale e un bel modo di confrontare le epoche. E di verificare,
forse, la morte di quel cinema. Dal mondo di Tino Ranieri si è passati al
salotto di Anselma Dell’Olio. Che Rondi ha un po’ anticipato imitando i grandi
sofisti: un po’ stalinista, un po’ troppo bacia pile e perfino un pizzico
democratico-liberal, supercinico tranne nel sottomettersi all’Impero del
Mercato. Negli ultimi anni infatti il berlusconismo non lo ha solo subito ma
anche fiancheggiato. Per esempio quando ha voluto rendere omaggio a Gualtiero
Jacopetti e al suo cinema così banale così mainstream così ovvio, ma così
seducente per chiunque faccia della centralità occidentale un feticcio, per
chiunque non si accorga neppure di essere naturalmente, spontaneamente “razzista
alla Churchill”. O alla Lorenzin. Per
Rondi questa tecnica del piacere a tutti era frutto di una lunga pratica
egemonica e a tutto campo. Non a caso chiese ad artisti eterogenei come De
Chirico, Vespignani, Clerici, Caruso e Maccari di fare il ritratto della
amatissima madre, morta nel 1979, e che ha considerato sempre la sua unica
grande maestra di gusto.
Per me questo deambulare
ovunque era un po’ l’annichilimento di tutto il suo percorso critico. Ma c’è
chi non può permettersi il lusso di “perdere”. Costi quel che costi. Se no si
muore.
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