Visualizzazione post con etichetta Jean Cocteau. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Jean Cocteau. Mostra tutti i post

sabato 17 febbraio 2024

Raccordi morali. Il cinema "straubico" di Danièle Huillet

Roberto Silvestri
“Il linguaggio filmico di Straub-Huillet è, tra l'altro, un linguaggio che privilegia il poco, un linguaggio di economie. E' anti-barocco. E' la creazione di uno spazio talmente limpido e fortemente studiato e necessario, che qualsiasi movimento, poi, qualsiasi scarto, qualsiasi trasgressione (studiata o fortuita) all'immobilità e al silenzio, vi acquista una risonanza enorme, mette in moto una catena inarrestabile di conseguenze espressive... Straub-Huillet ci mette sulla strada dell'utopia estetica più radicale: quella di un'arte che smetta di essere altro dalla realtà per aiutarci – con indifferenza, purezza, ostinazione - semplicemente a viverla”(Giovanni Raboni, Vita e Pensiero n.6/7 1971)
Scrivere su Straub-Huillet, così come sul suo compagno d'arme Jean-Luc Godard, quant'è difficile! Eppure come è indispensabile districare il loro modernismo (intessuto di Brecht, Kafka, Renoir, Fortini, Schoenberg, Boell, Vittorini, Pavese, Cezanne, Malraux, Bernanos...) rispetto al coevo - e a volte è “pura fiacchezza” direbbe Straub - cinema della modernità (“non si può tagliar a caso tra due inquadrature” in nome della forma che è forma che è forma....Non si può misurare la grandezza di un regista dal budget dei suoi film che crescono progressivamente a dismisura, e che per Bunuel e Nic Ray, era l'orrore di Hollywood). Ogni critico cinematografico dovrebbe confrontarsi con le opere di Straub-Huillet (in ordine alfabetico capovolto) che schiudono non superficiali immersioni esistenziali, letterarie, storiche, scultoree, fonetiche, musicali, pittoriche, circensi, soprannaturali e politiche, prima di esprimere giudizi e verdetti d'arte e parlare di barocco, camp, cinema d'autore, manierismo, romanticismo, classicismo, trash o postmodernismo... Infatti. Negli anni 60 e 70 i cineasti di ricerca, gli underground soprattutto, scrivevano anche presentazioni-prosecuzioni-provocazioni a proposito dei loro film (in forma di auto-recensione o di suggestione o di premessa o di aiuto, o di depistaggio) per contribuire a finish ricettivi più rigorosi cioé stupefaceni. Così, quel che pubblichiamo qui sotto, è la nota di presentazione scritta da Straub su Othon, il primo lungometraggio italiano della coppia che di impero romano tratta, parallelamente alle riprese di Claro, il film che contro l'Impero romano Glauber Rocha e Juliette Berto giravano attorno al Colosseo a ai Fori (che come diceva Franco Citti a Ninetto Davoli erano i quartieri “fori dar centro e dai palazzoni dei ricchi patrizi nell'antichità”). Lo scritto è stato proposto in forma di ciclostile dalla Deutsche Bibliothek di Roma del Goethe-Institut per le proiezioni di lunedì 20 marzo e martedì 21 marzo 1972 di Il fidanzato, l'attrice e il ruffiano (1968), Les Yeux ne voulent pas en tout temps se fermer ou peut-etre qu'un jour Rome se permettra de choisir a' son tour, cioè l'Othon da Corneille (1969), Machorka-Muff, da Heinrich Boell (1962) e Cronaca di Anna Magdalena Bach (1967). Del quale Straub scrive: “Il punto di partenza era l'idea di tentare un film nel quale la musica venisse utilizzata non come accompagnamento, né tanto meno come commento, ma come materia estetica. Si potrebbe dire in concreto che volevamo cercare di portare della musica sullo schermo. Tutti sanno che Bach è morto da diversi anni e io non intendo tentare di dare l'illusione di avere risvegliato Bach dalla morte. Per questo prendo un tale che si chiama Gustav Leonhardt e che non deve necessariamente somigliare a Bach...Non diremo ecco Bach. Direi piuttosto che si tratterà di un film su questo signor Leonhardt”.
Comunque il cinema S-H attira sempre più pubblico: l'esperienza schermica è, infatti, unica per comprendere cosa ci fu di dionisiaco e apollineo a un tempo nella “soggettività desiderante”, cuore del sistema epistemico sessantottino-settantasettino. Col termine “episteme”, Foucault designa l'ampio campo discorsivo in cui si posizionano in una determinata epoca i sentimenti (odio, amore) e le conoscenze, da quelle più intuitive fino a quelle maggiormente formalizzate. Più che di “pubblico” nel loro caso si tratta di “spettatori non riconciliati con i padroni dell'esistente”. Come diceva Straub: “Sono le linee di demarcazione che creano il nostro pubblico. E le linee di demarcazione finiscono per essere, in un modo o nell’altro, linee che corrispondono alle divisioni in classe e alla lotta di classe”. Jean Cocteau aggiungerebbe una frase che piaceva molto a Straub-Huillet e che riportarono nella nota di presentazione alla Berlinale (e poi a Locarno e Venezia) di Non riconciliati (Nicht Vershont), il film del 1965 che in 60 minuti percorre mezzo secolo di storia tedesca: “Sono le famose 'elites' a sbarrare il nostro cammino. Il popolo è sensibile alla bellezza, anche se lo confonde. E i nostri film che sono accusati di essere fatti per una minoranza devono saltare quell'ostacolo e cadere in questa maggioranza che giudica sempre più istintivamente e non è ancora chiusa al nuovo dalla routine delle mode”.
Il cineasta portoghese Pedro Costa nel 2001 nel crito-film, ovvero nel volantino di presentazione, Jean-Marie Straub-Danièle Huillet cineasti – Dov'è finito il vostro sorriso nascosto? penetra nella sala montaggio di Sicilia! alla ricerca del metodo di messa in forma di un pensiero. “C'è l'idea, poi una materia da combattere e poi la forma. Le cose esistono solo quando trovano un ritmo, una forma, come la libertà. La libertà di cui si straparla in astratto è molto materiale: è come la libertà di un musicista che è libero quando domina perfettamente la sua macchina. Tommaso d'Aquino che era napoletano e conosceva bene queste cose diceva che l'anima nasce dalla forma del corpo. L'ho detto 40 mila volte”. Vi si scopre qui, grazie a Pedro Costa, che Danièle continua a chiamare “Straub” dando a volte del lei al suo partner di sempre e che non è affatto vero che lei si occupava soprattutto di immagini sonore e di montaggio mentre lui degli aspetti visivi, ogni frazione di secondo è discussa per ore insieme, non senza polemica (c'è o non c'è una sfumatura irridente, gli occhi che ridono, in quel primo piano? Ed eccoli a cercare quel sorriso nascosto...). Bunuel, Eisenstein, Tati e Mizoguchi, sì. Cassavetes e Woody Allen, no, “non fanno che variazioni su generi televisivi”. Musica? Bird non “Dixie”! E “non abbiamo mai usato una segretaria di edizione. Certo che quella di Hitch, però, era fantastica. E: “la psicologia non deve essere degli attori che recitano ma del passaggio di montaggio -attrattivo- tra un piano all'altro, lì avviene qualcosa di molto più complesso della psicologia, una questione di etica”. Il raccordo morale. Il femminismo di Huillet ricorda quello di Rossanda e Von Trotta: la questione delle donne, piuttosto che essere una questione politica separata, rientra nella politica della sinistra rivoluzionaria. Ma.
In un acutissimo saggio del critico dei Cahiers du cinema Jean-Claude Biette su “Troppo presto, troppo tardi” (1982) - il montaggio di due documentari, uno sulla campagna francese e l'altro sulla campagna egiziana commentati in voce off da Engels (sulla condizione dei contadini dell'esagono prima del 1789) e di Mahmoud Hussein (sulla storia egiziana e sugli sforzi per uscire dal colonialismo) leggiamo: “Credo che in tutti i film di Straub-Huillet si mescolino attivamente due passioni, la politica e l'estetica. La prima fondata sull'odio e la seconda sull'amore. Nei loro film l'odio è il motore della passione politica, l'amore quello della passione estetica. E' infatti una questione di passioni, e questo appare sia quando i film vengono violentemente rifiutati che quando sono amati. Due tipi di personaggi o di figure ne rappresentano i poli: gli uni, positivi, sono sia i resistenti, personaggi particolarmente forti o non totalmente lucidi (come la nonna di Non riconciliati) o di una lucidità che eccede la realtà (il Mosé di Schoenberg) che gli artisti (dalla forte capacità di resistenza): Brecht, Pavese, Fortini (con, in quest'ultimo caso, la fortuna di poter mettere faccia faccia l'autore con i propri scritti). Gli altri, negativi: banchieri, avvocati, militari, uomini di potere, agenti della repressione e democratici opportunisti... Ma l'odio e l'amore non sono puri e e non appartengono a una sola parte: il primo che sarebbe rivolto ai personaggi negativi e la seconda ai positivi. D'altra parte l'odio non è una colorazione esclusiva della passione politica (Straub-Huillet ama gli oppressi), né l'amore la colorazione esclusiva della passione estetica (odia i clichés, le inquadrature senza senso, le durate inutili, la pornografia – intesa come belluria, orpello, esagerazione ridondante, colorazione sentimentale eccessiva; ndr). Odio e amore sono strettamente legati e scambiati, ma questo innesto di due passioni - la cui composizione esatta ci sfugge - è precisamente quel che orienta la più o meno grande riuscita dei suoi film...”. Naturalmente sia i personaggi positivi che negativi nella loro iscrizione cinematografica straubiana sono trattati nella stessa maniera, in modo quasi democratico, creando effetti di spaesamento di fronte ad attori divisi tra un testo da memorizzare in maniera non naturalistica e una macchina corporale che vorrebbe liberare la propria energia liberamente ma ha il dovere di sottomettersi agli ordini misteriosi e implacabili di ciascuna inquadratura.
A Tokyo (fino al 16 marzo) e alla Cineteca di Parigi (fino all'11 marzo) sono state organizzate due retrospettive complete delle opere di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Il sito ufficiale Straub-Huillet ci aggiorna comunque periodicamente sulle proiezioni dei loro film in tutto il mondo (più in Thailandia che in Italia per la verità nel 2023). Ma sono disponibili su RaiPlay almeno quattro delle 52 opere - lotta tra le idee e la materia - di Jean-Marie Straub (30 firmate con Huillet), si tratta degli ultimi lavori, in lingua originale con sottotitoli del solo Jean-Marie: L’Aquarium et la Nation (Francia, 2015, 31'18”, testi da André Malraux, Les Noyers de l’Altenburg e The Walnut Trees of Altenburg); Où En Êtes-Vous: Jean-Marie Straub? (Svizzera, 2016, 9'), Les Gens Du Lac (Svizzera, 2018, 18'44”, testo di Janine Massard), La France Contre Les Robots (Svizzera, 2020, 9'53” dal testo di Georges Bernanos). E su Mubi c'è Omaggio all'arte italiana (2015).
INTRODUZIONE AL MIO FILM "LES YEUX NE VEULENT PAS"
di Jean.Marie Straub
Il film congiunge dapprima due colline, che si trovano oggi in mezzo alla città: il Campidoglio e il Palatino; tra le due, delle abitazioni popolari. Il Campidoglio era il centro religioso della Roma antica e sul Palatino – oggi un unico mucchio di rovine – era stata fondata Roma e hanno abitato ben presto i ricchi, i potenti e i padroni dell'Impero romano; lassù si trova un albero, e ai piedi dell'albero una caverna nella aquale, durante l'ultima guerra, i comunisti nascondevano di giorno le armi che utilizzavano la notte contro i padroni di allora, i nazisti e i fascisti.
Poi comincia, ancora più in alto sul Palatino – su una terrazza lunga, deserta, circondata dalla città attuale, dove stava una volta il palazzo dell'Imperatore Settimio Severo, una tragedia spesso comica, perfino ridicola – rappresentata da gente che porta i costumi romani.
La tragedia si chiama Othon. Uno dei più grandi poeti della letteratura francese, Pierre Corneille, l'ha scritta; essa fu rappresentata per la prima volta alla corte del re Luigi XIV a Fontainebleu, il 3 agosto 1664 – e in seguito 30 volte soltanto tra il 1682 e il 1708 alla Comédie Francaise; dopo mai più. Pierre Corneille scrisse una prefazione: “Se i miei amici non mi ingannano, questa tragedia eguaglia o supera la migliore delle mie. Una quantità di suffragi illustri e soldii si sono dichiarati per essa, e se oso unirvi al mio, vi dirò che ci troverete una qualche giustezza nella condotta e un po' di buon senso nel ragionamento. Quanto ai versi non ne sono mai stati visti di miei ai quali abbia lavorato con maggiore cura. Il soggetto è tratto dalllo storico latino Tacito, che inziia le sue Storie con questa, e non ne ho ancora messa nessuna sul teatro a cui io abbia serbato maggiore fedeltà e prestato maggiore invenzione”.
Pierre Corneille non era un uomo di corte, eera giurista nella città di Rouen e odiava la corte – e dei Romani almeno i patriottismo e l'imperialismo (opere precedenti come Horace e Nicomède lo provano). In Othon si tratta del potere e dell'amore. Il potere, cioé soltanto minaccia, ricatto, cinismo di una classe che da secoli lavora alla propria rovina e a quella del nostro pianeta. “Occupiamoci della nostra sicurezza e burliamoci del resto. Niente, niente bene pubblico, se ci di viene funesto; non viviamo che per noi, e non pensiamo che a noi” dice il prefetto Lacone nel corso della tragedia; lo stesso Lacone dice di Pisone, che propone come imperatore: “Pisone ha l'anima semplice e lo spirito abbattuto; se ha grande nascita ha poca virtù...” e dice due minuti dopo dello stesso Pisone: “Ha virtù, spirito, coraggio”. La tragedia mostra che il potere rende tale gente impotente in amore.
La tragedia consiste in cinque atti. Tre si svolgono nella terrazza del Palatino. In quarto atto si sovlge in un parco cion una fontana barocca e una villa del XVII secolo. L'ultimo atto si svolge di nuovo tra le rovine romane, ma più in basso. Camilla che nella storia di Tacito non esisteva, che è dunque un'invenzione di Corneille, rappresenta qui il paese, che non è mai consultato, e del destino del quale una cricca decide.
Alla fine del film Albino resta solo tra le rovine; nella Storia l'Imperatore Ottone doveva uccidersi tre mesi dopo sul campo di battaglia, per evitare che continuasse lo spargimento di sangue dei romani.
Il testo detto nel film è il testo originale francese completo di Pierre Corneille; gli attori, per tre mesi, lo hanno letto, imparato, ripetute e esercitato ed è stato poi unicamente recitato a memoria, registrato durante quattro settimane sui luoghi stessi.
I sottotitoli italiani cercano di comunicare un'impressione della lingua di Corneille, molto serrata eppure semplice, molto moderna eppure straniera; questi sottotitoli sono una traduzione (di Adriano Aprà e Gianni Mingrone, Danièle Huillet e mia) sempre letterale, eppure frammentaria, del testo parlato e non c'è nemmeno il bisogno di leggere tutti questi sottotitoli; sono lì, offeti alla scelta dello spettatore, come segnali. Piché il testo parlato, le parole, non sono qui più importanti che i ritmi e i tempi molto differenti degli attori, e i loro accenti (diversi accenti italiani e francesi, uno inglese, uno argentino); non più importanti dlelel oro voci particolari, (sor)prese nell'istante, che lottano contro il rimore, l'aria, lo spazio, il sole e il vento; non più importanti dei loro sospiri emessi loro malgrado o di tutte le altre piccole soprrese della vita registrate allo stesso tempo, come i rumori particolari che di colpo prendono un senso; non più importanti dello sforzo, il lavoro degli attori (sono io stesso tra loro – come il cattivo Lacone, perché volevo esserci) e il rischio che essi corrono, come dei sonnambuli o funamboli, da un capo all'altro di lunghi frammenti di un difficile testo; non più importanti della cornice nella quale gli attori sono chiusi; o dei loro movimenti o le posizioni all'interno di queste cornici, o dello sfondo davanti al quale si trovano; o dei cambiamenti e gli sbalzi di luce e di colore; non più importanti, in ogni caso, dei tagli, dei cambiamenti di immagini, delle inquadrature. Se si tengono orecchie e occhi aperti a tutto ciò, si potrà anche trovare il film avvincente e scoprire che qui tutto è informazione – ancche la realtà puramente sennsuale dello spazio, che gli attori lasciano vuoto alla fine di ogni atto: come sarbebe dolce, senza la tragedia del cinismo, dell'oppressione, dell'imperialismo, dello sfruttamento, la nostra terra. Liberiamola.

martedì 13 settembre 2022

Prénom Godard. Chi scriverà più le immagini ora che la "politica dell'autore" è morta?

Di Roberto Silvestri
Prima di lui si andava comodamente nel cinema sotto casa, soprattutto in famiglia. Da almeno tre decenni (1920-1950) la settima arte era regredita – più ancora in Europa che in America - a poco a poco a tempio del conformismo calligrafico, della narrazione compiaciuta di sé, della recitazione pompier e tossica, tra codici Hays e censure bigotte, in molti casi fasciste, terrorizzate dalle immagini. Ma dopo lo tsunami Godard, dopo la scomposizione che lui ha attuato, come un gioco contagiante, su tutti gli elementi del linguaggio visivo, sonoro, non verbale, gestuale, comportamentale, involontario, e della memoria combinatoria che attiva la ricezione (se era vietato fare un primo piano con un grandangolo ebbene lui lo faceva, se il montaggio deve essere invisibile ecco il jump cut continuo), andare al cinema è diventato certo un gran lavoro ma anche un vero piacere, un divertimento da parco giochi, un’avventura dell’occhio-mio-dio, un gesto chic e snob e sovversivo. Ti sentivi uscire dal tuo corpo, essere Belmondo e Karina allo stesso tempo. Solo contro il mondo. Estasi.
Avevi scoperto finalmente qualcosa che non avresti mai trovato nella letteratura, nella musica, nella pittura, nell’architettura. “La verità 24 fotogrammi al secondo”, parafrasando Cocteau (“il cinema è la morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo”) vuol dire poter cogliere le cose vere, cioè mutanti e conflittuali, che il visuale paralizza nell’ideologia, e “trasformare la notte in luce”, come scrive nel suo virtuale libretto rosso mai pubblicato, perché noi, fuori dalla sala buia, non vediamo di non vedere. Pochi registi erano riusciti prima di Godard a liberarsi dai lacci e legacci imposti dai produttori – e, ricordiamolo, un film è un rapporto a due: regista e produttore, e Godard preferiva Thalberg a von Stroheim - mandando segnali segreti a critici ribelli e spettatori perspicaci. Les années Cahiers lo vedono alla macchina da scrivere a liberare nelle sue recensioni le immagini vitali incastonate nei mélo di Sirk, nei thriller di Hitchcock, nelle tragedie femministe di Mizoguchi e nelle commedie di Tashlin e Blake Edwards.
Ecco perché Godard - e anche i suoi critofilm più incomprensibili, i suoi film-saggio più rivoluzionari e filosofici - piace nel subconscio a Hollywood. Ma quell’Oscar alla carriera lui l’ha rifiutato sdegnosamente, per non essere da meno di Marlon Brando (e per farsi premiare di più). Il suo decennale lavoro sulle unità spazio-temporali della sequenza ha vivisezionato funzioni e procedimenti di un film, e perennemente fatto rinascere il cinema, che se non sconvolge tutte le funzioni, logiche e emozionali, del nostro cervello, non c’è. Non esiste. E da neo-formalista (adorava Eisenstein e come era indignato con Kenneth Anger quando osò rimontare Que Viva Mexico) ha attivato in tutta la sua ultracentenaria opera sensazioni, intellezioni, immaginazioni e memoria, anche rianimando forme antiche e dimenticate: ecco “il bello”, che non è la copia di un modello, ma di un monello. Ecco la funzione estetica, attivare la costituzione d’oggetto e la formulazione di immagine. Abbassando il più possibile i costi di produzione. Lavorando sodo, come un falegname, un operaio. Senza guadagnare di più. Si tratta di psicosi egualitaria? No. Di come si intende democrazia. Lui la intende come Thoreau, Whitman e gli altri trascendentalisti americani dell’800 romantico e utopistico, pur con le sue origini calviniste, da dio cattivo che punisce, sono pochi i non peccatori. La intende come priorità delle persone e non dei proprietari. Prendiamo una sequenza western normale (non alla Monte Hellman, che adorava tanto quanto non sopportava Woody Allen). Arriva il cowboy a cavallo, attacca il cavallo alla sbarra entra nel saloon e la cinepresa lo segue. Ebbene Godard non lascia mai il cavallo. Resta con lui. Il cinema è atto, movimento, tragitto, mai personaggio….
Con Godard il cinema tornò quell’avventura sulfurea, delle origini, quel montaggio delle attrazioni da circo che trasforma le nostre parti basse in general intellect. Il teatro in documentario e viceversa. Strano che Guy Debord, criticandolo da sinistra lo definisse “il tipico cineasta borghese". Anche se si riferiva al Godard primo periodo, quello della modernità di fraseggio, della soggettività desiderante, dell’anarchia come programma minimo, quello che lo stesso Godard poi ha autocriticato reinventandosi – chi non ha vissuto quei momenti non riuscirà a comprendere l’ovvietà di quella decisione, tra stragi di stato e Vietnam, polizia assassina e mostri prepotenti al poyere ovunque - come militante rivoluzionario maoista, e assieme a Gorin fondando il gruppo Dziga Vertov per realizzare dal 1968 al 1974 non film politici ma film fatti politicamente, ovvero applicando correttamente la politica dell’autore (che non è come si crede erroneamente sovranità del regista, ma sovranità della politica, committente le masse). Godard "ha giusto delle idee di cinema, più che delle giuste", e senza indipendenza e piena libertà, dunque senza basso costo e senza il costante aggiornamento sulle tecnologie audio, suono, video e digitali da dominare teoricamente ("bisognerebbe pagare chi vede la tv, non chi la fa"; oppure "i telereporter sono criminali di guerra", infine "i bambini sono prigionieri politici") Godard non sarebbe un pedagogo, come Rossellini gli ha insegnato ad essere e Serge Daney (il critico francese "di fase" più stimolante alla fine del secolo scorso) ha confermato che fosse. Da Ici et Ailleurs, Numéro deux e Comment sa va in poi, insomma dal 1974, prima a Grenoble poi nel villaggio svizzero di Rolle, cantone di Vaud, Godard mette in scena solo "persone che si fanno la lezione". Il Godard di questa "parte seconda" è soprattutto quello elettronico, che lavora per le sue società "Sonimage" e poi "JLG Film", assieme alla fotografa, artista multimediale e cineasta e storica dell’arte Anne-Marie Miéville. Ha gelato l'amicizia con Francois Truffaut, ha avuto un orribile e traumatico incidente di moto (nel 1972, in piena militanza maoista, quando ha abbandonato la totalizzante "unità di produzione Dziga Vertov" e il suo alter ego Jean-Pierre Gorin, ma metterà alla prova il metodo marxista-leninista non solo rispetto alla lotta di classe in Occidente e nei paesi dell’Est Europa o alle insorgenze anticoloniali in Mozambico e in Palestina, ma alla costruzione di un’immagine, e alle questioni interiori e sotterranee del privato, alla crisi ambientale, all’uscita dall’antropocene. Insomma il suo è un surplus di cinema politico, mai riflusso. Solo Godard (e Straub e pochi altri) combatte, con raffinata tecnica pugilistica, contro la televisione e il visuale virale e brutto di certo cinema (a volte contro Spielberg e Bertolucci) e di certa televisione, ma sul loro stesso terreno, campo contro campo. Truffaut diceva che Godard "ha sempre pensato al di sopra dei propri mezzi", ma certo molta tv e molta Hollywood pensano ben "al di sotto dei loro mezzi"... Ponendosi, per esempio in Je vous salue, Marie, non problemi di verginità della Madonna, ma di purezza/sporcizia dell'immagine. Il critico Alberto Farassino, scomparso troppo presto, grande studioso di Godard a cui ha dedicato un fondamentale Castoro, ricorda nella versione ampliata del 1996 una sua frase bellissima: "Dato quel che è accaduto in Cile, il fascismo, Pinochet, la mia vita prende di conseguenza una direzione piuttosto che un'altra. Quando incontro qualcuno non mi interessa dirgli che il fascismo è buono o cattivo, o che Pinochet è un imbecille. Gli parlo di me e di lui".
“La macchina infernale capace di generare fantasmi e di infondervi vita e anima, di giocare pericolosamente al confine tra il visibile della nostra vita quotidiana e l'invisibile di un aldilà inconoscibile”, insomma il cinema secondo Cocteau, diventa per Godard sempre qualcosa d’altro, di differente, di contraddittorio, il contrario di prima. E’ la sensibilità postmoderna, ovvero soggettività drastica coniugata a altissima etica politica che lo invita al nomadismo, alla deriva, al continuo cambio di set mentale. Ancora una volta. Il lago, le montagne, il cane, quei certi quadri adorati, quella letteratura amata (il buffone shakespeariano, l'idiota dostoievskiano...), diventeranno gli elementi visuali fissi e di suggestione da impasto, molto più importanti delle storie, sempre "da non raccontare", o della Storia, da non perdere mai di vista, o della storia del cinema, che andrebbe bruciata. Se i film sono merci bisognerebbe bruciarli. Ma con il "fuoco interiore". Perché l'arte nasce da ciò che brucia. Così Godard, l'artigiano, il grande parlatore seducente (assistere a una sua conferenza stampa era come entrare nello stand della donna barbuta) lavora molto negli anni 80 per la tv di stato, da cattivo allievo di Rossellini: ecco le videoconferenze, le lezioni sul centenario, gli spot, ma anche i remake, produttivi non iconografici, come Fino all'ultimo respiro. II Leone d'oro di Venezia con Passion (una magnifica giuria tutta nouvelle vague, scelta da Rondi, con Bertolucci e Oshima tra gli altri, non poteva non premiarlo) fece inorridire il critico del Corriere della sera che, coraggiosamente lo stroncò, a rischio di perdere la direzione del Centro Sperimentale di cinematografia che, lo dice la parola stessa, o è godardiano o non dovrebbe neppure esistere.
Negli ultimi anni ancora scandali, detour. Una torta in faccia a Cannes, l’invito recente a votare Le Pen, inorridito dalla fine del socialismo, capelli perennemente arruffati e Gitanes papier mais in bocca. Forse aveva ragione Debord. L’ultimo grande borghese è morto.