di Roberto Silvestri
Tre ragazzi americani tre
anni fa fermarono disarmati, su un treno in corsa, un coetaneo stragista
all’opera. Poi hanno scritto in un best seller la loro storia. E Clint li ha
fatti esordire come attori a raccontarci questa avventura straordinaria e i suoi
retroscena. Un instant movie che utilizza e stropiccia
sistemi emozionali di ogni tipo (action movie, spiritual movie, racial movie,
school movie, road movie, femminist movie, buddy movies, war movie, sex movie,
film commission movie…) e perfino materiali di repertorio con tanto di
presidente Hollande in campo, e risponde alla domanda che tutti ci poniamo. La
domanda non è: come mai in America tutti
sono attori nati come Alec Skarlatos, Anthony Sadler e Spencer Stone? Ma: cosa possiamo fare noi cittadini disarmati davanti
a un gruppo organizzato, dinamitardo, e presumibilmente disperato di morituri
che può massacrare decine e decine di civili ovunque e in qualsiasi momento nel
mondo? Dobbiamo armarci tutti, uomini e donne e bambini, come urlano i
reazionari collusi con la Beretta? Dobbiamo riempire le strade e le piazze di
mercenari pubblici e privati agganciati agli MK17? No. Clint dice no. Il
fascismo non si combatte così. Ce lo ha insegnato Franklyn Delano Roosevelt.
Nella prima parte del film i tre bambini, che fanno a pezzi assieme alle loro
mamme l’ipocrisia e la pericolosità dell’insegnamento cattolico, si interessano
solo alla seconda guerra mondiale, studiando strategia militari sul fronte
orientale e occidentale, con la stessa grinta e passione di George Lucas
davanti alla sua collezione di supereroi Marvel. Sorprendente questo detour per chi ha sempre preferito i repubblicani, i presidenti
forti che non dimentiano l’opzione atomica, e enfatizzato il concetto di
individualismo drastico come base della civiltà Usa. Davanti a scenari inediti,
però, ci spiega Eastwood, si richiede un salto di ingegno, una deviazione dalla
ragione comune e dalla immaginazione solita. Due dei tre amici sono bianchi.
L’altro è nero. I due bianchi amano le pistole - l'altro ricorda sarcasticamente che gli african american frequentano poco la caccia - con la stessa determinazione del
protagonista di Gun Crazy, il noir di
Joseph H. Lewis del 1950 che raccontava come la passione per le armi, e per
saperle usare con grande competenza, non sia solo sintomo di pulsioni autoritarie
distruttive, ma a volte garanzia di democrazia, se non deviata dalle maligne (in quel
caso) macchinazioni di una femme fatale o strumentalizzate da dittatori pericolosi.
Questo non è sorprendente. Fin dall’epoca dell’ispettore Callaghan, Clint, come
Rossellini, ha sempre affermato l’importanza della storia per comprendere
meglio le novità che attentano alla convivenza democratica anti razzista e
antisessista. Se la giustizia diventa formale bisogna darle uno scossone sostanziale. Solo chi è in malafede non ha capito che questa radiografia
d’America aiuta a capire il mondo che cambia attraverso ipotesi nuove. Dunque
che Clint è un cineasta d’avanguardia.
Alec Skarlatos, Anthony Sadler, Spencer Stone |
Nessuno si aspettava, però,
un film così. Squilibrante. Strano. Semplicissimo. Può causare irritazione
patologica. Oltretutto è vietato in Gran Bretagna ai minori di 15 anni! Gore,
sesso, parolacce, una sceneggiatura demenzial-popolare che ha tolto - come
faceva Bresson - ogni inutile orpello psicologico alla triade gloriosa (merito
di una rookie, e Clint adora i
giovani alle prime armi come Dorothy Blyskal). 15,17 to Paris è soprattutto una rilettura storica dei fatti non
agiografica e una concezione spirituale della vita che fa infuriare accademie,
chiese e tromboni vari. Il cittadino armato può essere utile solo se la società
e sana a possiede valori comunitari alti. Questo è il messaggio che
infastidisce. Sembra che Clint parli dell’Armata rossa, russa o
cinese, o dell’esercito popolare svizzero…
Si è detto invece, in America
e qui. Questa trilogia sull’eroismo americano dell’uomo comune avrebbe
riesumato alfine lo sciovinismo destrorso del regista. Si sapeva, no? Clint ha
sbagliato sempre al voto, da Nixon a McCain a Trump… Ma questa volta, più che
davanti a American Sniper e Sully, gli altri pezzi della trilogia seccante sull’eroismo dell’uomo comune -
comune poi fino a un certo punto
perché sono tutti e tre fortunati e ben addestrati e soprattutto non sono loro
ma un altro il primo che disarma il terrorista, altro guizzo destabilizzante
della storia - qualcosa ha fatto deragliare l’intelligenza e i nervi degli
spettatori, professionali o meno. Tanto che ci viene un sospetto. Per gli
anarchici come Clint il voto nullo è proprio come un’estasi erotica. E quali
voti sono stati più nulli dei suoi (a favore di baby kisser scacciati o sconfitti o smaniosi di impeachment…)?
“Film commerciale – ricordava Renoir a Rossellini – non vuol dire ricerca
del profitto a tutti i costi, coi mezzucci e l’uso di algoritmi dello
statisticamente corretto, ma imporre un’estetica”. A una certa età
ridicolizzare quell’estetica omogeneizzante (per esempio quella ben ricalcata
da Greengrass in un blockbuster simile, ma esageratamente leccato e adorato, United 93) deve essere diventato la
piacevole missione di Clint. Che ha fatto dunque il suo primo (si spera di
molti) film testamento, molto autobiografico. E’ anche lui l’uomo qualunque che
viene dal nord California (Sacramento come San Francisco), ha dei principi
morali che entrano in rotta di collisione con le autorità religiose (in questo
caso cattoliche, a giudicare da quel poster del cuore di Gesù, molto ottuse),
che si impone una disciplina fisica e psichica durissima ma non per non essere
un loser ma perché vuol diventare una persona degna di rispetto, utile agli
altri (tutto il contrario di chi smania per il successo personale ai danni
di tutti, si ascolti la più blasfema
delle preghiere notturne, in epoca scientology, di Spencer Stone) e poi viene
sradicato dai suoi amici di infanzia per colpa dei bigotti, e ha la fortuna di
trovare in Europa (e proprio nell’odiatissima, dagli Usa, per anni, Francia)
fama e Legione d’onore… Non basta l’individuo degno di rispetto e tecnicamente preparato.
Deve essere attorniato da istituzioni integre. Maestri affascianti,
addestratori militari efficienti. Che sanno come salvare la vita a un ferito. Uno stato sociale di cui si fa un elogio che proprio non ci aspettavamo. Rooseveltiano.
Il film è andato di traverso
così anche nel middle e tra i
rednecks che di stato non vogliono sentir parlare. E poi. I bravi ragazzi non
dicono parolacce, non fumano canne, non si sbronzano e non frequentano la “Roma
più perversa” o i club olandesi alla Kechiche (in due minuti tutto Mektoub my love canto uno e due). Quella
tirata berlinese contro gli americani, infine, che pretendono sempre di aver
salvato il mondo, e perfino dall’immonda bestia, mentre sono stati i comunisti
e pure russi a distruggere Berlino e Hitler, ha fatto uscire dalle sale metà pubblico
statunitense infuriato.
Insomma. Eastwood, a destra e
a sinistra, questa volta avrebbe proprio
dato i numeri.
A 87 anni compiuti, questi 94
minuti (record di sintesi) girati al volo come se in un instant movie della New
World di Corman, sarebbero noiosi, banali, turistici, cartolineschi. Personaggi
senza spessore psicologico, permeati da religiosità equivoca, non fosse per le
scene d’azione finali, quando il montatore, il direttore della fotografia e il
musicista prenderebbero il sopravvento rispetto al regista canuto e lo
immobilizzano. Colpa, ovvio, anche di una donna, della sua sceneggiatrice,
dilettante, che ne sa di macha possanza, addirittura ex producer, che ne sa di
dinamismo adrenalinico? E poi, a chiudere con questo capolavoro di cinema illuminista-irrazionale,
come lo avrebbe chiamato senza affetto Cesare Cases, Ore 15,17: attacco al treno, o meglio, in originale, Alle 15.17 verso Parigi, è pieno di numeri.
Ben quattro numeri già nel titolo. Il primo è fortunato, l’altro
annuncia disgrazia. E poi la data, 21 agosto 2015. Siamo già nei territori
della Cabala. Apparirà poi, su sfondo biancorosso, un grande 25 - la Legge, la
parola di Dio, il giorno del sacrificio - che infatti è anche il numero di
maglia di Thomas Mueller, il centravanti (e anche centrocampista!) magico del
Bayern Monaco e della nazionale tedesca (un nome, oltretutto, Robert Swan
Mueller, diventato l’incubo di Trump).
Ma per tutto il film si
continuerà a insistere sui numeri e sulla loro fondamentale importanza,
scientifica non magica, per comprendere qualunque cosa. Arte della guerra
compresa.
87 anni, 36 regie, Eastwood la sa lunga,
ha esperienza, non si fa intrappolare dal già fatto o dallo stile e migliora i
classici. Adesso maneggia davvero alla perfezione la saggezza visiva di Don Siegel e si avvicina perfino agli europei. Come Eisenstein fabbrica un film
come “campo di guerra”. Ma non si indicano le cose vere se non si attraversano le verosimili. Gelato, colazione da Gritti, ostelli per studenti, ballo,
sballo, selfie e torre Eiffel sembrano banalità turistiche degne di Woody Allen
a Roma. Già. Lo sono. Verosimiglianze molto plausibili quando si tratta di
vederle alla luce dell’obiettivo terroristico.
Come Rossellini. Non
ripetersi mai. Non affidare il film ai plasticosi clichés ritmici (qui la
poliritmia è proprioi free jazz, come
scrive Giulia D’Agnolo Vallan). Afferrare il protagonista e farlo passare nei
tentacolari labirinti dal destino al quale non sempre ci si può opporre (e qui
i fan del libero arbitrio si inalberano). Certo, anche alternare attori
professionisti con non attori presi dalla strada. Certo anche voler spiegare i punti essenziali
della storia di un paese a forza di sembrare indifferenti al versante
“spettacolare”. Ripartire dalla seconda guerra mondiale, la guerra giusta, per
vedere come affrontare quest’altra guerra, talmente inedita ma apparentemente
infinita che ci obbliga a percorrere altre opzioni oltre a quelle militari. Che
ne dite di cambiare un modello economico finanziario così disastrosamente
imperiale? diceva Rossellini e oggi Clint.
Come Brecht. Non si può dire
che questi “attori” abbiamo problemi a indicare quel che i veri protagonsti
dell’azione abbiano fatto, senza sforzi interiori per immedesimarsi nei ruoli. Come quel treno alla Dario Argento, di questo che tra i suoi thriller è il più horror.
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