domenica 18 febbraio 2018

Next Africa. E' morto Idrissa Ouedraogo, il Samuel Beckett di Ouaga (*)


Idrissa Ouedraogo


Roberto Silvestri

E' morto questa mattina dopo una grave malattia, a soli 64 anni, uno dei cineasti più importanti del mondo, Idrissa Ouedraogo. Erede di Sembene Ousmane e Djibril Diop Mambety, ma anche di Keaton, Tati, De Sica, Ford e Truffaut, il regista burkinabé di La scelta (1986, selezionato alla Semaine de la critique di Cannes), Yaaba (ovvero "Nonna", 1989, premio Fipresci a Cannes) e Tilai (1990), gran premio della giuria di Cannes, era diventato, durante gli anni ottanta dell'esperimento rivoluzionario di Thomas Sankara, il simbolo del "nuovo cinema africano", dinamo radiante di una generazione di film-maker dal design internazionale, consapevole della storia passata e delle sue tragedie ma capace di guardare oltre, competitiva sul mercato dell'immaginario che osava mostrare ciò che non si poteva e doveva raccontare.  Assieme a lui altri esploratori di un'Africa a venire come Safi Faye, John Akomfrah, Jean-Marie Teno, Abderrahmane Sissako, Cheick Oumar Sissoko,  Pierre Yameogo, Mahmoud Ben Mahmoud, Assia Djebar... artisti magrebini e sub-sahariani che non sono solo guardiani di una memoria multiforme e secolare, o fustigatori delle parti più malate di quella cultura e di quelle tradizioni, ma anche seducenti fabbricanti di immagini eccentriche, spregiudicate, libere, contundenti e aperte. Cioè Poetico-politiche. 


Il più impertinente della "banda a parte" era proprio Idrissa Ouedraogo, indocile a considerarsi un "artista-professionista-leggenda-vivente-fabbricante-di-capolavori", piuttosto simile allo sminatore di stereotipi, compreso il solipsismo autorale che disprezza il racconto popolare a comunicativa calda, o l'ecumenismo militarista attorno alle Twin Towers (vedi l'episodio trasgressivo di 11 settembre 2001) ma che, con sensibilità alla Alberto Grifi, mettendosi al servizio dell'energia collettiva, coinvolgendo ragazzi, maestranze, comparse e comunità intere, passava dal lungo al micro film, dallo spot al medio, dal video al doc didattico, dalla serie tv alla web-serie, quando la necessità dello shooting era più urgente di ogni aura commerciale o d'autore, collegata all'obbligo del lungometraggio sontuoso da festival o da box office. 
Nel 1998 mi parlava di Pleurs de femme, violento pamphlet contro le mutilazioni genitali femminili con la foga anti islamista che avrebbe usato il povero Theo Van Gogh se avesse saputo che quella pratica era anche animista e fallocentrica tutta.       

Una donna incinta muore perché l'ospedale non è a portata di mano. E' Poko, il suo film d'esordio (ma il dolore nel volto della donna sarà una cifra costante del suo cinema, fino a Samba Traoré e La colére des dieux (2003). In Samba Traoré (1992) l'africano in fuga torna al villaggio natio (invece che prendere il barcone) non per passassimo nostalgico ma per desiderio di western alla Anthony Mann, come ha scritto l'acuto critico Giuseppe Gariazzo, spinto da una differente passione per il mistero e per l'enigma. Tornare all'Africa antica è un cortocircuito per creare la Nuova Altra Africa. 
I suoi nemici? Il buon senso e la codardia dell'uomo medio che per opportunismo favorisce i tiranni e i borghesi venduti allo straniero. E poi. L'escissione. La violenza alle donne. L'Aids, che non viene accuratamente combattuto dai governi africani. Invece. Gli ubriaconi, i fuori casta, i non allineati, le bambine che piantano grane o alberi di "mango", gli artigiani che insistono a tessere il cotone burkinabé, i cavalli da western nei suoi film sono, come in Hawks, gli esseri viventi d'affezione. 

Tilai 
Idrissa Ouedraogo, genia di contadini Mossi, lingua Moré, alto, occhi giganteschi da faraone, cinefilo impenitente, era il narratore più ossessionato dalla miseria e dalla grandezza della vita, spossessata, in Africa, da secoli, e con dolo, del naturale accesso alle tecnologie e al Mercato. Avrebbe molto amato Black Panther, non fosse che per quella forse noiosa, ma eccitante perfezione grafico-dinamica dei duelli all'ultimo sangue tra super eroi del bene e del male, ripetuta e continuata in ogni fiaba Marvel, che condensano in una sola sequenza, le uopie di ogni generazione di "fedeli d'amore". Era anche il cineasta capace di maneggiare e intrecciare con più semplicità psicologie, generi e sentimenti complessi, sempre arricchiti da sottile umorismo e drastico femminismo, dall'ambizione "glocal" e costantemente dalla parte delle "idee nuove" (a costo di diffidare, come lo storico Ki Zerbo,  perfino di Sankara, che era "sempre un militare, anche se panafricanista e anti-imperialista"). La modernità di fraseggio era comune alla sua generazione, quella dei Nanni Moretti e degli Aki Kaurismaki. Il suo era un grande cinema dell'azione interiore.
Il suo maestro, a lungo fuori dal set, Djibril Diop Mambety gli aveva reso un omaggio commuovente in Parlons Gran-Mére (1989), making off di Yaaba il film girato in un non luogo e in un fuori tempo che glorificava gli outsider, i ragazzi indisciplinati Bila e Napoko che si alleano con "la strega" Yaaba (l'attrice Fatimata Santo) e ci indicano la miseria delle tradizioni tribali in mano a una casta che peggio di Previti & co. Erano gli anni in cui Sankara detronizzava a favore delle donne il potere dei capivillaggio, strappandogli perfino il controllo delle antiche maschere rituali. Gesto che poi pagherà personalmente. Ma di irreversibile lucidità.


Studi in Francia (Idhec) e in Urss, Mosca e Kiev, molti documentari in lingua moré (non cederà mai al ricatto francofono) frutto dei suoi primi studi cinematografici a Ouaga, all'Inafec, e una certa pratica sul campo dei set, dal punto di vista della produzione, prima di realizzare come director una serie di lungometraggi (spesso girati dal punto di vista dei più deboli e drop out, bambini, bambine non iniziati o anziane emarginate come streghe) hanno reso Ouedraogo celebre nel mondo dei festival e nei paesi dal sistema televisivo più maturi e consapevoli del nostro (Scandinavia, Germania, Gran Bretagna e Francia). Non ci fosse stato Fuori Orario non avremmo mai conosciuto questo poeta dalla secchezza espressiva così inquietante, beckettiano perché felice, al di là dell'angoscia esistenziale e delle sue incrostazioni. I lunghi piani fissi e i lenti "travellings" che caratterizzano il suo stile essenziale e privo di orpelli e di "africanerie" ci hanno lasciato a bocca aperta perché sapevano cogliere la bellezza di un paesaggio, naturale o umano, senza retorica o autocompiacimento o orgoglio folk. Negli ultimi anni Idrissa si era dedicato, rossellinianamente, solo alla televisione e alla rete, riprendendo con la sua casa di produzione, Le Film de la Plainé, quel filone didattico, ambientato che fosse nell'amato-odiato Sahel della irreversibile desertificazione o nella metropoli tentacolare, che aveva contraddistinto i suoi esordi documentaristici: Poko (1981) e Pourquoi? (un uomo sogna di uccidere la moglie); Les écuelle Les funérailles du Larle Naba (1983); Ouagadougou, Ouaga deux roues (il traffico cittadino) e Issa le tesserand, Tenga, tutti realizzati prima di diplomarsi, nel 1985 all'Idhec.  Da due decenni era pronto un copione storico dedicato alla lotta anticoloniale dell'Impero Mossi (l'ultimo a cadere in tutta l'Africa occidentale) contro l'aggressione francese, inglese e tedesca del 1896, Bokary Koutou, che era il suo Sarraounia, concepito però "non come un film essenzialmente storico o pedagogico o peggio dogmatico. Ma un film aperto a tutti i pubblici, di qualunque paese e nazionalità. Il rigore della messa in scena dovrebbe permettermi di raggiungere questo obiettivo". Nonostante un aiuto finanziario del governo francese nel 1999 Idrissa Ouedraogo non è riuscito mai a girarlo. E presumibilmente sarà un giovane cineasta a riprendere il progetto che doveva essere pronto, secondo i desideri di Ouedraogo, in occasione del cinquantesimo Fespaco, nel febbraio 2019 per permettere a un cineasta burkinabé di conquistare il primo premio, l'Etalon de Yennanga. La prima scena del film, come scrive il quotidiano burkinabé Aujourd'hui, mostra militari bianchi attaccare un villaggio, metterlo a ferro e fuoco e ucciderne tutti gli uomini.

***

Idrissa Ouedraogo: "Prima che africano mi sento un uomo, come tutti gli altri, cittadino del mondo. Abito soprattutto in Europa perché vi ho frequentato la scuola, lavorato, cercato contatti per poter girare i miei film. Quando mi sarà possibile resterò in Africa. Penso tuttavia che sia finito per gli africani il momento sia dei vittimismi che delle rivendicazioni. Conserviamo certo la memoria delle sofferenze vissute dalla nostra gente, ma in questo mondo diventato così piccolo, in cui viviamo gomito a gomito con tutti gli altri popoli, possiamo esistere anche senza gridarla. (....) 
Sono convinto di poter beneficiare di conoscenze che vengono dall'Occidente senza per questo accettare necessariamente una forma di neocolonialismo. Abbiamo tutto da guadagnare in questa scelta che aiuta a disperdere di meno la nostra energia di creatori. Credo che il pubblico - e anche quello africano - abbia diritto a un buon suono, a immagini nitide, ben illuminate, ben montate. E' finito il tempo dei nostri balbettii e anche quello di sfruttare l'indulgenza paternalistica del nord nei confronti della nostra fragilità tecnica. Dobbiamo smettere di rassegnarci alla categoria B; è ora di produrre del cinema commerciabile il cui valore non si limiti all'originalità della storia raccontata".



Antologia

Roberto Silvestri 

KINI & ADAMS 

Idrissa Ouedraogo Burkina Faso 1997

Attraverso una storia buffa, inanellata di barzellette, si può disegnare una parabola triste sul continente nero, ambientata nell'Africa Australe, libera ma non del tutto, e inondata di sonorità jazz (di Wally Badarou, a metà tra il romanticismo di Keith Jarret e le policromie di Half Dollar Brand-Abdullah Ibrahim). Kini & Adams fu a Cannes '97 ed è un prodotto neo-mayor, Polygram. Kini & Adams sono anche i nomi dei protagonisti del film scritto e diretto dal burkinabé Idrissa Ouedraogo, classe 1954, al settimo lungometraggio. Il cantore della lotta tra le idee nuove e le idee vecchie nella brousse, cambia tutto, esce dall'"incantesimo Sankara", sospende le sue fiabe morali. Lascia i villaggi natii nella radura aggrediti dalla siccità, abbandona il "peul" e il "bambara", diventa un narratore-griot più complesso e sciolto (come Nanni Moretti, Ouedraogo adorava il dialogo surreale e poetico, un po' da comics intellettuale, da Linus e Charlie Brown di Schultz) e parte per il sud, tra gli zulu e i xhosa del dopo apartheid, rendendo omaggio alla lingua, l'inglese, che dissolse l'"afrikaans". E si mette un po' più in discussione, nell'intimo, nascondendo dietro un melò operaio quella che è una storia personale. Kini & Adams sono soci, ma soprattutto amici, e hanno un sogno in comune, lasciare il povero villaggio, meglio sarebbe chiamarla la loro arida "no man's land" come ce ne sono ancora troppe laggiù, andare nella città dalle mille occasioni e, soprattutto, scappar "via col vento" con quel ferrovecchio a quattro ruote che stanno ricostruendo da mesi, acquistando i ricambio di qua e di là, non senza problemi e ostruzionismi. Improvvisamente si riapre la cava di pietra nei paraggi, una possibilità di salario inaspettata per i nostri amici, ma quando tutto sembrerebbe mettersi per il verso giusto la strana coppia, che si vuol bene e anche di più, litiga a morte. Più Kini fa il capetto nel cantiere, più l'amicizia con Adams va in mille pezzi. Kini, felicemente sposato con bimba, e Adams, più irresponsabile e sfortunato in amore, arriveranno alla deflagrazione finale dei sentimenti e delle passioni, complicata da equivoci, ubriachezza, pugni, gelosie, furti, dinamite, amore gay serio e incoffessabile, pettegolezi cruenti e ancora peggio. Finiamo con una delle tante barzellette del film, raccontata da Kini a Adams: "Dio incontra un poveraccio e gli promette: 'ti darò ciò che vuoi, con una sola clausola, al tuo migliore amico darò il doppio'. Il poveraccio rimugina: se chiedo 10 mila rand ne darà 20 mila al mio amico...mmmmm! Se chiedo dieci asini il mio amico ne avrà 20...ah! ho trovato: "Dio, prendimi un occhio". 

Idrissa Ouedraogo premiato al festival di Cartagine da Mohamed Challouf (a sinistra) 
(*) è un vizio inguaribile della critica europea paragonare a un occidentale un geniale artista africano. Ho anche io questo vizio. Nessuno è perfetto. Ma Idrissa, a sentire il critico burkinabé Clement Tapsoba, non era per niente popolare in Africa, e comunque molto meno dei commedianti, come Henry Duparc. Il suo stile è moderno, il racconto per immagini mai lineare, o classico. Potrebbe essere questo racconto, ma potrebbe anche essere un altro racconto....Volevo sottolineare nel paragone con Beckett un procedimento paradossalmente simile, a proposito della descrizione del disastro "africano", della contemplazione delle macerie, dell'inferno. Ma,  parafrasando Raymond Federman, allievo del grande scrittore irlandese, tutta l'opera di Idrissa Ouedraogo "non si presenta forse come la ricerca di qualche cosa che non esiste o che esiste a nostra insaputa?" Non si tratta dell'allegria dei senza speranza e perciò felici di cui parla Stendhal a proposito dei romani (che Pasolini ha così bene compreso)? Ma nell'universo di Idrissa "tutto è possibile perché sa inventare una realtà seconda che è la parodia del mondo degli uomini, all'interno del quale si riduce a uno stesso denominatore ogni nozione di felicità e infelicità".

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