martedì 8 ottobre 2019

Pordenone 38. Le Giornate del cinema muto ovvero Back to the Future


Roberto Silvestri, da Pordenone

Marion Davies nel poster di Pordenone 38
Giornate del cinema muto numero 38. Fino al 12 ottobre.
Una festa unica che si svolge quest'anno dal 5 al 12 ottobre nel teatro Giuseppe Verdi, restaurato anzi rifatto ex novo e molto male, trasformato in una specie di gigantesco Vespasiano di marmo bianco, durante la gestione cittadina della Lega di una volta.
Al primo piano del teatro poster, merchandising, rarità bibliografiche e dvd del cinema muto, introvabili altrove. Ho comprato un Protazanov a 16 euro. Gvozd' v sapage. Del 1932. Censuratissimo da Stalin perché prendeva in giro, fin dalle scaturigini, i processi stalianiani diretti da Andrej Januarevic Vyzinskij. Qui si svolgono le presentazioni dei libri e dei progetti che riguardano il 'silent movie'. Mercoledì Marco Giusti presenta il suo lavoro su Polidor e Polidor, ovvero un saggio che costa 20 euro su un grande clown e comico delle origini, Ferdinand Guillaume (1887-1977) che con Fellini girò Le notti di Cabiria e La Dolce Vita, e sul fratello Edouard,
Perché il clima di Pordenone è diverso dagli altri?
Non è solo un appuntamento (tra i più prestigiosi del panorama italiano cinematografico, se non il più autorevole) diretto da un americano a Roma, Jay Weissberg. Rispetto al predecessore inglese, lo storico David Robinson, il giornalista di Variety ha abolito completamente le lunghe o brevi presentazioni dei film serali, consegnando tutto quel che c'è da dire sui singoli film, sulle specifiche cinematografiche e sui “movimenti” e le sezioni al catalogo (13, 14...), ricco e esaustivo.
Ma è proprio l'unico “festival” che si svolge in Italia nel quale la lingua principale è l'inglese.
Un meeting e un melting pot di specialisti che vengono da tutto il mondo, restauratori, filologi del cinema “primitivo”, prima che di appassionati e di storici generici e di critici e di pubblico che comunicano con la lingua mondiale. Qui al bar, tra un bicchiere di bianco e l'altro, prima di pranzo, due anziani del posto col Gazzettino in mano parlano di.. cinema e non di contanti o carte di credito?. “C'è un film bellissimo”.... “Dove, al cinema muto?” “Ma che cinema muto! a Cinemazero... con quell'attore di cui parlano tutti... bravissimo.... ah si Ad Astra... mi hanno detto che è bellissimo”. Tutto in dialetto. Sorprendente.
Il cinema muto, a lungo andare, fa benissimo anche al cinema sonoro... E lo rende anche più comprensibile. Venendo qui scopriamo che le idee iconiche che credevamo moderne sono invece antichissime. Sguardi in macchina e a colloquio con lo spettatore? Ben prima di Billy Wilder e J.-L. Godard ritroviamo il vezzo brechitiano in Il bacia cuoio cioé The Leather Pusher di Harry A. Pollard con Reginald Denny (Usa, 1922), gentleman boxeur costretto ai guantoni dopo il crack finanziario del padre miliardario. Il suo manager, a dieci minuti dall'inizio del film, racconta la trama a chi è arrivato un po' tardi allo spettacolo... Questo Reginald Denny, bellezza charmant, è una star dell'epoca muta che ha avuto anche tanta parte nella storia dell'industria bellica, perché ha inventato cose ingegneristiche che più tardi sarebbero state utilissime per costruire i droni. Il rapporto tra cinema e ingegneria non si limita dunque alle scoperte radar di Hedi Lamarr o alle origini universitarie di Alfred Hitchcock...
Prendiamo poi In the sage brush country di William S. Hart, il primo grande cowboy di Hollywood. Il cattivissimo, una sadica 'jena ridens' messicano, rapinatore con tanto di sombrero, rapisce la bella ariana e la vuole concupire. Lei si barrica, lui prende l'ascia e sta sfondando la porta, proprio come Jack Nicholson in Shining. Kubrick era molto più colto visivamente di quanto potevamo immaginare. Arriva l'eroe Hart (che in realtà vuole liberarla, ma per rapinarla...) e.... Il film è del 1914. L'eroe è sempre inizialmente non un 'senza macchia e senza paura', ma proprio un fuorilegge che si caracolla con il suo gilé fantasia (Marilyn Monroe non a caso farà una frecciatina contro Hart in Quando la moglie è in vacanza), un rapinatore o un criminale inferocito e incarognito dalla malvagità generale, che poi ritrova sempre un surplus di umanità in più. Rispetto ai buoni ipocriti e ai cattivi inguaribili che lo circondano, siano donne di malaffare e traditrici dagli occhioni prensili o loschi individui incrociati nei saloon che vogliono solo raggirarlo. Sarà l'unico, lui e il suo fido, velocissimo cavallo pezzato King, capace di farsi ipnotizzare dal messaggio che angeliche creature ingenue, in genere adolescenti bionde, candide d'espressione e di bianco vestite, sanno trasmettere. E' quello che succede in “The aryan”, del 1916, notare il titolo, piena epoca Nascita di una nazione, nel quale in nome di istanze patriottiche (la guerra anche commerciale contro il Messico) si riappropria della sua identità wasp e tradisce i suoi complici criminali che sono tutti brutti, ispanici e indiani. Non c'è che dire, Hart è proprio il simbolo dell'imperialismo razzista senza vergogna In un bellissimo corto sonoro e a colori del 1939, “Tumbleweeds” di William Berke, Hart, ormai anziano, ma sempre vestito da cowboy, rievoca la grande corsa alle terre rubate ai Coman
che dal governo Usa nonostante patti e contropatti. Prima quelle terre appartenevano agli indiani. Poi Washington le ha date agli allevatori e nel 1889 a chi, bianco e cristiano, voleva prendersele, semplicemente decidendo che le avrebbe coltivate e che avrebbe costruito lì sopra la casetta dei suoi sogni difendendosi con pistole e fucili dagli avidi gruppi finanziari in cerca di petrolio o di speculazioni ferroviarie. E lo dice candidamente, senza rendersi conto dell'orrore. JohnWayne avrà la stessa faccia tosta e ruberà le sue stesse due espressioni, col cappello e senza. Ma come sono ineguagliabili e artisticamente complesse quelle due espressioni. Non c'è neppure bisogno del trucco agli occhi, sopra e sotto, quel nero utilizzato per affidare all'espressione dello sguardo il tragitto narrativo di tante sequenze mute.
Dicevamo atmosfera unica. Piuttosto calorosa, anche per sottolineare gli accompagnamenti musicali, non più solo il pianista solista ma spesso piccole band, di raffinatezza inusuale. Qui non ci sono claque, uffici stampa obbligati ad applaudire calorosamente, né interviste da piazzare, purtroppo.
Dicevamo del programma, fittissimo, di questo numero 38. Una cinquantina gli appuntamenti cinematografici, divisi in quindici sezioni. Quelle personalizzate, oltre a Hart e Reginald Denny riguardano Mario Bonnard, ovvero i giri europei di un cineasta italiano dopo la grande crisi della nostra industria per colpa della grande guerra; le super star francesi Mistinguett (le gambe più “assicurate” della storia, ma anche le mani erano di rara potenza seduttiva) e Suzanne Grandais. Oltre alla prosecuzione della monografia John Stahl.
Una riguarda una cinematografia nazionale poco conosciuta e interessante, l'Estonia.
Quattro sono invece più storico-critiche: lo “slapstick europeo”, ovvero il contributo comico del nostro continente, e soprattutto dei clown e dei surrealisti gestuali di Francia e Inghilterra, alla nascita della grande comicità “Chaplin-Keaton-Lloyd “; la “pubblicità nel muto” ovvero come si facevano gli spot attorno alla prima guerra mondiale; i “corti del cinema di Weimar”, che aiutano a comprendere meglio un periodo molto complicato della storia tedesca e del suo immaginario. E i “film sul cinema” ovvero come già in epoca 'sorda', si producevano documentari per raccontare i retroscena artistici e industriali della messa in scena, come funzionava uno studio system e il sistema di censura e anche come francesi, tedeschi e inglesi glorificavano il proprio ingegno secolare documentando il contributo specifico, artistico e scientifico, alla nascita della settima arte, tornando indietro nel tempo fino al XVII secolo e alle Lanterne Magiche, per poi passare a Reynaud, Grimoin-Sanson, Marey, Gaumont, i Lumiere e Muybridge, Edison...
Una, di interesse più strettamente museografico, riguarda i tesori dell'Archive de la Planete, ovvero della collezione fotografica e documentaristica parigina Albert-Kahn. Infine le sezioni tradizionali del festival: il Canone rivisitato, cioé la riproposizione di grandi classici (come il Faust di Murnau con un Emil Jennings che spiega a Joaquim Phoenix e perfino a De Niro che c'è modo e modo di strafare e che si può andare anche oltre le righe, ma bisogna essere sempre diabolicamente e subdolamente sorprendenti mai compiaciuti di sé), le riscoperte, i ritratti (Keaton) e gli eventi speciali, che sono gli appuntamenti popolari di grido, per i film celebri o spettacolarmente stuzzicanti, accompagnati dalla grande orchestra, quest'anno: The Kid di Chaplin del 1921; Carmen jr. di Alf Goulding satira esilarante dell'opera di Bizet con la piccola Baby Peggy Montgomery (Usa, 1923); The Lodger di Hitchcock inglese, Dogs of war di Robert F. McGowan (Usa 1923) e Fragment of one Empire di Fridrik Ermler (Urss1929) che, a proposito di furti contemporanei, è il film famoso per il Cristo in croce con la maschera anti gas, e racconta la storia di un sottufficiale che ha perduto la memoria nella grande guerra e che si ritrova dieci anni dopo e a memoria ritrovata in una San Pietroburgo diventata Leningrado e in una Russia ex zarista, ora socialista, costruttivista e avanguardista. Ricorda qualcosa? Goodbye Lenin del 2003, e del post DDR, no?
Tra i film più sorprendenti visti nei primi giorni vogliamo ricordare un “documentario ricostruito”, realizzato in perfetto stile 'terzo cinema' nel 1918 dall'argentino “bianco”, lo scrittore progressista Alcides Greca, El Ultimo Malon, sulla feroce repressione di una insurrezione indigena del 1904. Poveri, sfruttati, umiliati e senza terre dopo la rapina coloniale, un migliaio di indios Macovi, dopo essersi sbarazzati di un capo asservito, attaccarono armati alla meno peggio la città di San Javier, nella provincia di Santa Fé, sicuri che dopo i riti propiziatori sincretici, “le pallottole del nemico si sarebbero trasformate in fango”. Non fu così. Oltre 50 i morti. Una storia autentica nella giungla del Chaco narrata assieme agli stessi reduci della insurrezione. Senza pietismi né paternalismi.
Il film cinese e nazionalista del 1932 (il sonoro in alcuni paesi è arrivato tardi) La lotta, Fen Dou di Dongshan Shi, ambientazione Shanghai, qualità fotografica stupefacente (di Zhou Ke) che a parte la romantica e struggente storia d'amore puro tra un operaio bello, onesto e virile e Rondinella, una orfanella sedicenne, ostruita dalle gelosie del violento padre adottivo di lei e da un lussurioso e corrotto amico di lui, e il richiamo patriottico alla lotta antigiapponese dopo l'invasione della Manciuria, propone interessanti lezioni morali alla Lu Shu, e una alta qualità visuale, tra urnau e Pudovkin, affidata a movimenti di macchina di grande potenza emotiva e alla scenografia verticale, quasi una la grafica della 'lotta di classe', con i ricchi sfruttatori ai piani alti e giù gli operai e più giù i contadini, portatori però di valori tutt'altyo che passatisti. Per esempio il professore di origini contadine polemizza con le vecchie idee, per esempio con l'antico detto (confuciano?) di farsi i fatti propri, e interviene con astuzia e violenza per impedire ogni sopraffazione e sfruttamento ai danni di chiunque.
Naturalmente uno dei momenti magici del programma è quando sfilano le “dirty women” d'inizio novecento, le cameriere in sciopero violento e perenne, le ragazzine che non accettano un destino simbolicamente e praticamente subalterno: le Cunegonde, le Rosalie e soprattutto Leontine, con la sua grinta dadaista e distruttiva, da suffragette a tutto campo, capace di trasformare salotto, cucina, strade, negozi e commissariati di polizia in un quadro action painting ante litteram.

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