|
Hailee Seinfeld e Douglas Booth |
Roberto Silvestri
Cos’è cinema se si dimentica il
tragitto Eschilo, Dante, Shakespeare, Griffith, Eisenstein, Ford e Michael
Mann? Questo Romeo&Juliet -
sterzata originale e inattuale e ritorno ai classici basilari del dramma - di
Carlo Carlei (e tutta la carriera cosmopolita e off Hollywood del cineasta
calabrese), che esce quasi a San Velentino e che segnana un ritorno massiccio del più romantico testo shakesperiano sul grande schermo, mi riporta al clima che circondava Renato Castellani nel 1952 quando
girò, tra la perplessità generale, il suo Giulietta
e Romeo, dorato come una tela di Ghirlandaio, con il ventenne Laurence
Harvey.
|
Da sinistra Leslie Manville, Hailee Steinfeld e Douglas Booth |
Mentre il mondo tremava per una minacciata terza guerra mondiale tutta
nucleare (crisi in Corea, e poi conflitto aperto) il cinema italiano era
sospinto a forza di allegria verso la commedia
italianissima e patriarcale. Come orizzonte produttivo unico. In cambio del
mono-cinema d’evasione, di sorrisi, poi di risate e poi di risate sempre più
sgangherate, e di qualche truppa mandata a aiutare Seul, magari finalmente
l’Italia sarebbe stata riammessa al consesso delle Nazioni Unite e i pericolosi
veleni del neorealismo, e di quel suo particolare, e pericolosissimo senso
dell’umorismo, che colpisce più in alto che in basso, sarebbero stati
definitivamente sconfitti. Riportando il cinema italiano, minacciosamente a
gittata planetaria, nel suo alveo localistico.
|
Il regista Carlo Carlei |
Grazie a Shakespeare (anche Otello attirò l’attenzione del cineasta
di Due soldi di speranza) si poteva
però ricominciare dai fondamentali e combattere, creare un’antitesi,
contrastare quel periodico abbassamento d’immaginario, quel ritorno al clima
giocondo, autarchico e sciovinista che contraddistingue troppo spesso il
panorama cinematografico postfascista.
Ed eccoci a questo Romeo e Giulietto, alla tragedia
dell’eterna disfatta dei giovani nel conflitto con la società (Freda e
Zeffirelli, nel 1964 e nel 1968, notate le date, forzarono, con grande fiuto
fashion, sull’estremismo new romantic) che oggi, con l’oltre 40% di
disoccupazione giovanile, e la guerra già in corso e sempre più vicina, assume
tutto il suo senso antagonista.
|
Hailee Steinfeld e Douglas Booth |
Anche se il film, realizzato nel 2013
(lo abbiamo visto al Festival di Roma) è uscito nelle sale prima degli Usa e
del Portogallo che dell’Italia. E l’accoglienza critica semifreddina, allora, è
stata inversamente proporzionale a quella, calda e emozionata, del pubblico più
giovane. Non fosse dunque che per aver seguito, assieme a Martone e Ferrara,
l’indicazione guerrigliera rosselliniana di un cinema ad apertura didattica
ampia (ricordiamo il Ferrari e
perfino il Padre Pio televisivo di
Carlei) che si contrapponga al lavaggio scientifico dei cervelli più cuccioli,
operazione lanciata dopo il 68 da qualche servizio segreto scolastico, già
l’impresa di Carlei sarebbe da ammirare.
Shakspeare, che visse in un momento
di grave crisi socio-politica, scrisse e mise in scena tutti suoi drammi (e il pubblico elisabettiano li
premiò con un eccitante successo al botteghino e un clima ultrà in galleria)
indicando la zona fertile in cui il vecchio mondo stava trasformandosi in mondo
nuovo. I suoi personaggi sono in conflitto radicale con la società e della
propria individualità i primi a prendere coscienza sono proprio i giovani.
Sono
loro che superano sia lo stadio delle torri armate l’un contro l’altra, di cui
sono le vittime privilegiate (il feudalesimo medievale nel quale è ambientato
il dramma d’amore di Shakespeare, fedele omaggio a Dante, oggi anelato dai
Leghisti) che quello rinascimentale: il principio e la fine dell’Universo è
certo l’individuo, ma troppe “signorie” vecchie e nuove lo schiacciano ancora,
nell’Europa del XV e XVI secolo, e anche del XXI secolo, per impedirgli di
diventare un individuo massa, e poi “democratico”. Quel pubblico viveva in una
società, religiosamente e politicamente totalitaria, dopo la rivoluzione
fallita. Ma quello di oggi? Nessuno ha provato, neanche su Netflix, a
trascrivere in miniserie l’intero testo. Forse nell’epoca di Occupy Wall Street
e di Tsipras, reggerebbe, dalla prima all’ultima parola.
|
Giulietta, Hailee Steinfeld, e Romeo, Douglas Booth |
Nella novella quattrocentesca di
Luigi da Porto, una delle basi di partenza della rielaborazione shakesperiana,
i Montecchi sono la famiglia più nobile. Aristocratici allevatori di cavalli, i
genitori di Romeo. I Capuleti sono invece la famiglia dei “nuovi ricchi”, come
li chiameremmo oggi. Importano sale dall’Austria, la dinastia di Giulietta.
Allevatori contro commercianti. Sottomessi entrambi, però, a un potere
dispotico superiore… Sembra lo scontro tipico di un film western. E un po’
Carlei gioca all’Ok Corral. Risse e duelli non mancano. Così come sbronze,
agguati, fughe…
Ma non basta innervare il più romantico dei drammi elisabettiani
dentro una dinamica d’azione per imbrogliare il distratto pubblico di oggi,
sconvolto dal rigoglio linguistico barocco e immaneggiabile del Bardo. E poi un
po’ lo ha già fatto quasi 20 anni fa Baz Lurhmann, nella sua attualizzazione
acida e alla moda del melodramma veronese. E ancor prima, nel Giulio Cesare con Marlon Brando,
Mankiewicz riempì, per rendere la seconda parte della storia sopportabile, di
costose battaglie campali e navali filologicamente corrette, un testo
decifrabile solo vivendo nell’orrore di una tirannia schiacciante. Come
facevano russi, ungheresi, cechi e polacchi durante le dittature del
capitalismo di stato.
|
Hailee Steinfeld |
Basterà questa volta la rielaborazione swinging dello
sceneggiatore Julian Fellowes, che ha ritoccato il capolavoro per fluidificare
e rimodernare? O un cast mozzafiato, da Royal Company, che ci scodella Paul
Gamatti, il frate, Damian Lewis, il padre di Giulietta, Leslie Manville, la
nutrice, Natasha McElhorne, la mamma di Giulietta, Stellan Skarsgard, il Principe
di Verona, Ed Westwick, Tebaldo, Christian Cook, Mercuzio e soprattutto il
Benvolio di Kodi Smit-McPhee? O la bellezza record di Romeo, Douglas Booth, e
la grazia conturbante di Hailee Steinfeld, una Giulietta spregiudicata come
ogni sedicenne di oggi, specie se reduce da un set dei Coen (True Grit)? O la ricchezza di castelli,
chiese, mura, torri, giardini, quadri, piazze, scorci rinascimentali autentici
e di tessuti e di costumi usciti dagli arazzi e dalle tele dell’epoca a
iniettare Shakespeare nelle vene di oggi? Non è la colonna sonora ansiogena e
onnipresente di Abel Korzeniowski ma la teoria del tutto di Carlei. Cioè la
capacità alchemica di collegare tutto - e soprattutto quell’eclettico cast non
facilmente incastonabile in un paesaggio italiano e nei tessuti preziosi di
Carlo Poggioli (e Milena Canonero) - in un unico flusso spaziale, erotico ed
emotivo che si trascina nell’abisso. Oltre al tributo pagato subliminalmente da
Carlei al capovolgimento dei ruoli, imposto oggi dalla donna sia occidentale
che orientale, vista la barbutissima reazione isterica dei ventenni e dei
millennial in generale, tra Romeo e Giulietta.
|
Hailee Steinfeld |
Non solo è lei a sedurre lui, ma
sono le donne, la nutrice e la madre, a collaborare senza neppure un dubbio,
alla relazione sovversiva. Tanto che ci si chiede come mai Carlei non abbia
preferito il titolo di Castellani (e di Da Porto) al suo (e a quello di
Shakespeare)…L’adolescente di 14 anni magra e gracile con le scapole
leggermente sporgenti che è un po’ nel nostro immaginario Giulietta diventa una
solida ragazza da campus universitario che stuzzica per prima Romeo facendogli
dimenticare d’un tratto l’altra donna per cui spasimava e conquistandolo con un
solo giro di danza. Ma anche capace di manovrare la tata, sfoggiando virtù
diplomatiche e soprattutto di interpretare con sorprendente duttilità anche il
lato dark che il testo non cela. “Morir vorrei, non altro”. Emblema della blank
generation, da un bel po’ di decenni.
|
Paul Giamatti (sinistra) e Leslie Manville (destra) |
Nessun commento:
Posta un commento