giovedì 12 febbraio 2015

Romeo&Juliet. Il dramma d'amore nel Rinascimento festivo. Per San Valentino gli auguri di Carlo Carlei



Hailee Seinfeld e Douglas Booth
Roberto Silvestri


Cos’è cinema se si dimentica il tragitto Eschilo, Dante, Shakespeare, Griffith, Eisenstein, Ford e Michael Mann? Questo Romeo&Juliet - sterzata originale e inattuale e ritorno ai classici basilari del dramma - di Carlo Carlei (e tutta la carriera cosmopolita e off Hollywood del cineasta calabrese), che esce quasi a San Velentino e che segnana un ritorno massiccio del più romantico testo shakesperiano sul grande schermo, mi riporta al clima che circondava Renato Castellani nel 1952 quando girò, tra la perplessità generale, il suo Giulietta e Romeo, dorato come una tela di Ghirlandaio, con il ventenne Laurence Harvey. 
Da sinistra Leslie Manville, Hailee Steinfeld e Douglas Booth
Mentre il mondo tremava per una minacciata terza guerra mondiale tutta nucleare (crisi in Corea, e poi conflitto aperto) il cinema italiano era sospinto a forza di allegria verso la commedia italianissima e patriarcale. Come orizzonte produttivo unico. In cambio del mono-cinema d’evasione, di sorrisi, poi di risate e poi di risate sempre più sgangherate, e di qualche truppa mandata a aiutare Seul, magari finalmente l’Italia sarebbe stata riammessa al consesso delle Nazioni Unite e i pericolosi veleni del neorealismo, e di quel suo particolare, e pericolosissimo senso dell’umorismo, che colpisce più in alto che in basso, sarebbero stati definitivamente sconfitti. Riportando il cinema italiano, minacciosamente a gittata planetaria, nel suo alveo localistico.
Il regista Carlo Carlei
Grazie a Shakespeare (anche Otello attirò l’attenzione del cineasta di Due soldi di speranza) si poteva però ricominciare dai fondamentali e combattere, creare un’antitesi, contrastare quel periodico abbassamento d’immaginario, quel ritorno al clima giocondo, autarchico e sciovinista che contraddistingue troppo spesso il panorama cinematografico postfascista.
Ed eccoci a questo Romeo e Giulietto, alla tragedia dell’eterna disfatta dei giovani nel conflitto con la società (Freda e Zeffirelli, nel 1964 e nel 1968, notate le date, forzarono, con grande fiuto fashion, sull’estremismo new romantic) che oggi, con l’oltre 40% di disoccupazione giovanile, e la guerra già in corso e sempre più vicina, assume tutto il suo senso antagonista.
Hailee Steinfeld e Douglas Booth
Anche se il film, realizzato nel 2013 (lo abbiamo visto al Festival di Roma) è uscito nelle sale prima degli Usa e del Portogallo che dell’Italia. E l’accoglienza critica semifreddina, allora, è stata inversamente proporzionale a quella, calda e emozionata, del pubblico più giovane. Non fosse dunque che per aver seguito, assieme a Martone e Ferrara, l’indicazione guerrigliera rosselliniana di un cinema ad apertura didattica ampia (ricordiamo il Ferrari e perfino il Padre Pio televisivo di Carlei) che si contrapponga al lavaggio scientifico dei cervelli più cuccioli, operazione lanciata dopo il 68 da qualche servizio segreto scolastico, già l’impresa di Carlei sarebbe da ammirare. 
Shakspeare, che visse in un momento di grave crisi socio-politica, scrisse e mise in scena tutti  suoi drammi (e il pubblico elisabettiano li premiò con un eccitante successo al botteghino e un clima ultrà in galleria) indicando la zona fertile in cui il vecchio mondo stava trasformandosi in mondo nuovo. I suoi personaggi sono in conflitto radicale con la società e della propria individualità i primi a prendere coscienza sono proprio i giovani. 

Sono loro che superano sia lo stadio delle torri armate l’un contro l’altra, di cui sono le vittime privilegiate (il feudalesimo medievale nel quale è ambientato il dramma d’amore di Shakespeare, fedele omaggio a Dante, oggi anelato dai Leghisti) che quello rinascimentale: il principio e la fine dell’Universo è certo l’individuo, ma troppe “signorie” vecchie e nuove lo schiacciano ancora, nell’Europa del XV e XVI secolo, e anche del XXI secolo, per impedirgli di diventare un individuo massa, e poi “democratico”. Quel pubblico viveva in una società, religiosamente e politicamente totalitaria, dopo la rivoluzione fallita. Ma quello di oggi? Nessuno ha provato, neanche su Netflix, a trascrivere in miniserie l’intero testo. Forse nell’epoca di Occupy Wall Street e di Tsipras, reggerebbe, dalla prima all’ultima parola.   
Giulietta, Hailee Steinfeld, e Romeo, Douglas Booth
Nella novella quattrocentesca di Luigi da Porto, una delle basi di partenza della rielaborazione shakesperiana, i Montecchi sono la famiglia più nobile. Aristocratici allevatori di cavalli, i genitori di Romeo. I Capuleti sono invece la famiglia dei “nuovi ricchi”, come li chiameremmo oggi. Importano sale dall’Austria, la dinastia di Giulietta. Allevatori contro commercianti. Sottomessi entrambi, però, a un potere dispotico superiore… Sembra lo scontro tipico di un film western. E un po’ Carlei gioca all’Ok Corral. Risse e duelli non mancano. Così come sbronze, agguati, fughe…

Ma non basta innervare il più romantico dei drammi elisabettiani dentro una dinamica d’azione per imbrogliare il distratto pubblico di oggi, sconvolto dal rigoglio linguistico barocco e immaneggiabile del Bardo. E poi un po’ lo ha già fatto quasi 20 anni fa Baz Lurhmann, nella sua attualizzazione acida e alla moda del melodramma veronese. E ancor prima, nel Giulio Cesare con Marlon Brando, Mankiewicz riempì, per rendere la seconda parte della storia sopportabile, di costose battaglie campali e navali filologicamente corrette, un testo decifrabile solo vivendo nell’orrore di una tirannia schiacciante. Come facevano russi, ungheresi, cechi e polacchi durante le dittature del capitalismo di stato. 

Hailee Steinfeld
Basterà questa volta la rielaborazione swinging dello sceneggiatore Julian Fellowes, che ha ritoccato il capolavoro per fluidificare e rimodernare? O un cast mozzafiato, da Royal Company, che ci scodella Paul Gamatti, il frate, Damian Lewis, il padre di Giulietta, Leslie Manville, la nutrice, Natasha McElhorne, la mamma di Giulietta, Stellan Skarsgard, il Principe di Verona, Ed Westwick, Tebaldo, Christian Cook, Mercuzio e soprattutto il Benvolio di Kodi Smit-McPhee? O la bellezza record di Romeo, Douglas Booth, e la grazia conturbante di Hailee Steinfeld, una Giulietta spregiudicata come ogni sedicenne di oggi, specie se reduce da un set dei Coen (True Grit)? O la ricchezza di castelli, chiese, mura, torri, giardini, quadri, piazze, scorci rinascimentali autentici e di tessuti e di costumi usciti dagli arazzi e dalle tele dell’epoca a iniettare Shakespeare nelle vene di oggi? Non è la colonna sonora ansiogena e onnipresente di Abel Korzeniowski ma la teoria del tutto di Carlei. Cioè la capacità alchemica di collegare tutto - e soprattutto quell’eclettico cast non facilmente incastonabile in un paesaggio italiano e nei tessuti preziosi di Carlo Poggioli (e Milena Canonero) - in un unico flusso spaziale, erotico ed emotivo che si trascina nell’abisso. Oltre al tributo pagato subliminalmente da Carlei al capovolgimento dei ruoli, imposto oggi dalla donna sia occidentale che orientale, vista la barbutissima reazione isterica dei ventenni e dei millennial in generale, tra Romeo e Giulietta. 
Hailee Steinfeld
Non solo è lei a sedurre lui, ma sono le donne, la nutrice e la madre, a collaborare senza neppure un dubbio, alla relazione sovversiva. Tanto che ci si chiede come mai Carlei non abbia preferito il titolo di Castellani (e di Da Porto) al suo (e a quello di Shakespeare)…L’adolescente di 14 anni magra e gracile con le scapole leggermente sporgenti che è un po’ nel nostro immaginario Giulietta diventa una solida ragazza da campus universitario che stuzzica per prima Romeo facendogli dimenticare d’un tratto l’altra donna per cui spasimava e conquistandolo con un solo giro di danza. Ma anche capace di manovrare la tata, sfoggiando virtù diplomatiche e soprattutto di interpretare con sorprendente duttilità anche il lato dark che il testo non cela. “Morir vorrei, non altro”. Emblema della blank generation, da un bel po’ di decenni.  
Paul Giamatti (sinistra) e Leslie Manville (destra)

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