Mariuccia Ciotta
L'ipocrisia feroce dei miliziani di al Qaeda e l'orrore della guerra civile siriana in Timbuktu, capolavoro del mauritano Abderrahmane Sissako, candidato all'Oscar 2015 per il miglior film straniero e vincitore di 7 premi Cesars, gli Oscar francesi, esce nelle sale italiane
La
città edificata da un bambino che gioca con la sabbia, Timbuktu con
le sue case dalla facciata merlettata dai colori fusi con la terra
del deserto, è il set del film che si batterà per l’Oscar al
migliore film straniero, dopo aver sfiorato un premio a Cannes. Lo ha
diretto con finanziamenti anche francesi il mauritano
Abderrahmane Sissako, 53 anni, studente di cinema in in Urss, tra i più pregiati narratori del
cinema contemporaneo (Bamako,
La vie sur terre).
Immagini
rarefatte, miraggi pittorici, contorni sfumati nella polvere
gialla... una bellezza che Sissako cattura facilmente come una
farfalla nella rete, lì in un luogo degno delle sette meraviglie del
mondo, e che negli ultimi anni è stato calpestato dal gruppo
al-Qaida nel Maghreb islamico.
Sissako e i due piccoli attori sul set di Timbuktu |
E'
il vertiginoso contrasto con il sito fiabesco e il potere sadico dei
figli degeneri di Allah che il regista mette in scena,
racconto sulla “banalità del male” tra le dune del Sahara.
Timbuktu,
titolo
imperdibile,
si
apre con il tiro a bersaglio su statuette antiche di terracotta, a
ricordare il santuario e altre quattro dimore “patrimonio
dell'umanità” demolito dagli islamisti, iconoclasti salafiti, che
pattugliano le strade sterrate a bordo di motorette e fuori strada.
Ma
non siamo in un film d'azione. E, attenzione, uno dei motociclisti è
avulso, avrà un ruolo “benefico” nella storia, forse è un
doppio dello stesso regista....
Il
lento flusso di una normalità perversa sale dalla languida regione,
un branco di mucche in cerca di arbusti rinsecchiti, il fiume Niger,
la luna grande, il profilo di una tenda, il silenzio.
Alle porte
della città vive Kidane (Ibrahim Ahmed), la faccia di un Rodolfo
Valentino “figlio dello sceicco”, la moglie Satima (Toulou Kiki)
e una figlioletta sognante. Immersi nel nulla, si tengono lontani dal
gruppo di maschi armati, specie di bulli indolenti, guardie di una
jihad a uso privato, che impongono l'hiijab e i guanti alle donne,
vietano la musica, il calcio (che ci condurrà in una variazione alla
“Antonioni” di grande ferocia satirica), introducono la sharia,
gli adulteri saranno lapidati.
Sissako
anticipa il rapimento delle liceali nigeriane, e mostra la pratica
dei matrimoni forzati. Tutto in punta di macchina da presa, spargendo
humour, paradossi surreali, come quando un ragazzino recalcitrante,
scelto per uno spot di propaganda, si inceppa nella pomposa retorica
integralista e si mette a mimare i gesti del rapper.
C'è chi non
parla bene l'arabo, e si esprime in francese o inglese, c'è chi è
un tuareg, chi conosce solo la lingua del suo villaggio, sono i
seguaci reclutati controvoglia da un manipolo di capi da cupola
mafiosa, rinnegati dal mullah della moschea, predicatore per la pace
e per il vero Corano.
La
debolezza umana che trapela dai volti bendati è più devastante che
mai, visti da vicino gli alqaedisti perdono d'intensità drammatica,
altro che scontro di religioni, le squadre di barbuti con megafono
diramano ordini ridicoli, e poi frustano a sangue ragazzi e ragazze
canterini.
Il regista
mauritano realizza un film vicino alla poetica di Idrissa Ouedraogo,
burkinabé, con i suoi tempi sospesi, minimalismo passionale e una
implacabile suspense. Ritratto del Mali e del conflitto nel nord del
paese cavalcato da al-Qaida, prima dell'intervento francese del 2013.
La radiografia dell'integralismo, però, non ha frontiere, e il
cinema di Sissako smaschera l'ipocrisia di questi soldati di dio,
sguinzagliati dalle forze di controllo non solo regionali - il
petrolio è sgorgato di recente nel Mali - con il compito di
stroncare ogni insorgere di libertà.
Timbuktu,
Eldorado di cultura e di ricchezza, al suo massimo splendore nel
1500, ridotta ai margini della civiltà, è come l'elegante e fragile
gazzella che corre nel prologo del film inseguita dalle mitragliate
di uomini su una jeep. Raffiche che falciano un cespuglio di erba in
una sequenza folgorante, digressione surreale da Man Ray, a
disertificare il “corpo” sensuale delle dune. Corrono anche i
bambini, alla fine, orfani di tanti padri, in mezzo alla distesa
ondulata, il deserto che non ha protetto Kidane ma che sembra troppo
grande e meraviglioso per diventare preda del disumano.
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