di Roberto Silvestri
Dopo titoli di coda color rosso acceso sul primissimo piano di un vestito scarlatto: la storia d’amore di Julieta con un vedovo galiziano,
sul mare, tanti anni fa, nata sul treno (e non senza sensi di colpa). La campagna assolata in Andalusia dove vivono, ancora
oggi, i genitori di Julieta. Una fuga dalla Spagna, fin sul lago di Como e in Ticino, di sua figlia Antia, traumatizzata dalla morte del padre Xoan, pescatore adorato. Lorenzo (Dario Grandinetti) un madrileno
di una certa età ama Julieta, non più giovanissima ormai e vorrebbe con lei fare una
vacanza romantica in Portogallo, ma lei sparisce d'un tratto, cambia idea e perfino casa e lui la segue e
la spia; riappare Bea (Michelle Jenner) la migliore amica e quasi amante teenager della figlia Antia (Priscilla Delgato e Blanca Pares) che svela di averla vista, ancora viva, vegeta e mamma, 13 anni dopo……
Sono più o meno tre storie differenti che si incastrano,
spaziotemporalmente, in un intrigo melodrammatico che coinvolge padre madre figlia amanti mogli in coma sconosciuti scultrici e parenti e che ha a che fare con la
maturità inevitabile, l’invecchiamento spietato, gli errori fatali di una vita a cui non c'è rimedio.
Ma che è soprattutto concentrato sul rapporto madre/figlia(o). Nel neorealismo era il
figlioletto che faceva le veci del padre in crisi di valori e ricostruiva un
paradigma etico plausibile per tutti (Ladri di
biciclette), per ripartire. Adesso, con l’evaporazione del padre, qui in senso proprio, è cruciale il rapporto
madre/figlia(o). Se no non si riparte. Nessun progresso. Ma attenzione. Il cinema e la vita non sono la stessa cosa.
Quando nella vita ci si accende una sigaretta e il fiammifero si spegne una
prima volta, e bisogna riaccenderne un altro, è un casualità, senza senso.
Quando succede nel cinema, invece, è un avvertimento. C’è dell’intenzionalità
espressiva. Del suspense. E chi sa trasformare meglio di tutti i casi fortuiti in
melodramma focoso e sottilmente autobiografico, da quando Hitch non c'è più, è Pedro Almodovar.
Al film
numero 34 le citazioni dal mago del suspense si acculumano. Soprattutto Rebecca, Delitto per delitto, Marnie. Se Moretti si focalizza sulla madre che muore, Almodovar indaga infatti sulla figlia che (giustamente) svanisce… sulla stanza della figlia.
“La vecchiaia non è una
malattia. E’ un massacro” afferma l’autore di Tutto su mia madre (1999). E forse fa agire in modo più incauto, e
non solo esteticamente. Il cineasta che viene dalla Spagna più profonda e
donchisciottesca, Pedro Almodovar, l’enfant prodige della movida madrilena e
gay degli anni 80, oggi ha folti capelli bianchi e la barbetta.
Oltre che sceneggiatore e regista
(di venti film) barocco ed estroverso Almodòvar, 67 anni, è anche un produttore
scatenato e transnazionale ed è stato coinvolto con il fratello Agustin,
cineimprenditore e titolare della loro società, nel Panama Papers, proprio
pochi giorni prima di Cannes 69.
I mass media hanno sbattutto
i mostri in prima pagina, senza rendersi conto che la maggiore notorietà, in
questi casi, non equivale a maggiore colpevolezza giuridica (“noi siamo le
comparse in questo film, e non i protagonisti” ha commentato il regista a
Cannes, dopo un lungo silenzio stampa in patria). E che nel cinema, da che mondo e mondo tutti
trasferiscono i soldi all’estero, anche i divi più impensabili. Fanno male?
Certo. Ma il cinema è un’affare piuttosto rischioso, e siccome ha a che fare
con l’arte merita le attenuanti generiche quando si infrangono codici e
regole di qualunque tipo, non solo
penali…
La cosa ha comunque
imbarazzato il gruppo di Pedro, inquinato l’accoglienza serena in sala Lumiere
e la ricezione critica a Julieta, il
suo nuovo e strano cupo film “tutto femminile”, adesso nelle sale italiane,
tratto con molta attenzione e rispetto dai racconti realisti e anche un po’ misteriosi
e grotteschi della scrittrice canadese premio Pulitzer Alice Munro (Chance, Soon e Silence). Una narratrice dalla
testiera emotiva ipersensibile, e dall’immaginario particolarmente radicato nel
vasto panorama e nella mentalità nordamericanoa, tanto che Almodovar aveva
pensato in un primo momento di girare il film a New York con attrici
statunitensi, per poi arrendersi e creare in Spagna una geografia mentale e di
set altrettanto vasta, riappropriandosi del controllo linguistico
completo. Dalla Galizia all’Andalusia,
da Madrid al Ticino e al Portogallo lo spazio viene dilatato al massimo, e
anche il melodramma si fa meno fiammeggiante del solito, più secco, controllato,
interiore. Anche se le musiche soft jazz di Alberto Iglesias hanno il compito di creare una atmosfera densa e inquietante in stile Bernard Herrman. Insomma Pedro Almodovar cambia
registro. Il suo Julieta è un film più
sobrio del solito. I colori sono sempre accesi al massimo, il cromatismo è
vistoso, perché il regista nasce al cinema con i technicolor hollywoodiani
degli anni ’50, con Sirk e Minnelli, e ha negli occhi uno sguardo pop. Ma
questa volta niente movida, né eccentricità sessuale, né sbronze di kitsch. Il
focus è sui drammi interiori di una vedova madrilena che ha perduto la figlia
tanto tempo fa, non perché è morta ma perché è fuggita di casa incolpandola
della morte dell’adorato padre, un pescatore galiziano buttatosi nella tempesta
a causa di un litigio di gelosia e per esser stato scoperto amante, perenne, di
una sua amica, pittrice e scultrice. Ava (Inma Questa). Che scolpisce statue con enormi falli attivi (in realtà opera dell'artista Miquel Navarro). A Cannes i primi piani sui cazzi vispi sono andati forte (anche nella commedia tedesca Toni Erdmann).
Tanti anni dopo, prima
dell’agognata vacanza a Lisbona, riemergono tracce della figlia e il film va
indietro nel tempo, a ricostruire il complicato puzzle esistenziale di questa
donna esausta, giocando, coi mezzi toni e le note blue, l’eresia di una fiaba
morale capovolta. Si dice: i figli devono uccidere i genitori per crescere. E
se avvenisse anche il contrario? I genitori devono uccidere i figli, per
sopravvivere? Julieta ha due corpi
(anche qui echi di Bunuel e Hitchcock), da grande quello di Emma Suarez (che ha rivisto Europa 51 per entrare nella parte della
“folle pura”) e da giovane quello di Adriana Ugarte, un’insegnante di filologia
classica bella come non ve ne potrà mai capitare una simile, esperta in miti, emula
di Ulisse, che solca il mare dell’avventura – quando i sentimenti comandano -
rifiutando l’agio e la tranquillità, la ricchezza e la lussuria. Perché la vita
è un mare in tempesta, non il calmo mare di una cartolina.
"Non credo nella
punizione per gli sbagli commessi, ma purtroppo a volte la vita ci
punisce", ha commentato, pessimista come Loach, Almodovar pensando sia al film che alla sua vita e
all’intreccio sempre molto saldo tra arte, biografia e Spagna come si è ridotta adesso. Se molti registi parlano
della mamma, in questi ultimi mesi, da Xavier Dolan a Nanni Moretti da Mario
Balsamo a Gianfranco Albano (la mamma di Imposimato), Almodovar si concentra
sul mistero della figlia scomparsa. Negli Stati Uniti è di prammatica che
svolazzi via, mica si chiama la polizia. In Europa, nonostante gli Erasmus,
molto meno. Forse per apprezzare meglio il film bisognerebbe rivedere anche Stella Dallas di King Vidor (1937). Anche lì ci si vergognava della madre Barbara
Stanwych. Perché fa troppo per sua figlia ed è proletaria. Qui non fa quasi
nulla, ed è borghese.
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