sabato 28 maggio 2016

La stanza della figlia. Julieta di Pedro Almodovar



di Roberto Silvestri


Dopo titoli di coda color rosso acceso sul primissimo piano di un vestito scarlatto: la storia d’amore di Julieta con un vedovo galiziano, sul mare, tanti anni fa, nata sul treno (e non senza sensi di colpa). La campagna assolata in Andalusia dove vivono, ancora oggi, i genitori di Julieta. Una fuga dalla Spagna, fin sul lago di Como e in Ticino, di sua figlia Antia, traumatizzata dalla morte del padre Xoan, pescatore adorato. Lorenzo (Dario Grandinetti) un madrileno di una certa età ama Julieta,  non più giovanissima ormai e vorrebbe con lei fare una vacanza romantica in Portogallo, ma lei sparisce d'un tratto, cambia idea e perfino casa e lui la segue e la spia; riappare Bea (Michelle Jenner) la migliore amica e quasi amante teenager della figlia Antia (Priscilla Delgato e Blanca Pares) che svela di averla vista, ancora viva, vegeta e mamma, 13 anni dopo……
Sono più o meno tre storie differenti che si incastrano, spaziotemporalmente, in un intrigo melodrammatico che coinvolge padre madre figlia amanti mogli in coma sconosciuti scultrici e parenti e che ha a che fare con la maturità inevitabile, l’invecchiamento spietato, gli errori fatali di una vita a cui non c'è rimedio. Ma che è soprattutto concentrato sul rapporto madre/figlia(o). Nel neorealismo era il figlioletto che faceva le veci del padre in crisi di valori e ricostruiva un paradigma etico plausibile per tutti (Ladri di biciclette), per ripartire. Adesso, con l’evaporazione del padre, qui in senso proprio, è cruciale il rapporto madre/figlia(o). Se no non si riparte. Nessun progresso. Ma attenzione. Il cinema e la vita non sono la stessa cosa. Quando nella vita ci si accende una sigaretta e il fiammifero si spegne una prima volta, e bisogna riaccenderne un altro, è un casualità, senza senso. Quando succede nel cinema, invece, è un avvertimento. C’è dell’intenzionalità espressiva. Del suspense. E chi sa trasformare meglio di tutti i casi fortuiti in melodramma focoso e sottilmente autobiografico, da quando Hitch non c'è più, è Pedro Almodovar. 
Al film numero 34 le citazioni dal mago del suspense si acculumano. Soprattutto Rebecca, Delitto per delitto, Marnie. Se Moretti si focalizza sulla madre che muore, Almodovar indaga infatti sulla figlia che (giustamente) svanisce… sulla stanza della figlia.  
“La vecchiaia non è una malattia. E’ un massacro” afferma l’autore di Tutto su mia madre (1999). E forse fa agire in modo più incauto, e non solo esteticamente. Il cineasta che viene dalla Spagna più profonda e donchisciottesca, Pedro Almodovar, l’enfant prodige della movida madrilena e gay degli anni 80, oggi ha folti capelli bianchi e la barbetta.
Oltre che sceneggiatore e regista (di venti film) barocco ed estroverso Almodòvar, 67 anni, è anche un produttore scatenato e transnazionale ed è stato coinvolto con il fratello Agustin, cineimprenditore e titolare della loro società, nel Panama Papers, proprio pochi giorni prima di Cannes 69.
I mass media hanno sbattutto i mostri in prima pagina, senza rendersi conto che la maggiore notorietà, in questi casi, non equivale a maggiore colpevolezza giuridica (“noi siamo le comparse in questo film, e non i protagonisti” ha commentato il regista a Cannes, dopo un lungo silenzio stampa in patria).  E che nel cinema, da che mondo e mondo tutti trasferiscono i soldi all’estero, anche i divi più impensabili. Fanno male? Certo. Ma il cinema è un’affare piuttosto rischioso, e siccome ha a che fare con l’arte merita le attenuanti generiche quando si infrangono codici e regole  di qualunque tipo, non solo penali…
La cosa ha comunque imbarazzato il gruppo di Pedro, inquinato l’accoglienza serena in sala Lumiere e la ricezione critica a Julieta, il suo nuovo e strano cupo film “tutto femminile”, adesso nelle sale italiane, tratto con molta attenzione e rispetto dai racconti realisti e anche un po’ misteriosi e grotteschi della scrittrice canadese premio Pulitzer Alice Munro (Chance, Soon e Silence). Una narratrice dalla testiera emotiva ipersensibile, e dall’immaginario particolarmente radicato nel vasto panorama e nella mentalità nordamericanoa, tanto che Almodovar aveva pensato in un primo momento di girare il film a New York con attrici statunitensi, per poi arrendersi e creare in Spagna una geografia mentale e di set altrettanto vasta, riappropriandosi del controllo linguistico completo.  Dalla Galizia all’Andalusia, da Madrid al Ticino e al Portogallo lo spazio viene dilatato al massimo, e anche il melodramma si fa meno fiammeggiante del solito, più secco, controllato, interiore.  Anche se le musiche soft jazz di Alberto Iglesias hanno il compito di creare una atmosfera densa e inquietante in stile Bernard Herrman. Insomma Pedro Almodovar cambia registro. Il suo Julieta è un film più sobrio del solito. I colori sono sempre accesi al massimo, il cromatismo è vistoso, perché il regista nasce al cinema con i technicolor hollywoodiani degli anni ’50, con Sirk e Minnelli, e ha negli occhi uno sguardo pop. Ma questa volta niente movida, né eccentricità sessuale, né sbronze di kitsch. Il focus è sui drammi interiori di una vedova madrilena che ha perduto la figlia tanto tempo fa, non perché è morta ma perché è fuggita di casa incolpandola della morte dell’adorato padre, un pescatore galiziano buttatosi nella tempesta a causa di un litigio di gelosia e per esser stato scoperto amante, perenne, di una sua amica, pittrice e scultrice. Ava (Inma Questa). Che scolpisce statue con enormi falli attivi (in realtà opera dell'artista Miquel Navarro). A Cannes i primi piani sui cazzi vispi sono andati forte (anche nella commedia tedesca Toni Erdmann).
Tanti anni dopo, prima dell’agognata vacanza a Lisbona, riemergono tracce della figlia e il film va indietro nel tempo, a ricostruire il complicato puzzle esistenziale di questa donna esausta, giocando, coi mezzi toni e le note blue, l’eresia di una fiaba morale capovolta. Si dice: i figli devono uccidere i genitori per crescere. E se avvenisse anche il contrario? I genitori devono uccidere i figli, per sopravvivere? Julieta ha due corpi (anche qui echi di Bunuel e Hitchcock), da grande quello di Emma Suarez (che ha rivisto Europa 51 per entrare nella parte della “folle pura”) e da giovane quello di Adriana Ugarte, un’insegnante di filologia classica bella come non ve ne potrà mai capitare una simile, esperta in miti, emula di Ulisse, che solca il mare dell’avventura – quando i sentimenti comandano - rifiutando l’agio e la tranquillità, la ricchezza e la lussuria. Perché la vita è un mare in tempesta, non il calmo mare di una cartolina.
"Non credo nella punizione per gli sbagli commessi, ma purtroppo a volte la vita ci punisce", ha commentato, pessimista come Loach, Almodovar pensando sia al film che alla sua vita e all’intreccio sempre molto saldo tra arte, biografia e Spagna come si è ridotta adesso. Se molti registi parlano della mamma, in questi ultimi mesi, da Xavier Dolan a Nanni Moretti da Mario Balsamo a Gianfranco Albano (la mamma di Imposimato), Almodovar si concentra sul mistero della figlia scomparsa. Negli Stati Uniti è di prammatica che svolazzi via, mica si chiama la polizia. In Europa, nonostante gli Erasmus, molto meno. Forse per apprezzare meglio il film bisognerebbe rivedere anche Stella Dallas di King Vidor (1937).  Anche lì ci si vergognava della madre Barbara Stanwych. Perché fa troppo per sua figlia ed è proletaria. Qui non fa quasi nulla, ed è borghese.      

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