Roberto
Silvestri
“Né
la legge islamica né la legge marziale devono governare l’Egitto”.
Così afferma nel press-book il regista Mohamed Diab, chiamato a
inaugurare la sezione Un Certain Regard, e già autore del
blockbuster The Island che dal 2007 primeggia nel box office
cairota di tutti i tempi. Diab auspica una terza via,
costituzionalmente corretta, e che ricomponga il paese lacerato in
due. Giusto.
Però
da quel che si vede in Esthebak, la seconda
legge sta sanguinosamente prendendo il controllo nel paese.
Desaparecidos. Mai sentito in Egitto. Arresto di giornalisti. Retate
di islamisti armati. Non solo l’omicidio sfacciato di Regeni (che
ha avuto l’effetto di sbriciolare ancora di più l’unità
politica dell’Europa, visto che i francesi sono platealmente
ansiosi di prendere il posto dell’Italia negli scambi economico con
il neotiranno “moderato” al Sisi). Prendiamo una scena del film
che ci appare, dopo questo crimine insoluto, veramente abietta. Il
tenente della polizia antisommossa ordina a un sottoposto: “Tieni
pure aperta la porta del furgone con i prigionieri dentro, se no
potrebbero pensare che torturiamo i detenuti!”.
Prendiamo
anche le scene degli scontri di piazza (che fecero molte vittime, e
meno tra i poliziotti). Gli insorti sono visti come scalmanati folli
che gettano pietre e sparano con le armi a casaccio e perfino contro
il furgone con i loro compagni dentro (sic). Insomma chi vede il film
non potrà che stare, nel conscio e nel subconscio, dalla parte dei
poliziotti e dell’esercito….Dice il regista che ha costruito la
scena con un militare assassinato dal cecchino islamista: “perchè
così si vede come e perché un ufficiale di polizia possa diventare
estremamente violento”. Attenuanti generiche.
Uno
dei film più attesi a Cannes, claustrofobico perché il soggetto è
la chiusura del processo rivoluzionario in Egitto, e il regista si
autodefinisce un promotore dell’insurrezione del 2011, è quello
che ha aperto il “concorsino”, come lo ha definito Riccardo
Scamarcio, che è in gara nei prossimi giorni per la piccola palma
con “Pericle il nero”, il thriller anomalo di Stefano Mordini.
Attesa
delusa, quella per “Esthebak”, nonostante le scene di rivolta
popolare e di scontri duri con la polizia siano tabù
nell’immaginario cinematografico mondiale mainstream e nonostante
alcuni accorgimenti narrativi quasi originali (come l’unità di
luogo, tutto si svolge, pipì compresa, dentro un cellulare della
polizia che ramazza prigionieri di ambedue gli schieramenti,
oscurantisti islamisti e rivoluzionari democratici), che paraltro ci
ricorda sinistramente un’analoga trovata (un film israeliano
interamente girato dentro un carro armato all’assalto di Jenin).
Le
scene d’azione nel buio dei quartieri popolari sono ricostruite
bene, fantasmatiche, quasi un documentario dalla città dei morti,
con l’uso di 500 tra comparse e cascatori, sniper ovunque (la
polizia non spara mai piombo, solo lacrimogeni in aria…). Poi i
dialoghi sono banalmente “quotidiani” e sentimentali come sanno
essere solo nei peggiori mèlo egiziano e non scodellano sostanza
conoscitiva rispetto a avvenimenti che avrebbero davvero bisogno di
essere compresi e analizzati meglio, certo anche attraverso il
“fattore umano” (era il metodo utilizzato nelle commedie
satiriche anti Mubarak di Sherif Arafa, pur citato nel film, ma non
troppo ben reinterpretato).
Il
regista egiziano Mohamed Diab, già autore anche di “Cairo 678”,
pamphlet antimachista, che ebbe molto successo nel 2011, narratore
popolare che non si spaventa di affrontare importanti questioni
politiche e umane comunicando con il più largo pubblico, racconta
questa volta con la collaborazione del fratello sceneggiatore Khaled Diab, e di una ventina di attori-prigionieri (tra questi la star Nelly Karim, già attrice di Chahine) abituati alle
tonalità enfatiche delle serie televisive in “Esthebak”, ovvero
“Clash”, ovvero “Scontro”, i giorni della caduta di Mohamed
Morsi. Parliamo cioé del 2013. Delle manifestazione avvenute dopo e
contro il “colpo di stato”, come lo chiamano i filo-integralisti
islamici, che volevano rimettere Morsi al potere; e quelle, parallele
e conflittuali, della componente laica, femminista e democratica del
movimento, completamente a favore della “rivoluzione” e al fianco
dell’esercito.
Si
capisce subito dal film che Diab è stato dalla parte di chi non
considera la cacciata di Morsi, pur democraticamente eletto, un
“colpo di stato” né Al Sisi il suo dittatoriale e machiavellico
ideatore. Questo è anche il motivo grazie al quale il film è stato
fatto senza problemi di sorta e di censura, anzi con l’aiuto
del’esercito visto che ricostruire scene di guerriglia urbana non
poteva passare inosservato. Il tutto anche grazie a contributi
produttivi francesi (Arte e Sampek), tedeschi e degli Emirati Arabi
Uniti. Insomma un film non anti-governativo, anche se è giusto
considerare quella defenestrazione di Morsi come l’esito politico
delle più grandi manifestazioni di massa avvenute nella storia del
paese dall’epoca di Nasser, con milioni di cittadini esasperati dal
malgoverno dei Fratelli Musulmani. Dunque una cacciata imposta dal
basso ai militari (che poi ne hanno approfittato, come sappiamo),
perché Morsi, il leader dei Fratelli Musulmani, organizzazione
islamista di antica origine, già molto potente con Mubarak, per il
quale controllava scuola e sanità, stava attentando alla laicità
della Costituzione e voleva introdurre nella carta comune articoli
regressivi, bigotti, partigiani e oscurantisti. Meno chiara la
partecipazione dei moti pro-esercito da parte della componente
integralista ancora più fanatica dei Fratelli musulmani, ovvero
quella dei salafiti che hanno fiancheggiato Al Sisi, e ancora lo
fanno, in nome di una strategia internazionale sunnita che li vede al
fianco di alcuni paesi del golfo contro altri (Arabia Saudita contro
Qatar). Ma nel film niente di tutto questo. E neppure una bella
litigata tra gli opposti estremismi militanti, tutti vagamente
ridicolizzati: il leader religioso e astuto come una volpe, la donna
con il velo, il rappettaro, il tifoso dell’Al Alhi, laico ma
gelosissimo della sorella, il giornalista un po’ opportunista, di
Al Jazeera (che è modellato su chi ha passato davvero un anno e
mezzo in prigione dopo quei fatti, cioé l’egitto-canadese Mohamed
Fahmy), il ciccione con lo scolapasta in testa che è una macchietta
obbligatoria in ogni commedia cairota, il vecchio che ha perso il
figlio e urla il suo nome nella notte, l’infermiera costretta a
usare mezzi molto rudimentali per cucire una ferita, l’homeless che
ha perso il cane, i membri del partito islamista e i simpatizzanti,
chi inneggia già all’Isis, la mamma che trema ma che sa anche
urlare per proteggere il suo piccolo, il poliziotto dal cuore tenero
che tradisce, l’ufficiale implacabilmente stupido…
Molto
simili sociologicamente i due schieramenti, come mai ce lo saremmo
aspettato. Borghesi e proletari, donne e uomini, studenti e operai su
fronti opposti. E da quel che captiamo i temi più interessanti che
si intuiscono dal film sono una certa xenofobia diffusa (la teoria
del complotto straniero che perseguiterebbe qualunque cambio politico
al Cairo); il tradimento dei giornalisti (c’è anche un fotografo,
ispirato a Mohamed Abu Zied, in carcere ci sta da tre anni e non
credo perché riprendeva con un orologio-telecamera) e un finale
davvero orrendo con il furgone finalmente nelle mani dei
manifestanti. Ma non si sa di quale fazione. Per cui metà dei
prigionieri trema.
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