sabato 28 maggio 2016

Olli, la maniera comunista di boxare. Il film finnico che ha vinto Un Certain Regard


di Roberto Silvestri

Un bel giorno Zeman fu esonerato da allenatore del Lecce dopo una sconfitta con il Bari per 4-0. Il suo commento dopo la sconfitta fu: “E’ stata la più bella partita che il Lecce ha disputato quest’anno”. E’ una battuta capace di rendere ancora più folli i fanatici più irriducibili. I tifosi ciechi e furiosi. Ben fatto Zeman.
Questo film racconta un altro sorprendente commento, simile e anticonformista, fatto da un campione sportivo dopo una disfatta.
E’ un film sul pugilato. Ma non è Joan Carol Oates che ha scritto: “la boxe è la celebrazione della religione perduta della virilità”?
E’ meraviglioso veder combattere oggi tante donne, alle prese con la pià nobile delle arti.

Questo è un film sul pugilato di una volta. E un film sui professionisti dell’età d’oro, ce lo ha insegnato Martin Scorsese in Toro scatenato, si fa solo in bianco e nero. Negli anni 60 poi la boxe la vedevamo, in tv, senza i colori. Per goderci uppercut e ko cromatici bisognava inseguire Elvis Presley star canterino, sexy e femmineo, di Pugno proibito (Kid Galahead in originale) e le gaeliche performance dei ragazzi massacrati di botte per volere della Mafia del ring contro cui il regista progressista Phil Karlson (una sorta di Saviano in technicolor) lanciava invettive (in Phoenix City Story contro i ras del gioco d’azzardo e delle slot machine, che sarebbe utile far vedere sulla Rai in prima serata, prima di prendere a martellate e a Stalin tutte le macchinette spilla soldi che stanno rovinando il paese).
Molti però ricordano ancora le romantiche nottate Rai a luce di ring con D’Agata, Burruni, Loi, Benvenuti, Mazzinghi. Le teche Rai ogni tanto le replicano. Con i commenti tecnici e britannici di Adone Carapezzi. Altro che Galeazzi. Quando un pugile era in calzoncini neri, l’altro bianchi.  
Proprio nella città dove il figlio di un altro campione di quell’epoca, il welter Giancarlo Garbelli ha un negozio di gioielli, a Cannes, il film che ha vinto la “palmetta” della sezione Un Certain Regard, sconfiggendo Pericle il nero, è dedicato a un grande pugile europeo. Al peso piuma finlandese Olli Maki che nel 1962 disputò il match valevole per il titolo mondiale dei pesi piuma a Helsinki contro il detentore della cintura, l’african-american Davey Moore. Siamo dalle parti dei 56 chilogrammi circa. Non facili da raggiungere per Olli (che parte da 60…).
Scorsese (e anche il ciclo Rocky) ci ha insegnato anche che il mondo della boxe, arte e tecnica pugilistica a parte, fa vedere meglio e in controluce la scultura interiore di un momento storico, lo spettro sociale e politico di un’epoca. Quando il presidente Carter perde il combattimento con l’Iran, nasce l’epopea Rocky: si può perdere un incontro, ma non la voglia di combattere per un obiettivo giusto….
Non solo palestra, allenamenti, guantoni, giochi di corda, lunghe corse, l’incontro, il rapporto con il manager e l’avversario, l’ossessione della vittoria, l’occhio della tigre, ma gli sponsor, gli interessi commerciali di un match, la strumentalizzazione di un campione, le culture che si azzuffano fuori dal ring.   
Il regista Juho Kuosmanen, di 37 anni, all’esordio nel lungometraggio dopo aver vinto premi nella categoria dei corti, ed è una scoperta della Cinefondation di Cannes, ha diretto senza grandi competenze sportive ma con stile provocatoriamente classico Il giorno più felice nella vita di Olli Maki, partendo proprio dai ricordi del protagonista dell’avvenimento, storico, perché era la prima volta che la Finlandia sfiorava la gloria pugilistica ma non proprio mitico per come è finito il combattimento. Olli (interpretato da Jarkko Lhati, esordiente, biondo e preciso tecnicamente come un Ed Harris) veniva dall’ambiente operaio e si trovava circondato e appestato da orrendi borghesi o opportunisti leccaculi come il suo manager. E’ comunista, in pieno maccartismo. Innamorato perso della sua futura (e attuale) moglie, Raija (l’esordiente, altrettanto tecnica Oona Airola), in piena preparazione dell’incontro; distratto da cose prioritarie rispetto alla sua professione, perché è un giovane che cerca la sua strada verso la felicità, e solo una visione semplicistica della vita fa coincidere questo obiettivo con la vittoria, la supremazia, l’annichilimento dell’avversario. Il titolo. L’ossessione di mourinho. Vincere, invece, non è tutto. E neanche partecipare, a giudicare dal fastidio per le feste, le interviste con i giornalisti, l’elemosinare soldi al desco dei borghesi, la fama e la simpatia “superficiale” che lo circonda e lo sciovinismo che lo inchioda, prima dell’incontro, a esagerate, se non ridicole, responsabilità. Olli sarà un campione lo stesso e diventerà anni dopo campione d’Europa. Oggi ricorda benissimo quel giorno. Ha l’Alzheimer, ma continua a dire che fu “il più bel giorno della sua vita” perché comprò proprio quella mattina l’anello da sposa della moglie. Ma il film non dice: l’amore è più importante dello sport. Ma dice: è il vostro modo di amare e il vostro modo di concepire lo sport che dovete imporre. Non quello di altri. Se Olli non voleva mandare ko nessun avversario, perché gli sembrava del tutto inutile, pletorico e di cattivo gusto, era per contribuire alla crescita civile di se stesso, non per dare lezione agli altri. Come quando il comico Charlie Chase cerca di punire il topo (e non di ucciderlo) facendolo vergognare per ciò che ha fatto (rubare il formaggio)…. Così Olli è diventato sì un mito, ma solo per una metà del paese. Per i comunisti. O come volete chiamare le anime belle di qualunque posto al mondo.  Certo non ha la forza di Kaurismaki, Kuosmanen. Si fa prendere dal paesaggio, dalla campagna, dai vecchi valori di un mondo in cui successo e competitività non erano i sostantivi dominanti. Ma sa anche lui mettere a segno qualche colpo. E non solo sotto la cintura.  

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