di Roberto Silvestri
Un bel giorno Zeman fu
esonerato da allenatore del Lecce dopo una sconfitta con il Bari per 4-0. Il
suo commento dopo la sconfitta fu: “E’ stata la più bella partita che il Lecce ha
disputato quest’anno”. E’ una battuta capace di rendere ancora più folli i
fanatici più irriducibili. I tifosi ciechi e furiosi. Ben fatto Zeman.
Questo film racconta un altro
sorprendente commento, simile e anticonformista, fatto da un campione sportivo
dopo una disfatta.
E’ un film sul pugilato. Ma
non è Joan Carol Oates che ha scritto: “la boxe è la celebrazione della
religione perduta della virilità”?
E’ meraviglioso veder
combattere oggi tante donne, alle prese con la pià nobile delle arti.
Questo è un film sul pugilato
di una volta. E un film sui professionisti dell’età d’oro, ce lo ha insegnato
Martin Scorsese in Toro scatenato, si
fa solo in bianco e nero. Negli anni 60 poi la boxe la vedevamo, in tv, senza i
colori. Per goderci uppercut e ko cromatici bisognava inseguire Elvis Presley
star canterino, sexy e femmineo, di Pugno
proibito (Kid Galahead in
originale) e le gaeliche performance dei ragazzi massacrati di botte per volere
della Mafia del ring contro cui il regista progressista Phil Karlson (una sorta
di Saviano in technicolor) lanciava invettive (in Phoenix City Story contro i ras del gioco d’azzardo e delle slot
machine, che sarebbe utile far vedere sulla Rai in prima serata, prima di
prendere a martellate e a Stalin tutte le macchinette spilla soldi che stanno
rovinando il paese).
Molti però ricordano ancora
le romantiche nottate Rai a luce di ring con D’Agata, Burruni, Loi, Benvenuti,
Mazzinghi. Le teche Rai ogni tanto le replicano. Con i commenti tecnici e
britannici di Adone Carapezzi. Altro che Galeazzi. Quando un pugile era in
calzoncini neri, l’altro bianchi.
Proprio nella città dove il
figlio di un altro campione di quell’epoca, il welter Giancarlo Garbelli ha un
negozio di gioielli, a Cannes, il film che ha vinto la “palmetta” della sezione
Un Certain Regard, sconfiggendo Pericle il nero, è dedicato a un
grande pugile europeo. Al peso piuma finlandese Olli Maki che nel 1962 disputò
il match valevole per il titolo mondiale dei pesi piuma a Helsinki contro il
detentore della cintura, l’african-american Davey Moore. Siamo dalle parti dei
56 chilogrammi circa. Non facili da raggiungere per Olli (che parte da 60…).
Scorsese (e anche il ciclo Rocky) ci ha insegnato anche che il
mondo della boxe, arte e tecnica pugilistica a parte, fa vedere meglio e in
controluce la scultura interiore di un momento storico, lo spettro sociale e
politico di un’epoca. Quando il presidente Carter perde il combattimento con l’Iran, nasce l’epopea Rocky: si può perdere un incontro, ma non la voglia di combattere
per un obiettivo giusto….
Non solo palestra,
allenamenti, guantoni, giochi di corda, lunghe corse, l’incontro, il rapporto
con il manager e l’avversario, l’ossessione della vittoria, l’occhio della
tigre, ma gli sponsor, gli interessi commerciali di un match, la
strumentalizzazione di un campione, le culture che si azzuffano fuori dal ring.
Il regista Juho Kuosmanen, di
37 anni, all’esordio nel lungometraggio dopo aver vinto premi nella categoria
dei corti, ed è una scoperta della Cinefondation di Cannes, ha diretto senza
grandi competenze sportive ma con stile provocatoriamente classico Il giorno più felice nella vita di Olli Maki,
partendo proprio dai ricordi del protagonista dell’avvenimento, storico, perché
era la prima volta che la Finlandia sfiorava la gloria pugilistica ma non proprio
mitico per come è finito il combattimento. Olli (interpretato da Jarkko Lhati,
esordiente, biondo e preciso tecnicamente come un Ed Harris) veniva
dall’ambiente operaio e si trovava circondato e appestato da orrendi borghesi o
opportunisti leccaculi come il suo manager. E’ comunista, in pieno maccartismo.
Innamorato perso della sua futura (e attuale) moglie, Raija (l’esordiente,
altrettanto tecnica Oona Airola), in piena preparazione dell’incontro;
distratto da cose prioritarie rispetto alla sua professione, perché è un
giovane che cerca la sua strada verso la felicità, e solo una visione
semplicistica della vita fa coincidere questo obiettivo con la vittoria, la
supremazia, l’annichilimento dell’avversario. Il titolo. L’ossessione di
mourinho. Vincere, invece, non è tutto. E neanche partecipare, a giudicare dal
fastidio per le feste, le interviste con i giornalisti, l’elemosinare soldi al
desco dei borghesi, la fama e la simpatia “superficiale” che lo circonda e lo
sciovinismo che lo inchioda, prima dell’incontro, a esagerate, se non ridicole,
responsabilità. Olli sarà un campione lo stesso e diventerà anni dopo campione
d’Europa. Oggi ricorda benissimo quel giorno. Ha l’Alzheimer, ma continua a
dire che fu “il più bel giorno della sua vita” perché comprò proprio quella
mattina l’anello da sposa della moglie. Ma il film non dice: l’amore è più
importante dello sport. Ma dice: è il vostro modo di amare e il vostro modo di
concepire lo sport che dovete imporre. Non quello di altri. Se Olli non voleva
mandare ko nessun avversario, perché gli sembrava del tutto inutile, pletorico
e di cattivo gusto, era per contribuire alla crescita civile di se stesso, non
per dare lezione agli altri. Come quando il comico Charlie Chase cerca di
punire il topo (e non di ucciderlo) facendolo vergognare per ciò che ha fatto
(rubare il formaggio)…. Così Olli è diventato sì un mito, ma solo per una metà
del paese. Per i comunisti. O come volete chiamare le anime belle di qualunque
posto al mondo. Certo non ha la forza di
Kaurismaki, Kuosmanen. Si fa prendere dal paesaggio, dalla campagna, dai vecchi
valori di un mondo in cui successo e competitività non erano i sostantivi
dominanti. Ma sa anche lui mettere a segno qualche colpo. E non solo sotto la
cintura.
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