CANNES
Il film più atteso a Cannes
69, anche per le polemiche che tutti si aspettavano si scatenassero, è stato Elle, il venticinquesimo del cineasta
olandese Paul Verhoeven, che, come Fritz Lang, è tornato a lavorare in Europa (Blackbox) dopo 15 anni di Hollywood, e come spesso
succede ha avuto difficoltà ad riambientarsi. E ha girato in patria poco, solo Tricked, un film televisivo
“partecipato”, molto interessante, visto nel 2012 al festival di Roma di
Mueller, dove ha utilizzato le due telecamere a spalla parallele, come in
questo film, per dare una fotografia non leccata, luci brutali, e movimenti
bruschi da voyeur (specialità di Stéphane Fontaine (Il Profeta).
Paul Verhoeven a sinistra e Isabelle Huppert sul set di Elle |
Attesa ben ripagata, infine, dal risultato positivo, dagli applausi in sala e dalle reazioni durante e dopo la proiezione di questo psicothriller né francese né americano né all’italiana. Opera davvero ibrida e finalmente bastarda, che ci trascina, attraverso la sequenza dell’emissione televisiva “Fasites entrer l’accusé” fino in Norvegia, perché Dijan si è ispirato al serial killer Anders Behring Breivik e poi in Spagna, dietro la bigotta Rebecca, che va in pellegrinaggio al santuario di Compostella.
Oltre che illuminata dalla
perfetta interpretazione della protagonista unica, una scatenata Isabelle
Huppert, al massimo della forma e data da tutti gli scommettitori (perdenti)
per vincitrice della Palma. Forse perché ha vinto sempre e troppo….
Il regista olandese Paul Verhoeven |
Elle, assieme
a Paterson di Jarmush e a Mademoiselle di Park Chan Wook, è il
terzo film della competizione ufficiale che mi sarebbe piaciuto rivedere
subito, almeno una seconda volta, cosa che ormai a Cannes è diventata
impossibile, perché quando ci si inebria di gigantismo si stipa
all’inverosimile il programma, non si permette più a tutti di vedere ciò che si vorrebbe e dunque si…
rischia di entrare in crisi e morire.
E i tre film sono accomunati dalla presenza dominante, egemonica, di personaggi femminili che alla fine non verranno nemmeno puniti per la loro intraprendenza e forte soggettività (forse è per questa impertinenza, chiamata dai borghesi trash, rispetto all’immaginario perbenista, che questi film non sono stati premiati). E’ stata la Cannes delle donne. Si è scritto. Ma per metà è stata la Cannes delle donne da abbattere, punire, contenere, tutelare. Non qui.
Paul Verhoeven (che ha chiuso
la competizione di Cannes 69) ha fatto un film su commissione ma non è riuscito
a girare in California, come inizialmente previsto, la versione cinematografica,
sceneggiata dall’americano David Birke, di un best seller francese, Oh… di Philippe Djian, propostogli da
Said Ben Said, uno dei nostri produttori franco-maghrebini preferiti (la sua filmografia
comprende opere di Polanski, Philippe Garrell, Pascal Bonitzer, Croneberg,
Walter Hill e Barbet Schreoder). Troppo moralisti in America? Piuttosto troppo
abituati a vedere ben differenziata l’area del bene da quella del male e a
degradare le tragedie in melodrammi, che, per quanto agitati o dinamici, siano rispettosi del genere. Quando si fa un
po’ di confusione a questo proposito il consumatore statunitense si confonde e
passa parola. E i critici (ipersensibili alla ricezione in sala) scrivono nel
verdetto l’aggettivo controverso, che
è veleno al botteghino (a Showgirls
applicarono la stessa funesta etichetta…). Significa che le risposte che il
film dà ad ogni perché non sono semplici, lineari e convincenti. Lasciano zone
dark inquietanti. Figuriamoci poi se avessero lasciato come titolo Oh… che fa troppo Histoire d’O.
Se lo raccontate così, il
film, effettivamente, è più che controverso: una manager parigina nel settore
dei video-games, che tiene al guinzaglio una ventina di giovani nerd scatenati,
tra geni della computer graphic, della scienza ludica e della programmazione, e
ha una vita sessuale piuttosto disinvolta, una mamma scatenata e un figlio
adulto non proprio semplice da gestire, viene perseguitata da un maniaco violentatore
che si introduce, e più volte, nella sua ricca casa a tre piani, picchiandola e
stuprandola, sia nei piani di sopra che in quelli di sotto. E invece di
denunciarlo subito, comincia a instaurare con lui un gioco perverso, a distanza
ravvicinata, che è anche sado-maso e cruento.
Ma non si deve raccontare
così il film. Piuttosto così. Perché nei primi due stupri la musica di Anne
Dudley (compositrice inglese) che confligge con l’azione è elettronica e
contundente mentre quella nei sotterranei è orchestrale e a spigoli smussati?
Elle è
Michéle, che gestisce affari giganteschi e vita sentimentale con la mano di
ferro. Come un uomo, più di di un uomo. Ma se l’aggressore sconosciuto - contro
il quale le armi di risposta potrebbero essere un’ascia e uno spray urticante
al peperoncino che ti lascia cieco per mezzora - risulta poi essere qualcuno
che ben si conosce, anzi piace, ci si masturba al solo vederlo passeggiare nel
marciapiede di fronte, le cose sono molto più complicate di come sembrano.
A differenza di qualunque
film di Asghar Farhadi, qui infatti il non ricorso alla polizia, la non
denuncia immediata, non viene motivato dalla sottomissione della donna alle
leggi degli uomini (o peggio dalla misericordia femminile che va molto più in
là dell’ipocrisia conformista maschile) ma ha una giustificazione scritta più che convincente. Michéle ha infatti
il padre in galera a vita perché a Nantes, tanti anni prima, quando lei aveva
dieci anni, ha ucciso più o meno tutto il vicinato, una dozzina di persone,
bambini inclusi, in un momento di pazzia ben pianificata. Insomma è un serial
killer. Michéle non lo vorrà mai più vedere nella vita. E la figlia di un
serial killer, dopo quello che ha passato (ma la sequenza di questo devastante
racconto autobiografico, sopra le note di una Messa solenne, è di una leggerezza insostenibile, se non ci
fossero le spalle di Isabelle Huppert a
sostenerne il tono lieve) preferirebbe certo
non incrociare mai più nella vita né papà, né i mass media né l’opinione
pubblica né un solo poliziotto. Cosa improbabile perché anche quando è al caffè
incrociare un parente delle vittime o su un muro una scritta che la riempia di
insulti è la norma. Ma non è solo il
trauma infantile, post hoc ergo propter
hoc, non è solo il particolare caratterino di Michéle a spiegare tutti i
comportamenti e le intenzioni del suo personaggio. Che non sempre sono chiari,
e che spesso intrecciano realtà con sogno. E spiazzano sempre. Come avveniva in
Total Recall quando l’onirico
spintonava il verosimile. Eccita di questo personaggio complesso la sua radiante
ambiguità. Cosa si nasconde dietro quel viso sorridente nei primi piani (come
nella scena finale, metafisicamente
corretta) e quell’aggressività spontanea e diretta, nei campi medi, nei piani
americani, rispetto alla mamma, all’amante, ai dipendenti, al figlio, all’amica
del cuore, con cui marito scopa e glielo dice, e alla fidanzata del figlio? Si
impara in questo film qualcosa che – ci spiega il regista – si ammira nei
quadri di Turner. Nei campi lunghi la violenza, il disastro, la catastrofe, la
distruzione, sono sublimi. Ma avvicinandosi al primissimo piano, sono davvero orribile.
Inizia così la “partita a scacchi” tra lei e il pubblico, con Verhoeven che
cerca sempre, come in una partitura del suo amato Stravinsky, di sorprendere lo
spettatore grazie a improvvise “mosse del cavallo”. Per tenere sempre alta la
tensione Verhoeven gioca di similitudine tra il dramma vissuto da Michéle e il
videogame che sta producendo, a metà tra gioco e porno, tra avventura e
orgasmo. Quel che chiede ai suoi ragazzi è
quello che pretende dal suo corpo. Più eccitazione, più fantasia visiva,
più raffinatezza nella illustrazione del piacere. “Tu sei troppo letteraria”,
le rimprovera l’enfant prodige del gruppo. Non capisci niente del gioco agonistico.
Lei gli fa capire come nel video gioco anche la violenza non deve essere
meccanica. E lo spinge a fare di più, molto di più. Infatti saranno loro due, lui e lei, a
produrre gli orgasmi, live e
digitali, animati o flagranti, più esplosivi e multipli. Nella storia dell’industria
digitale e in quella di Michéle.
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