Mariuccia
Ciotta
Vestita
di rosa e rosso Chanel, decorativa first lady resuscitata da Pablo
Larrain in un falso reportage in bianco e nero, Jackie,
proveniente dalla Mostra di Venezia (esce giovedì 23
febbraio) irretisce lo sguardo nella superba performance di Natalie
Portman.
Jacqueline
apre le porte della Casa bianca alla Cbs e al regista cileno di Post
Mortem che la declina in leziosa, elegante donnina e poi in
un'implacabile vedova capace di allestire funerali spettacolari in
mondovisione.
Lo
stesso trattamento cinico Larrain l'ha riservato al poeta Neruda
(2016) presentato alla Quinzaine di Cannes, e anch'esso acclamato
da gran parte della critica. A questo proposito cito Goffredo Fofi,
che così conclude la sua recensione (benevola) su Internazionale:
“Quel che è meno accettabile è (...) la sua presunzione
autoriale, il suo scarso o nullo amore per i personaggi che sono
ridotti a pedine del suo gioco. Larrain non ha nessuna voglia di
spiegare la storia (…) e il suo scopo non sembra essere quello di
chiarire ma quello, ancora una volta, di imbrogliare”.
Esteta
innamorato dei suoi “quadri”, di un punto di colore che spicca
sull'arredamento sfumato in azzurro, Larrain ama orchestrare il set e
le pieghe delle gonne. Non ha a cuore né Jacqueline né Neruda
(chissà Allende) né John
F. Kennedy, un mito di cartapesta, viveur, tombeur de femme, l'uomo
con cui Jackie “non dorme più da tempo”, il presidente al centro
del film, nascosto dietro la donna-schermo che ne imbelletta il
ricordo fino a imbrattarlo davanti al taccuino di un giornalista
avido, come il regista, di mondanità e colore, lacrime e cronaca di
quel cervello schizzato sul cofano dell'auto per le vie di Dallas il
22 novembre 1963.
Il
cineasta cileno al suo primo film americano (prodotto da Darren
Aronofsky, regista del Cigno nero, star Natalie Portman) è
inebriato dalla contraffazione storica espressa da una così dolce
bocca, l'altra parte della coppia patinata, la più bella, la più
amata, Jacqueline, che ha la stoffa pregiata dell'alta moda, gli
abiti d'oro, di raso, di pizzo provati a ripetizione davanti allo
schermo in vista della cerimonia funebre.
Larrain
dirige su una sceneggiatura non sua che ha ricevuto diversi no da
registi Usa, e dove il presidente Kennedy per tre volte viene
definito un “cacciatore di comunisti”. L'autore è Noah
Oppenheim, giornalista e presidente di Nbc news, sceneggiatore di
diverse serie tv di successo, premiato a Venezia per Jackie,
film che arriva all'Oscar con tre candidature, attrice (Portman),
costumi (Madeline Fontaine), colonna sonora (Mica Levi).
Abbagliato
dalle scenografie del francese Jean Rabasse (Oscar, ha lavorato in
due film di Bertolucci), lo sguardo si distrae e si perde nella prova
mimetica dell'israeliana Natalie Portman, sovrapposta alla vera
Jacqueline, voce stridula compresa, e l'orecchio è inondato dalle
musiche della britannica Micachu (Mica Levi) tanto che il suono delle
immagini si eclissa in uno splendore formale, grazie anche alla
presenza di un altro francese, Stéphane Fontaine, direttore della
fotografia, e di un'altra Fontaine, Madeline, celebre per aver cucito
i vestiti di Il meraviglioso mondo di Amelie. E ci siamo
vicini con Jackie tutta superficie e bagliori nel mondo fatato
di Camelot, evocato durante l'intervista rilasciata da Jacqueline a
Theodore H. White di Life dopo quattro giorni dall'omicidio,
gli stessi raccontati nel film. In quella occasione, la first lady
dichiarò che il marito preferiva tra tutti i musical di Broadway
Camelot, regno leggendario dominato da bontà e giustizia.
“Trovata pubblicitaria” per dare idealità alla presidenza e
incoronare il frivolo marito novello re Artù? Sì, dice Larrain, che
si rispecchia in quella meravigliosa parata di principi e principesse
hollywoodiani, necessari al suo cinema sfavillante dell'apparenza.
Il
regista nell'affondare l'America anni Sessanta ama il suo duetto
divistico, Jackie e John, sostenuto dalla sceneggiatura premiata
alla Mostra di Venezia, che osa il dialogo tra Jacqueline e Robert
Kennedy (ucciso cinque anni dopo), il quale confessa, di fronte al
carrozzone delle esequie imminenti, che il fratello presidente in
realtà non avrebbe agito a favore dei diritti civili (in quegli anni
si afferma il movimento per i diritti civili degli afroamericani) e
contro la guerra in Vietnam. Quando, parola del vero Robert McNamara,
segretario della Difesa, JFK la guerra cercò di frenarla. Il
“merito” di combattere i vietcong se lo prenderà tutto Lyndon
Johnson, lamenta il Bob di Larrain, che infierisce: l'unico pasticcio
risolto l'avrebbe combinato proprio lui, John. Quale? L'assalto
alla Baia dei Porci, ovvero il tentativo di invadere Cuba da parte di
forze anti-castriste con il sopporto della Cia durante
l'amministrazione Eisenhower. Come si sa, John F. Kennedy appena
arrivato alla presidenza si rifiutò di appoggiare l'invasione
dell'isola. E per questo, probabilmente, fu ucciso. “La soluzione
del pasticcio” di cui parla il Bob di Jackie è il “no”
di JFK ai bombardamenti delle navi russe durante la crisi dei missili
di Cuba, atto che impedì lo scoppio della terza guerra mondiale.
Ma
non staremo a badare a queste parole al margine della scena
visivamente lussuosa e vertiginosa tra le pareti dello studio ovale,
lungo prospettive alterate, quasi un 3D dentro spazi oscillanti tra
pop e suggestioni pittoriche. Una scena riempita dalla sofferente
Jacqueline Kennedy in tailleur color confetto, ignara dell'uccisione
di Lee Harvey Oswald che definirà distrattamente un “comunistello”,
ammazzato prima di confessare, dice lei, a causa di“questi
servizi segreti così inefficienti”. Più che “inefficienti”, i
servizi furono i probabili mandanti dell'assassinio di Oswald, ucciso
per impedirgli di parlare da Jack Ruby nella Centrale di polizia di
Dallas.
La
memoria sfuma nel film che prende a pretesto un'epoca per travestirla
di niente e altera perfino il celebre filmino di Zapruder,
ricostruito dal regista con angolazioni diverse, in ossequio alla
Commissione Warren (“una sola pallottola, un solo killer”). E
così in controluce passa alla storia la versione di Pablo Larrain
dell'America kennedyana, e anche l'aberrazione di un fotografia
iconica, quella di Jacqueline Kennedy con il completino rosa
macchiato di sangue sovrapposta all'immagine televisiva in bianco e
nero. Ci vorrebbe qui un commento di Serge Daney.
Non
è un film su John, ma su Jacqueline? Sull'elaborazione del lutto?
Già, per dare sostanza al marito vanesio, Jackie lo imbottisce di
Lincoln, non prima, però, ignorantella, di aver letto qualche libro
sul presidente che abolì la schiavitù. Jacqueline, come si sa, era
stata giornalista, era laureata, veniva dall'alta borghesia, ma
secondo il film non sapeva bene chi fosse quel Lincoln che
troneggiava nella sua camera da letto su un leggio. E neppure chi
fosse John. Il presidente democratico che aveva ricucito il filo
spezzato dell'America di Franklin D. Roosevelt, quello che aveva dato
una speranza alla generazione uscita dal maccartismo e dalla “caccia
ai rossi”.
La
stucchevole Jackie avvolta nella carta stagnola fa piangere per un
presidente che, secondo Larrain, era solo immagine? Commuove di più
la Jackie di Andy Warhol che catturò il suo viso prima con le labbra
rosse e gli occhi bistrati, poi sotto il velo nero, senza orpelli,
così com'era, ombra sfocata di fronte a una bara.
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