Mariuccia Ciotta
Candidato all'Oscar come
miglior film straniero, premiato per la sceneggiatura e per l'attore
protagonista a Cannes e apprezzato da una parte consistente della
critica, The Salesman (Il cliente) dell'iraniano Asghar
Farhadi, storia di una coppia di attori nell'Iran contemporaneo in
forma di thriller psicofamiliare, affolla in questi giorni le sale
d'essai.
Farhadi, beniamino dei
festival, si presenta agli occhi del pubblico occidentale come un
riformatore dell'immaginario islamico sciita, voce avvolgente di una
enigmatica sirena, l'Iran con le sue coordinate mentali estranee ed
esotiche.
Il 26 febbraio, però,
Hollywood non vedrà (forse) salire sul palco il regista, in caso di
vittoria, perché secondo il decreto presidenziale (bocciato, per
ora) l'Iran è tra i magnifici sette nemici degli Usa. L'Oscar,
comunque, l'aveva già conquistato con Una separazione (2011),
vincitore inoltre di Golden Globe, Orso d'oro, César, David di
Donatello. Importante “prologo” al Cliente, il film
pluripremiato girava intorno a una scena mancante, la caduta di una
donna incinta giù per le scale e conseguenze sul disequilibrio di
una coppia che sta per separarsi. Lei, ribelle, capelli rossi, vuole
fuggire dal “Paese senza speranza”, lui no. Il feto (si dà per
acquisito) è una persona, morta. Chi ha spinto la donna? Farhadi ci
dirà che è impossibile lasciare quell'omicidio (abbandonare
l'Iran?) impunito.
Il copione si ripete nel
Cliente, girato a Teheran, ma non dal taxi in cui è relegato il
regista dissidente Jafar Panahi, Orso d'oro anche lui con Taxi,
Teheran (2015). Farhadi omette ancora una volta il “fatto”
intorno al quale organizza un teorema emotivo, una ragnatela
suggestiva che indirizza verso una realtà ricostruita dal suo
grandangolo mentale. Come preliminare, crea innanzitutto le
condizioni per rendere accettabile il suo mondo di riferimento,
valori, divieti, comandamenti.
Qui il gioco si appoggia a
Morte di un commesso viaggiatore
messo in scena dai protagonisti, Emad (Jhahab Hosseini) e Raana
(Taraneh Alidoost) moglie e marito, attori di teatro. Il testo di
Arthur Miller, disfacimento morale dell'America e del suo “sogno”
materialista, fa da contrappunto a quello scritto Farhadi sul
trionfo di un'etica a centralità religioso-familiare. Ringrazio
Dio. La scritta apre il film, secondo i dettami dell'imam, e fa
da monito a quel che segue, fluide e calde immagini quotidiane, una
coppia deve traslocare, la casa ramificata dalle crepe ha ceduto, e
finisce in un appartamento occupato prima da una prostituta, su
cattivo consiglio dell'amico attore Babak (Babak Karimi).
Ed ecco il gioco a
incastri, e la verità fuori campo. Raana sta per fare la doccia,
sente il citofono e apre credendo che sia suo marito. La ritroveranno
nel bagno con la testa spaccata, sangue dappertutto, rischio di
morte, ricovero in ospedale e sostituzione del velo con fasciatura
bianca. E' stata aggredita e violentata da qualcuno convinto di
trovare in casa l'ex inquilina prostituta.
Lo spettatore non ha
visto, ma nemmeno la vittima, priva di sensi. Intorno a questo buco
di immagine, si avvia il “processo” di Farhadi. Chi è il vero
colpevole? La donna che ha aperto distrattamente la porta, troppo
occupata in faccende “diaboliche” di ordine cosmetico, l'uomo
che l'ha violentata o il marito vendicativo?
Il thriller ha inizio con
il pedinamento del “fantasma”, il “cliente” che ha lasciato
un fascio di banconote per la prestazione sessuale involontaria
(perché poi?), calzini insanguinati e un furgone parcheggiato in
garage. Il marito Emad indaga sull'autore del crimine, dopo aver
escluso, d'accordo con l'intimorita moglie Rana (Taraneh Alidoosti),
di denunciare il fatto alla polizia. Gli consigliano di lasciar
perdere. Il disonore ricadrebbe sulla famiglia. Già i vicini
insinuano, e l'ospedale tace... Emad insiste, cerca giustizia fuori
dalle coordinate khomeiniste, segue le tracce dello sconosciuto in un
percorso “hitchcockiano” e alla fine lo trova e lo sequestra.
Ed ecco come la “Farhadi
version”, con tono sommesso, fa convergere le simpatie sul
colpevole che non abbiamo mai visto agire. Lo stupratore, potenziale
omicida, non è il macho sospettato in un primo momento. E' qualcuno
degno di misericordia, innominabile anche per il recensore che non
vuole svelare il “giallo”. Emad sarà forzato (dal regista) a
riprovevoli crudeltà sul vecchio metaforico Iran dal cuore barbuto e
malato, così da negarsi ogni possibile empatia. In un capovolgimento
di senso abietto, l'iraniano sprofondato nella sua insolenza
dottrinale a rappresentare la tradizione, non sarebbe l'impunito
violentatore, ma, secondo Farhadi, il “giustiziere della notte”
Emad, mentre chiaramente è l'altro.
Ci sono principi che
Farhadi difende. L'uomo che ha ceduto alla tentazione di prendersi
l'oggetto del desiderio va assolto, e non per pietà, ma per diritto.
Il regista lo fa intendere
con le sue pastose immagini “sacre” che dipingono Raana - sul
volto l'ombra della colpa - mentre minaccia il marito “spietato”:
se non lascerà subito libero il suo aggressore “sarà tutto finito
tra noi”.
Nel lungo epilogo, Farhadi
richiama il dramma di Miller, e la pièce dal palcoscenico si sposta
nell'appartamento vuoto della casa che abbiamo visto cadere in
rovina, la casa delle origini, la casa “pura” dove è meglio
tornare. Contro la modernizzazione devastante, e il “trasloco
simbolico” fuori dai confini del paese. Morte di un commesso
viaggiatore, inoltre, è
di segno opposto, lì c'è la crisi esistenziale senza happy end, qui
la vittoria della “carità islamica” di fronte a moglie e figlia
supplicanti per il “padre di famiglia”. Una famiglia iraniana
spiritualmente corretta, non come la coppia di intellettuali senza
figli.
Emad, “è un uomo
evoluto, insegnante e attore, ma ha una reazione tradizionale...
hanno oltraggiato la sua casa”, spiega il regista. La “reazione
tradizione” sarebbe la richiesta di giustizia , ed è la casa e non
la persona a essere oltraggiata.
Com'è bravo Farhadi a
difendere l'ordinamento etico-estetico-giudiziario del suo Paese. E
a dire che nel film nessuno vuole vendetta, ammazzare il “cliente”
né mandarlo in prigione, ma soltanto “farlo vergognare” di
fronte al mondo.
Dentro la cornice del film
da Oscar, la donna umiliata "non si vede" e il patriarca
indisturbato aguzzino "non è visto".
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