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domenica 26 febbraio 2017

Notte degli Oscar. Fuocoammare ha già vinto, anche senza statuetta




Roberto Silvestri 


L'allora primo ministro Matteo Renzi lo distribuì in blue-ray ai 27 colleghi d'Europa. Meryl Streep ne ha fatto una promozione formidabile. I critici londinesi lo hanno premiato come miglior documentario dell'anno. Così l'Europa. 
Anche se perde questa notte non si può dire che Fuocoammare, questo piccolo film di 114 minuti a colori, già insignito dell'Orso d'oro 2016, non abbia comunque già vinto la sua scommessa, e conquistato artisti, colleghi, critici, politici e grande pubblico. Infatti è uscito dappertutto, proprio come succede alle opere (qui nascoste) di Michelangelo Frammartino e a pochi altri cineasti italiani: in 23 nazioni, Giapppone e Hong Kong compresi. Per ora.
Ma cosa ha di speciale? Possibile che sia solo stato merito del buon uso di una videocamera, la ARRI Amira, che permette di catturare tutte le sfumature del buio, perfino senza il lume di candela usato da Kubrick per restituire il 700 senza elettricità di Barry Lyndon
Sarà perché, dopo lo spettro di Fellini evocato da Sorrentino, il mondo è stato riconquistato dalla "classicità-neorealista delle immagini belle, misteriose e commuoventi" di Gianfranco Rosi, come scrive The Guardian? O è per quello che ha scritto Hollywood reporter: "dove il giornalista sparisce, ecco che arriva Fuoammare".... Perché il cinema dimostra di avere occhi che penetrano perfino dentro i corpi, le rocce, i suoni, le acque e l'invisibile indicibile?

In pieno Mediterraneo, a un passo dalla Tunisia, nelle terre lontane e nei mari che solcò Ulisse, l’isola di Lampedusa, 200 chilometri a sud della Sicilia, 6000 abitanti, è l’avamposto della cattiva e della buona coscienza europea. 
In 14 anni quel mare è diventato il cimitero assurdo per 24 mila cittadini sprovvisti di visto. Centinaia di migliaia le persone accolte. 400 mila negli ultimi 20 anni. I pescatori pescano come da secoli, in barca o, in apnea, e staccano ricci dalle rocce. 
Un dottore (Pietro Bartolo) non si abitua all’orrore. Dentro e fuori il suo studio medico. Tra i superstiti, divisi in classi, i più poveri arrivano ustionati e soffocati. Gli schiavisti di una volta rispettavano di più la merce. 

Le donne del luogo spiegano il senso delle canzoni popolari, che una radio trasmette, con dedica. La marina militare si ferma a 20 miglia dalle coste libiche… Il corridoio umanitario è proibito dall’Europa. Esistono anche i crimini di pace. Non ci si può esimere dal darne testimonianza filmata, per quanto insostenibili siano certe immagini. E' l'alta lezione morale lezione recentemente traghettata da Ciprì e Maresco.
Il malessere di un dodicenne dal nome biblico, Samuele (Samuele Pucillo), è come la metafora di tutto questo. Non respira bene, ha paura del mare, ha un’occhio pigro, odia l’inglese e ama appassionatamente solo la fionda e il desiderio di vedere meglio e diventare maturo. Lo farà anche l’Europa? Che, come lui, gioca intanto alla guerra. Samuele nel frattempo cresce e diventa amico intimo degli uccellini nei boschi…Capispo trasformava tutti gli uomini che le si avvicinavano in porci e bestie feroci. Non si sa mai.


Il poster tedesco del film
Il “cinema del reale”, molto storpiato e strattonato rigeometrizzato perché non diventi un'ideologia estetizzante (e ciò irrita solo i fondamentalisti della critica), rovescia la formula del cinema commerciale (rubandogli però tutti i pregi): utilizza il procedimento documentaristico - rigorosamente senza voce fuori campo a spiegare e addomesticare ciò che si vede - che permette una conoscenza approfondita e microscopica di un territorio.  Suscita così una narrativa emozionale densa e non convenzionale, una drammaturgia raddoppiata dall'intevento attivo, anzi disputante, dello spettatore. E scodella sullo schermo (il cinema non è stilizzazione radicale di tipo teatrale) personaggi della vita di tutti i giorni, con effetti strepitosi di naturalezza. Edoardo Bruno direbbe che "abbatte la prigione della realtà, il cinema del reale, allargando i confini del reale sino al margine bianco dei sogni". Quattro fonici catturano ogni sussurro di quegli spazi e Jacopo Quadri al montaggio crea l'effetto visuale heavy metal, una potenza crescente implaccabile e implacabile.
Il lieto fine è catturare il sapore autentico di un luogo (il procedimento che adotta Jim Jarmush in Paterson, parodia del cinema-film-commission) . Non riprende la grafica dell’eroe che supera prove di fuoco quasi insuperabili e indifferenti al set, via via sfruttato, per arrivare all’happy end. 

Esperto in geografia emozionale e tra i migliori esponenti di questo genere, Gianfranco Rosi dopo l’India, Ciudad de Juarez, il deserto californiano, il raccordo anulare di Roma (che gli è valso un Leone d’oro) ha girato a Lampedusa un anno intero. L'idea questa volta non era stata sua ma, di Carla Cattani, la funzionaria che smista con perizia i nostri film in tutti i festival del mondo, e da anni. Ma di tempo in tempo un film popolare su commissione (coproduzione Rai Cinema, Arte, Cinecittà: Del Brocco e Palermo, ma anche i francesi, Oliver Pére, Martin Saada) si può trasformare in una miracolosa visione da "commissario del popolo" (la mitica figura di tutela e controllo dal basso del Soviet Supremo, cancellato da Stain e trasformato in spionaggio del basso). Non sarà un caso se i grandi cineasti italiani, da Alessandrini a Fenech, da Cardinale a Rosi (nato ad Asmara, Eritrea) siano  nati fuori dallo stivale? 
Ed è nel centro d’accoglienza provvisorio  che il film trova il suo punctum, quando cattura un indimenticabile oratorio nigeriano per voce solista inglese e coro yoruba che riassume, in pochi minuti, la tragedia del mondo.  

ps. il titolo si riferisce non solo a una vecchia canzone siciliana, che il dj di una radio pirata trasmette e che raccontava i bombardamenti alleati del 1943 contro il porto di Lampedusa, e le fiamme che lampeggiavano nel buio: Che fuoco a mare che c’è stasera. Ma ovviamente anche ai pescatori che raccontano il pericolo del mare e ai migranti. 


lunedì 30 settembre 2013

La "profezia" fantastica di Italo Calvino. Una rassegna di film a Roma. Al cinema Trevi (1-5 ottobre)

Italo Calvino è morto improvvisamente il 20 settembre 1985, nello stesso giorno del terribile terremoto in Messico, proprio lui che era nato - da sanremese emigrante - lì vicino, a Cuba, mamma botanica e papà agronomo. Inoltre stava proprio per recarsi in Messico per sposarsi. Ma la cattolica Mexico City non avrebbe mai concesso l'ok alle nozze con una donna divorziata e dunque si era diretto verso la l'isola atlantica dell'amico Che Guevara...
Nel trentesimo anniversario della sua scomparsa ci saranno certo, da ora in poi, molte iniziative e manifestazioni per celebrarlo. In Italia e nel mondo (è stata dopo Dante Alighieri il più tradotto dei nostri narratori). Ma quest'anno, nel novantesimo della nascita, non sembra che la prassi intellettuale di Calvino sia molto ricordata. Anche se, recentemente, in due preziosi volumi, Vito Santoro, e prima ancora, nel 1990, Lorenzo Pellizzari si sono accostati a Calvino in maniera differente, partendo dal cinema per arrivare alla letteratura e alla saggistica e svelare il mistero di una scrittura unica, contaminata e multimediale ante litteram. 

Calvino sarà infatti ricordato prima di tutto come grande scrittore, di fiction e di non fiction, svezzato da Cesare Pavese e Elio Vittorini e traghettato nel pieno del boom economico, in una modernità a parte, al di là del Gruppo 63 e al di qua del neo-populismo pasoliniano, perché capace di arcaismi ancora più arditi. E non chiamatelo mai scrittore di favole. Ma anche. Come partigiano comunista che rischia non poche volte la pelle. Come manager dell'editoria, per i lunghi anni passati all'Einaudi, protagonista di una stagione aurea della nostra industria culturale prima che Mondadori la risucchiasse con metodi pare gangsteristici. Come giornalista, celebre per i suoi viaggi 'esotici' raccontati su Repubblica, diretta dal suo ex compagno di banco Eugenio Scalfari (meno partigiano di lui). Come profeta di una urbanistica a venire, ancora invisibile, indocile alle città invivibili che la speculazione edilizia democristiana ci impose, eppure ancora capace di trovare nello squallore più totale quell'angolo di delizie, perfino a Detroit o a Scampia. Come 'cantautore popolare' di lotta (fu tra gli animatori del movimento di risarcimento musical-popolare Cantacronache) e reinventore di Mozart. Come ex intellettuale impegnato nel Pci e ancor più impegnato quando lo lasciò (aveva cercato perfino di far iscrivere al partito dell' 'antitesi operaia' l'indocile Fruttero...), sempre capace di maneggiare le affilate armi della critica anche quando si considerava molto più dirompente e perfino più violenta e sanguinaria - e non era vero - la critica delle armi. Come fonte di ispirazione per architetti, pittori, scultori, fotografi, botanici, cartoonist...

Ma anche come spettatore di cinema, fanatico della Hollywood anni trenta e quaranta, cineclubista, critico e cineasta, a suo agio sia nel documentario che nella finzione, purché mai noiosi e drastici (Straub fece Pavese senza la sua autorizzazione), che esordì come penna del Cinema nuovo aristarchiano, come cronista dell'Unità di Torino (al fianco di Novelli e Crispino) spedito tra le mondine del vercellese set di Riso amaro di Beppe De Santis, di imprinting e cultura neorealista, proprio come neorealista fu il suo primo romanzo, una eredità in fondo in fondo mai veramente tradita. Il cinema fa molto bene alla letteratura. E viceversa. E forse con il passpartout del cinema neorealista anche certi segreti della sua scrittura saranno svelati.... 

Sia perché proprio a causa di quel 'neo' ogni, anche la più spericolate, variazioni di senso (e - Mario Mattoli aggiungerebbe - e di pesante ironia) è permessa, sia perché, come ricordava Roberto Rossellini, nessuno è riuscito ancora bene a definire a parole cosa fu il neorealismo, al di là di un desiderio collettivo di cambiamento sociale radicale, di uno stile di vita etico, della scoperta dello 'sguardo individuale', mai più embedded, in sintonia con il noir-realismo nordamericano di Chandler e Cain.

Per un momento, dal 1945 al 1948, il cinema italiano diventa essenziale, aspro, crudele, libero, aperto, horror, criminale, etico, senza orpelli né trombonate,  e mai moralista, il numero uno, proprio come il cinema hollywoodiano d'era rooseveltiana, anzi l'unico cinema dotato di 'grande struttura', che inventa un mondo, che apre ad altre 'dimensioni del mondo'. Poi sarà bene non avere più nulla a che vedere con Cinecittà impossibilitata perfino a lavare i propri panni sporchi.

Infatti poi, come scrive Lietta Tornabuoni, i suoi rapporti con il cinema italiano 'mainstream'  furono sempre piuttosto patafisici per un intellettuale 'potente' e mai drop-out come lui: 

«È uno degli scrittori che direttamente meno hanno contribuito al cinema italiano: qualche collaborazione a sceneggiature, qualche soggetto [...]. Ma è forse lo scrittore italiano che più ha anticipato nella propria opera l’immaginario, le fascinazioni, le tendenze del cinema internazionale contemporaneo: il mondo medievale rivissuto con ironia, l’universo magico ripetitivo e fatale della fiaba, le cosmogonie fantastico-scientifiche, le città del sogno tra Oriente visionario e megalopoli moderna, la narrativa come processo combinatorio di elementi preesistenti, la narrazione come forma compiuta che è possibile scomporre giocando col racconto come con gli scacchi».
Sarà stato l'internazionalismo di famiglia, l'orrore per la politica della bigotta dc di emarginazione del paese dal flusso vivo della cultura (esistenzialismo, beat generation, angry young man, be-bop,  nouvelle vague, nouveau roman, akzionismus austriaco, musica post dodecafonica...sono tutti movimenti peccaminosi), la presa di attenta distanza rispetto alle pratiche delle neoavanguardie letterarie (che pure pubblica su Einaudi) che stanno perdendo il gusto antico dell'intreccio narrativo, per sostituirlo con procedimenti formali urlati e complicati come gli assolo del free jazz, salvo poi ritrovarlo, recuperare la melodia, con il distacco e l'ironia snodabile del postmoderno (Umberto Eco lo teorizza adesso: il gruppo 63 si preparava già a In nome della rosa...). Gusto dell'intreccio e della melodia che invece Calvino (incapace di marciare a tempo) non perdette mai, salvo applicarlo a percorsi narrativi bastardi e multipli, complicarlo raccordandolo alle altre arti e alle scienze mutanti, ben al di là del romanzo, verso una prefigurazione sinestetica e transartistica del cinema e del digitale futuro...Ma fino al primo governo di centro sinistra, e ai socialisti al potere, fino al 1960 Calvino si tiene bene alla larga dalla commedia rosa e dai sub-generi provinciali dominanti, concedendosi poi a ben pochi registi 'a parte': Zac, Monicelli, Quilici, Bennati, Maselli, Di Carlo, Manfredi, Vanzi...
  
Narratore, saggista, critico, teorico, cosmonauta dell’immaginario, soggettista e sceneggiatore,
documentarista, intellettuale impegnato nella battaglia delle idee e “giocatore” negli apparati
culturali, punto di riferimento vitale per i cineasti del XXI secolo, gli esploratori della “verità nella
vita globalizzata”, tre anni dopo Bologna e l'omaggio che gli fece la Cineteca (e Fofi), dimenticandosi però i due film di Carlo Di Carlo (bolognese), Italo Calvino sarà al centro di una retropettiva cinematografica all'interno di una mostra in progress (In viaggio con Calvino) iniziata a Roma nel giugno scorso (all'Acquario).

Al cinema Trevi, dall'1 al 5 ottobre, verranno perciò scodellati, nel novantesimo anniversario della nascita, una ventina di film a soggetto “calviniani”, cartoon, corti, opere neo-post-realiste, e anche doc, doc industriali, o storici o geografici, pellicole ispirate ai suoi scritti, comprese alcune, come L'uomo fiammifero o Domani accadrà,  che hanno con Calvino un rapporto di scambio a distanza, diretto o obliquo. È il Calvino già polemista, che è in attesa del Sacro Gra che, parola di Gianfranco Rosi, proprio alle Città invisibili è ispirato. La rassegna è organizzata dall'IXCO (Istituto Italiano per la Cooperazione o.n.g.), dalla Casa dell’Architettura, dalla Cineteca Nazionale e dall'Archivio Nazionale Cinema d’Impresa. Non ci saranno purtroppo alcune perle calviniste: il lungometraggio  Palookaville di Alan Taylor (Usa, 1995) liberamente ispirato a Calvino tutto e in particolare al racconto breve "Furto in pasticceria" da Ultimo viene il corvo (da cui è tratta anche l'idea centrale di I soliti ignoti), L'avventura di un fotografo mediometraggio di Citto Maselli (1983) e Ti-koyo e il suo pescecane di Folco Quilici (1962) ispirato al romanzo di Clement Richter, e sceneggiato da Calvino, per problemi di reperimento o stato di conservazione delle copie.

La reperibilità you tube di  L'Italia vista dal cielo, e in particolare la nona puntata sulla Liguria (una ricognizione - molto poco lineare, in elicottero che è antropologica, geologica, storica, botanica, sociale e archeologica nello stesso tempo - della nostra regione morfologicamente più strana) di Folco Quilici, testo di Italo Calvino, del 1973, permetterà a chiunque, poi, a casa, di costruirsi una sua rassegna calvinista, perché negli ultimi anni sempre più cortisti, da tutto il mondo, hanno affrontato e diffuso in rete i testi del nostro scrittore, quelli più 'combinatori' e di scatenata reversibilità temporale, che hanno avuto una influenza postuma straordinaria e planetaria anche nel cinema fantascientifico ad alto budget e ipertecnologico (da Matrix ai fratelli Wachowsky, da Lynch a Cronenberg, da Niccol a Gilliam, da Ferrara a Greenaway). Basta ricordarne alcuni: Nancy King (Usa, 2006) con Solidarity, Yu-Hsiu Camille Chen con Conscience (Australia, 2010); Kevin Ruelle, con The false grandmother (Usa); Calvino e Dani con Zobeide (Usa, 2010), Ana Luisa Liguori con Amores Dificiles (Messico, 1983), Philippe Danzelot con L'aventure d'une baigneuse (Franca, 1991), Stelios Rogakos con Efprosopo katafygio (Grecia, 1990), Ergin Cavusoglu con Voyage of no return (Turchia) e Gabriel Bitar con  A Citade e o desejo (Brasile).... 


Oggi, a quasi 30 anni dalla morte dello scrittore più cinematografico e magico-fantastico del 900 una animatrice israeliana, Shulamit Seraty, non può esimersi dal trovare The distance from the moon, tratto da Le Cosmicomiche,  una perfetta metafora per raccontare Israele oggi, ipotizzando un pioneristico esodo, single magari, che tuttora attrae chi vuole cercare una terra (o una luna) promessa, senza dover per questo cacciare di casa chi vi abita. Il viaggio senza meta, quello nel quale il paesaggio mangia divora e annulla il viaggiatore, che non sarà più quello che era, che mette in moto un processo di mutazione irreversibile, insomma il road movie, è già, e prima del Sorpasso di Risi, nel dna di Calvino.

Lo sanno bene i documentaristi, Roberto Giannarelli e Damian Pettigrew, che stanno appassionandosi sempre più alla sua geografia on the road, e oltre, mentale e biologica, libera e etica, che scavalca i confini del pianeta e si fa stellare, preistorica, addirittura precellulare. 

Una geografia che parte da Cuba - un giardino che il Wwf oltre che l’Unesco, dovrebbe tutelare - con i suoi antenati ‘acquisiti’.  E poi va su e giù nell’America, non solo latina, con il suo cristianesimo ‘altro’, un pensiero unico che si vivifica di rivolta, rabbia, urla, occupy, anonymus (lo capiremo rivedendo il dimenticato e attualissimo America paese di dio). E in Giappone, paese che più riclicla parte della sua immensa tradizione culturale come missile spirituale di immensa potenza per disegnare un futuro non sciovinista (Miyazaki, per dire un nome)…

E torna indietro nel tempo, fin nella preistoria stellare e pre stellare, riletta in chiave scientifico-evoluzionista, quasi fosse già un gioco di neuroni-specchio a tracciare le peripezie del cambiamento, della metamorfosi, da atomo a pesce da dinosauro a scimmia a umano, con un Darwin che è contemporaneamente osservatore del soggetto indocile e ribelle, feroce e unico, però incapace di salto, di imporsi come il più forte, senza aggregare forze collettive che acquistano potenza solo nella reciproca assistenza. L'evoluzionismo non premia affatto il piu' forte single spietato, ma il general intellect della solidarietà....

Siamo sulle soglie di un liberalismo altro, ancora da inventare, e lo scienziato anarchico  Kropotkin, hobo libertario in Siberia, l'amico di Lenin, sarebbe qui molto utile da riutilizzare. E’ la sopravvivenza, bellezza. Al Centro Sperimentale di Roma da anni si studia la ‘parte visuale della fantasia’, estetica, non estetizzante. Nel senso più scientifico del termine. Quando si attivizzano tutti i sensi conosciuti e anche la sensuale sensibilità ‘ai confini della realtà’. E si cerca di portare a compimento un copione plausibile - non descrivere il pantano in cui viviamo, ma viaggiare per uscirne - tratto dal Barone Rampante. E’ un vecchio pallino di Giorgio Arlorio, l’insegnante di sceneggiatura…

Che probabilmente parte dal più agghiacciante shock visuale ispirato a Calvino, quel Visconte dimezzato (scritto nel 1952) messo in scena live nel 1964 da Gunter Brus, uno degli artisti, performer e cineasti austriaci più radicali dell'azionismo sessantottino, che trasformatosi in statua vivente gessosa, materica e spaccata in due da una riga dipinta di scuro, se ne andava per le strade di Vienna a rischio dell'arresto per offrirsi come capro espiatorio, quasi come un Pasolini sacrificale, incorporando dentro di se' la devastante zuffa di classe limitrofa, che stava pericolosamente slittando verso la fase armata della guerra civile. Che in Austria non sfociò mai nel terrorismo forse grazie anche a quella stirpe di artisti masochisti come Günter Brus che insieme a Otto Mühl, Hermann Nitsch e Rudolf Schwarzkogler, sfiorando la morte, seppero dire un grande sì alla vita. Calvino interpretato proprio alla perfezione come sacro rito, esorcismo politicamente corretto, profeta fantastico.       

Gianfranco Rosi, Leone d'oro con Il Sacro Gra ispirato alle Città invisibili di Calvino
Segnali di attualità della sua ‘patafisica’ e 'patalogica' visione delle immagini, indocili agli standard e contemporaneamente alla ricezione schermica subumana o sovrumana di tanti autori amati dalle nicchie o dal popolo, da Straub a Pasolini (di cui Calvino detestava Il vangelo secondo Matteo, trovandolo dilettantesco) fino al virtuosismo postmoderno di Lynch e von Trier, perché non basta smitizzare il mito del cinema. 

Lo spettatore medio ha un che di estremista quando esige semplicemente da un film l’estasi del piacere (Niccol, Gilliam, Ferrara, Cronenberg, i fratelli Wachowski…)…Eppure sono così pochi i film tratti dalle sue opere. Monicelli, Pino Zac, Alan Taylor, Carlo di Carlo, Citto Maselli, Giuseppe Bennati, Nino Manfredi, Daniele Luchetti, e in maniera solo lontanamente apologetica, il Gianni Romoli di Fantaghirò e il Folco Quilici di Tikoyo e il suo pescecane Ma, come ricorda Vito Santoro nel suo prezioso studio “Calvino e il cinema” furono soprattutto i racconti degli anni 50, quelli del periodo realista ad attirare l’attenzione. Oggi invece, senza neppure pensarci, sono più ‘calvinisti’ Michelangelo Frammartino, l’argentino Lisandro Alonso, l’americana Kelly Reichardt, il thailandese Apichatpong Weerasethakul e i registi dell’avventura senza bussola, del walking cinema, ma dell’antitesi, del ‘vagare alla cieca della storia d’amore’, della deambulazione labirintica da un punto all'altro, ma ad alto quoziente soggettivo. 

Zero in condotta nella ‘scuola dello sguardo’, perché l’obiettivo è riappropriarsi, altrimenti, al di là dell’occhio-mio-dio, dei significati storico-sociali dell’agire nel mondo. E’ critica pratica dell’economia politica del cinema. Fu non a caso insignificante per Calvino la seduzione esercitata da Cinecittà e da quel ‘cinema italiano semi artigianale più che poco industriale’ che stava sprofondando nell’abisso. E che lo aveva tenuto stranamente ai margini del ‘grande affare’. 

Calvino fu tra i pochi scrittori di successo internazionale estranei alle affollate botteghe dei costruttori di ‘commedie al vetriolo’ atte a massacrare i riti e i miti del boom, ‘crescita + disoccupazione in crescita’, avrebbe detto Mario Tronti.  Intimo, interno a tutte le discussioni e polemiche collegate al dibattito sul neorealismo e su come uscirne, visto che di palazzi crollati per i bombardamenti ormai non v’era più traccia, come critico prima di Cinema Nuovo poi dell’Unità è tra i primi a compiere un detour scandaloso. 

Che in Italia stesse cambiando la società, il costume, l’ambiente, l’uomo, il Calvino neorealista del ‘Sentiero dei nidi di ragno’ del 1947, se ne accorge, con crudeltà e sensibilità Qfwfq. Si esaurisce il linguaggio diretto, sostituito “da quell’amabile divertimento dell’intelligenza, che è l’ironia del dimezzamento, della sospensione, e della sottrazione del mondo” (Asor Rosa). “Noi guardiamo il mondo precipitando dalla tromba delle scale” aveva sintetizzato Calvino il saggista, attratto dalla “verità industriale”, cioè la verità della moderna società capitalistica”.  

Cinefilo appassionato, fu testimone del grande rinascimento etico dei nostri cineasti post fascisti, e poi fautore di un approccio al cinema come pensiero e macchina della ‘verità della vita’, piuttosto che come ‘realtà della vita’, usando una terminologia presa in prestito da Franco Fortini. E dunque schierato con chi utilizzava il laboratorio da scienziato pazzo per radiografare l’alienazione neocapitalistica, in una Italia ormai industrial-contadina (si vedano le interviste operaie di Marcovaldo, che è un apologo sullo scontro incontro tra campgna e città) che avrebbe però perso, con il crollo sospetto della Olivetti, la sua spinta propulsiva. Alcuni rottamarono il linguaggio, anticipando il ‘salto operaio della scocca’ e buttando all’aria tutto (grammatica, sintassi, istituzioni, parentele), tra risate e scherno. Fu la neoavanguardia del Gruppo 63. Altri scelsero il linguaggio cifrato e misterioso, ma non ermetico, solo transculturale. Più Raymond Queneau che Eugenio Montale.  Ed eccolo così al fianco di Orson Welles, di Antonioni, a volte, e di Fellini, quasi sempre.

martedì 10 settembre 2013

Non ha vinto il cinema italiano. Il regista Nino Bizzarri sul Leone d'oro a Gianfranco Rosi

di Nino Bizzarri
Fa molto piacere anche a me il Leone d’oro vinto da Sacro Gra. Conosco da tempo il cinema di Gianfranco Rosi e chi mi conosce sa che lo ammiro. Below Sea Level, girato in California, è un film mirabile, e immagino che sia di gran livello anche Il Sacro Gra. Ma fa un po’ specie assistere alla cerimonia di appropriazione che i giornali hanno allestito in questi giorni. Si tratta di appropriazione indebita. Questo battere la grancassa e gridare al <Leone d’oro italiano> è totalmente gratuito. Rosi è anche italiano, ma è nato ad Asmara ed è per metà americano. Possiede la nazionalità americana, e sopratutto è interamente americana la sua formazione: si è diplomato alla New York University Film School, dove ora insegna. Questo si vede, chiarissimamente, nel suo cinema. Ad aver vinto il Leone d’oro non è il cinema italiano, da cui è lontano, ma Gianfranco Rosi. La sua visione, il suo talento, la sua storia personale, il suo senso del racconto, il suo pudore, la sua coerenza, la sua mano felice, la sua capacità di tenere fermo il pensiero lungo un percorso che si è costruito in solitario, come i grandi navigatori. Gli va reso merito per questo. E va reso merito al produttore, Marco Visalberghi. (da Facebook)

Nino Bizzarri 
Nato a Roma nel 1951 Nino Bizzarri, dopo studi di architettura, ha scritto su La Rivista del Cinematografo e Ombre rosse prima di fare l'assistente alla regia di Rossellini su Anno zero.  Ha scritto e/o diretto diversi film (mediometraggi, lungometraggi e documentari) sia per la televisione che per il cinema, tra cui: Cantar di tempi oscuri (1978), La seconda notte (1985-1986 ), esordio di Margherita Buy,  al fianco di Maurice Garrel,  Fiori di siepe (1988), Segno di fuoco (1990-1991), con Chiara Caselli e Laura Betti, girato a Lisbona, Correre contro (1996), Quando una donna non dorme (1999-2000)... Dal 1997 ha realizzato documentari prodotti dalla Rai tra cui: Rossellini sotto il vulcano, Per Yves Montand, L'anima in luce, Dov'è la fenice, Maschere, L'arte di Carolyn Carlson, Bussotti, Piccolo sole, vita e morte di Henri Crolla, Ombre lucenti, L'uomo segreto...

Nel 1996 è stato invitato al Sundance per Correre contro, scritto da Nino Bizzarri e diretto da Antonio Tibaldi, con Stefano Dionisi e Stefania Rocca, Pierfrancesco Favino e Giorgio Tirabassi.

sabato 7 settembre 2013

Sorprendente Bertolucci, il sacro Gra sconvolge il cinema italiano

Roberto Silvestri

Io credo che il film più bello, più serio, più sconvolgente, più formalmente affascinante, più circolare e più politico della Mostra di Venezia 70 sia Le terrazze di Merzak Allouache. E non premiarlo è stato un grave errore della giuria coordinata da Bernardo Bertolucci.

La composizione eurocentrica del corpo giudicante (5 europei contro 4 extraeuropei, 5 uomini e 4 donne) spiega largamente l'amnesia. Un deficit di sensibilità. Sulle terrazze oltretutto Allouache sta girando ininterrottamente film dal 1976. Le osserva fisse negli occhi da molto più tempo di quanto i due protagonisti del film di Tsai Ming Liang non ammirino il murales contandone le pietre una a una in 20 minuti circa. E quel che osserva va un po' al di là delle ossessioni private

Ma il leone d'oro a Il sacro gra di Gianfranco Rosi (preceduto negli ultimi anni da semidocumentari simili, di Laurent Cantet, Michael Moore e Pietro Marcello sul podio più alto delle manifestazioni che contano) conferma e fiancheggia giustamente  una tendenza interessante del cinema mondiale: disaggregare e confondere i confini tra fiction e non fiction, disprezzando l'autoritarismo con il quale si confezionano i film da sala con le star e le storie e gli effetti speciali,  e piazzare il nostro occhio e i nostri cuori (e spesso il feroce umorismo di big Moore) e per svariati anni sul territorio (e non facendo sveltine con personaggi e paesaggi pittoreschi come se i filmaker fossero marines)  in un no man land che racconta altre storie mai udite, in un altro modo e con non meno godimento spirituale e corporale. Tsai Ming Liang ha la stessa qualità attrattiva e tensione magnetica, buddhista e ipnotica. Solo che Gianfranco Rosi ha uno spirito internazionalista in più (e per lui Roma è California o India ma le sue strade non sono segnate in nessuna mappa, sono suggestioni invisibili) che ce lo rende simile a Apichatpong Weerasethakul e i suoi raccordi al mondo esterno sono meno criptici di qualche ritatto di politico buttato per terra e calpestato...  Questo Groning mi sembra invece più giocoliere e estetizzante, e dunque tradizionale nel procedimento 'grammaticale' e 'sintattico' che porta al più grave di tutti i crimini.

Certo, la critica, il general-intellect critico, fa scienza esatta (non a caso la Settimana della critica vince da tre anni consecutivamente il premio per la migliore opera prima, anche se questa volta per il film sbagliato, anzi proprio visualmente esibizionista, ripetitivo, reazionario e vecchio. Vedrà cose che noi critici single o double non vediamo) ma non sono i critici cinematografici a distribuire i premi nei festival (e in qualche giornale prestigioso, e non parliamo delle televisioni, è anche proibito scrivere o recensire i film ai critici, sostituiti dai Marzulli e succedanei).  Credo che i critici avrebbero apprezzato, proprio come la giuria, la recitazione 'a levare quasi tutto tranne l'anima' di Elena Cotta e a aggiungere solo l'indispensabile di Tye Sheridan, che Malick e Hillcoat hanno già ben allenato a proteggere il fulcro più prezioso dello stile americano recitativo, l'urlo (soprattutto silenzioso).

Anzi sono anni che Cannes Berlino e Venezia hanno una paura così folle di studiosi e critici di cinema, da tenerli ai margini dei festival, organizzando sezioni a parte, anzi proprio apartheid, come la Semaine o la Settimana o il Forum.  Peccato.

Gli altri film memorabili del festival sono: Il sacro Gra (giustamente premiato), Via Castellana Bandiera (giustamente premiata  la protagonista), The Zero Theorem di Terry Gilliam, Ana Arabia di Amos Gitai, The unknown known di Errol Morris (anche se l'operazione è palesemente fallimentare, non riesce a fargli dire cose che potrebbero essere usate in un processo contro di lui,  e dunque bisognerà aspettare un Rumsfeld n.2 la vendetta che Morris ci ha promesso), Night Moves di Kelly Reichardt e l'ultimo cartone animato di Hidao Miyazaki. Fuori competizione non ne parliamo. Schrader su tutti (che ovviamente infastidisce i dandy del buon senso antico, come Ippoliti e Stefano Disegni). Cuaron, Aramaki, Kim Ki duk, Reitz, McLean, Gomes, Wiseman, Costanza Quatriglio, Gibney Gia Coppola, Sion Sono, tutti i classici restaurati (con una particolare segnalazione per Il tesoro di Lester Jamie Peries (Sri Lanka), e i film sui registi di Samantha Fuller e Luca Guadagnino-Walter Fasano, Gabe Klinger su James Benning e Richard Linklater. L'esperimento Biennale college è perfettamente riuscito e due film (tunisino e malgascio) usufruiranno di aiuti finanziari per la postproduzione e la stampa delle copie. E ancora.   L'intrepido non ha poi molti più difetti di La gelosia di Garrel o di Filomena di Frears (dimostrazione che una sceneggiatura perfetta e attori fantastici, vedi l'altro film britannico, Locke, non sempre fanno grande un film e che l'esperanto della subcritica (non bisognerebbe mai mescolare sguardi critici e interessi "Industry", come si fa in occasione delle prime mondiali di Venezia: si distorcono così i significati degli appalusi e dei fischi) prende abbagli in continuazione. Metà film belli in una competizione internazionale è comunque una buona media. Quella della Berlinale. Venezia qualche anno ha (con Marco Muller) fatto di più, Cannes anche. Ma il bilancio di Venezia 70 è positivo. La sorpresa di inserire cartoon (che è il genere più documentaristico di tutti, perché documenta lo scorrere dei fogli disegnati...) e doc nella gara ci ha riportato agli anni nei quali Leni Riefensthal e Walt Disney gareggiavano e facevano amicizia al Lido, magari inquadrati da quegli operatori del Luce cha tanto sono stati rivalutati e applauditi per i loro bianchi e neri strepitosi.

Forse far premiare due film italiani dopo tanti anni è costato qualche compromesso.  In particolare il doppio riconoscimento al film greco sa un po' di contentino per l'ala cinefila-mondana della giuria che se non sente odore di Seidl-Haneke pensa che ci sia puzza di 'buonismo' in giro, che non è solo un peccato mortale estetico ormai, ma l'unico peccato mortale estetico. White shadows, questo snuff movie apolide che ci riporta all'epoca dell'uomo nero, dell'africano mostruosizzato della iconografia coloniale in questo senso è un oggettivo film chic alla moda (moda Jacopetti). 

venerdì 6 settembre 2013

Il sacro Gra e la profana Taipei. Rosi e Tsai Ming Liang

Roberto Silvestri

La conformazione del nostro cervello è simile a quella delle palme. In due film le palme sono le super star. Ma mentre a Taipei le palme vivono, a Roma, anche attorno al Gra, muoiono, vengono divorate da mostri famelici...

Jiaoyou (Cani randagi) di Tsai ming Liang
Intanto si va ai premi. Mi piacerebbe che in un modo o in un altro venisero riconosciute le qualità artistiche e civili delle opere di Rosi, Reichardt, Gitai, Miyazaki, Morris, Gilliam, Amelio, Allouache, Dante, dei loro attori e dei loro compagni creativi perché sono quelle che alla descrizione dello stato di incarognimento crescente dei rapporti personali e sociali, delle guerre 'fratello contro fratello' per rivendicare il potere sulla stessa identica terra e la legittimità radicale di possederla, rivendicano una critica delle forme mentali vigenti più coraggiosa, aprono scenari inediti di superamento dell'impasse.  Metà concorso di livello fa un buon festival. E questo ha anche operato coraggiosamente aprendo al cartoon e al doc. Adesso tocca alla giuria. 5 su quattro uomini e 4 su 5 extra europei.    Che la fiction e la non fiction abbiano ormai smesso di trattarsi da nemici, da diversi, è cosa nota. Basterebbe vedere (anche questo film in concorso) un doc al 100% come The unkwon known di Errol Morris per capire che Rumsfield che si confessa (o che continua a mentire perché questa è la migliore qualità del politico reazionario) è un attore consumato degno di insegnare all'Actor's Studio, e probabile vincitore, se ci fosse questo premio, della coppetta Volpi per il miglior attore non protagonista. Anche il cartoon di Miyazaki è un doc sulla storia dell'aviazione da guerra giapponese. Lasciando sbilanciati e perplessi tutti i fan del cartoonist della super fantasy nipponica. E tutti noi che l'ingegnere Caproni neppure sapevamo che esistesse. Eppure siamo nel genere del doc di animazione più a la page del momento. Anche se la grandezza dell'autore di Porco rosso è proprio quella anti nazionalista. In un festival che è ossessionato dalla proprietà della terra che fa identità, o se no la cattiveria più estrema scatta, da Emma Dante a James Franco, proprio dal Giappone isolano ci viene il più aperto poema sulla apolidicità della creazione, dell'invenzione, del salto in avanti scientfiico che è sempre un fatto di collaborazione e di mix senza frontiere.

Tsai Ming Liang e i suoi attori a Venezia
Sono lontani i tempi della direzione Gianluigi Rondi, dunque, quando il doc era bandito dal Lido assieme al suo compare 'short' perché in qualche modo sono formati o generi difficili da gestire, se liberi, o troppo propagandistici o di scuola per essere degni di una sfilata di prototipi festivaliera. 

Adesso, invece, per esempio, Tsai Ming Liang (che da sempre documenta la 'teoria per un cinema altro' nei tempi, nei raccordi, nelle identità dei soggetti in campo, etc...insomma è un Godard dell'estremo oriente) va interpretato, proprio come il collega svizzero-francese, come creatore di saggi-cinema, impossibili da comprendere senza il contributo del politologo e dello scienziato politica - ben stipati dentro il critico - molto esperto in storia e antropologia di Taiwan (che magari ci spieghi la scena della psicotica mangiata di cavolo dopo l'uxoricidio fallito). Vivere per morire a Taipei è consequenziale per chi a fatica riesce a far sopravvivere i propri figli facendo l'uomo sandwich e nutrendoli con i campioni gratuiti nei mall, abitando in stanze-scantinati improbabili, e sfuggendo alla morte sul fiume neanche fossimo nei paraggi di Robert Mitchum 'Hate-love' di Il terrore corre sul fiume. dopo essere stato abbandonato dalla moglie. Ma questa generazione di registi (penso anche a Pedro Costa) non si beano dell'estetica della miseria, ma trovano o creano proprio nello squallore della seconda società, il mondo degli invisibili che ormai è la facciata b di ogni paese in crescita, dal radioso avvenire economico della zona Brics, veri regni magici di oggetti e situazioni che il Pil non può comprare né concepire. Lo stupore che è stampato negli occhi dei suoi attori, e anche il restare spesso basiti e senza parole per svariate decine di minuti, fermi, incantati ipnotizzati (proprio come gli spettatori) di questi detriti umani delle periferie fatiscenti e decrepite di Taipei, sembrano infatti erede dello schock dalla vittoria di Mao del 1949, dalla loro stessa fuga con Chang Kai sheck in quell'isola strana e polinesiana (che manco cinese è) e dalle giravolte barocche della storia. Tanto che anche tutti  i rapporti interpersonali a Formosa sembrano confusi, mischiati, cruenti, in Jaoyou, Cani randagi (in concorso) che Tsai Ming Liang non ha scritto da solo (ma con Song Peng Fei e Tung Cheng-yu) come se tre film differenti entrassero nello stesso spazio emozionale e facessero la lotta per sopraffare gli altri e impedire una cronologia ordinata degli avvenimenti. Senza una guida per la comprensione del film, un libretto che necessariamente dovrebbe accompagnare la visione nelle sale (come succede nei dvd) no, non si capisce davvero un accidenti. Chi sono quei politici ritratti con tanto di cornice che il protagonista a un tratto calpesta? Cos'è quel murales pieno di sassi che diventa l'attrazione magnetica del lungo finale? Per fortuna la nuova generazione dei critici on line sembra piuttosto esperta di Kuomintang e della sua degenerazione successiva. E gli applausi fioccano alla fine del film e tutti trovano quel rompicapo con slittamenti temporali diversamente estasiante. 
Jiaoyou (Cani randagi) di Tsai Ming Liang

Gianfranco Rosi, altro documetarista di fama internazionale, dopo India, Stati Uniti e Messico, gira il suo primo film italiano, anzi romano in un non luogo piuttosto squallido, soprattutto per le orecchie costrette al ronzio continuo e ipnotico, capace pero' di sprigionare effetti magici o nuove consonaze. 
Il sacro Gra


Pensiamo al dialogo padre nobile intellettuale /figlia 'zitella', con il barbuto eccentrico che cita Lawrence Durrell e ci riporta, sul tappeto volante, in Egitto, ai militari che ci salvano dagli inetti che pregano sempre, ai servizi segreti britannici che tramano da sempre, alla guerra civile...  

Un lungo lavoro di ricerca sul campo - due anni - e poi un elaborato montaggio 'a levare', e degli strani geroclifici che partono da quel 'cerchio magico' e vanno altrove, ma senza compiacimenti esotici, e così porta il terzo ottimo film italiano in competizione, Il sacro Gra. Renato Nicolini aveva spiegato gia' tutto del Gra e del suo ingegnere ideatore, mister Gra, riuscendo in quel doc postumo a farci ridere a crepapelle e, alla fine, e non senza l'aiuto dei nipotini,  a calcolare anche la circonferenza dell'anello che circonda Roma, il tutto in un prologo-anticipo che fu proiettato alla festa-festival di Roma lo scorso anno. 
Gianfranco Rosi

Jacopo Quadri, il montatore, non ha utilizzato neanche un fotogramma del lungo intervento storico antropologico demenziale e architettonico di quel monologo di impressionante fascino. Qui i personaggi sono altri e vari. Il raccordo è un po' una città calvinianamente invisibile, e non nel senso di invivibile. E' che la città proprio non si vede. Ci si va, ci si torna, ma non c'è mai. Prostitute nei guai con la legge, nobili piemontesi chissà perché finiti lì (merito dei Savoia e dei loro intrallazzi con il Vaticano?), un principe che affitta il suo neocastello per i fotiromanzi, un barelliere in servizio di pronto intervento, che tratta tutti affettuosamente come se fossero la sua mamma malata, un pescatore di anguille che prende per il culo R2, La repubblica 2, la parte culturale quotidiana del giornale per un servizio disinformatissimo sul mercato delle anguille (mai che chiamano chi ne capisce quando scrivono le loro cazzate), un biologo che 'sussurra alle palme morenti' registrandone gli strazianti lamenti provocati dai letali morsi di insetto che le dilaniano irreversibilmente; alcuni abitanti ripresi fuori dalle finestre dei loro appartamenti (l'intellettuale durrelliano, per esempio) che si affacciano sull'anello autostradale e sull'immensa periferia di Roma, ricca ancora di pecore e capre perché sempre di più al cinema siamo di fronte a 'caprolavori', immensa povera e magnetica come l'india. Ma  cosa rende 'sacro' il gra, il cerchio autostradale che circonda Roma ma ne è anche la linfa vitale, l'arteria chiave, il sangue, forse la reliquia di un corpo che forse è scomparso per sempre? 

il biologo che ascolta le palme
Anche qui siamo davanti a un enigma che lo spettatore sarà felice di risolvere. Ognuno come vorrà. Per l'eccentricità britannica dei personaggi del film, nononstante un umorismo che è assai poco freddo e nero. Siamo anche qui fuori metropoli, nei suburbi sperduti, tra i rifiuti dove vagava un tempo l'occhio del missionario o dell'etnologo o di un Pasolini sempre più pessimista sulle sorti dell'umanità. Ma questo campo di osservazione è imprendibile. Non è omogeneo. Non ha tessuto connettivo unico. Gli stati mentali si susseguono, scontrano, accavallano. E' come se Rosi prendesse tutto il cinema indy e mainstream, di ricerca e di certezze, potente e in cerca di aiuto, e lo rivoltasse come un pedalino. Si riparte, nuovamente da Rosi. R2.
il sacro Gra