Roberto Silvestri
Io credo che il film più bello, più serio, più sconvolgente, più formalmente affascinante, più circolare e più politico della Mostra di Venezia 70 sia Le terrazze di Merzak Allouache. E non premiarlo è stato un grave errore della giuria coordinata da Bernardo Bertolucci.
La composizione eurocentrica del corpo giudicante (5 europei contro 4 extraeuropei, 5 uomini e 4 donne) spiega largamente l'amnesia. Un deficit di sensibilità. Sulle terrazze oltretutto Allouache sta girando ininterrottamente film dal 1976. Le osserva fisse negli occhi da molto più tempo di quanto i due protagonisti del film di Tsai Ming Liang non ammirino il murales contandone le pietre una a una in 20 minuti circa. E quel che osserva va un po' al di là delle ossessioni private
Ma il leone d'oro a Il sacro gra di Gianfranco Rosi (preceduto negli ultimi anni da semidocumentari simili, di Laurent Cantet, Michael Moore e Pietro Marcello sul podio più alto delle manifestazioni che contano) conferma e fiancheggia giustamente una tendenza interessante del cinema mondiale: disaggregare e confondere i confini tra fiction e non fiction, disprezzando l'autoritarismo con il quale si confezionano i film da sala con le star e le storie e gli effetti speciali, e piazzare il nostro occhio e i nostri cuori (e spesso il feroce umorismo di big Moore) e per svariati anni sul territorio (e non facendo sveltine con personaggi e paesaggi pittoreschi come se i filmaker fossero marines) in un no man land che racconta altre storie mai udite, in un altro modo e con non meno godimento spirituale e corporale. Tsai Ming Liang ha la stessa qualità attrattiva e tensione magnetica, buddhista e ipnotica. Solo che Gianfranco Rosi ha uno spirito internazionalista in più (e per lui Roma è California o India ma le sue strade non sono segnate in nessuna mappa, sono suggestioni invisibili) che ce lo rende simile a Apichatpong Weerasethakul e i suoi raccordi al mondo esterno sono meno criptici di qualche ritatto di politico buttato per terra e calpestato... Questo Groning mi sembra invece più giocoliere e estetizzante, e dunque tradizionale nel procedimento 'grammaticale' e 'sintattico' che porta al più grave di tutti i crimini.
Certo, la critica, il general-intellect critico, fa scienza esatta (non a caso la Settimana della critica vince da tre anni consecutivamente il premio per la migliore opera prima, anche se questa volta per il film sbagliato, anzi proprio visualmente esibizionista, ripetitivo, reazionario e vecchio. Vedrà cose che noi critici single o double non vediamo) ma non sono i critici cinematografici a distribuire i premi nei festival (e in qualche giornale prestigioso, e non parliamo delle televisioni, è anche proibito scrivere o recensire i film ai critici, sostituiti dai Marzulli e succedanei). Credo che i critici avrebbero apprezzato, proprio come la giuria, la recitazione 'a levare quasi tutto tranne l'anima' di Elena Cotta e a aggiungere solo l'indispensabile di Tye Sheridan, che Malick e Hillcoat hanno già ben allenato a proteggere il fulcro più prezioso dello stile americano recitativo, l'urlo (soprattutto silenzioso).
Anzi sono anni che Cannes Berlino e Venezia hanno una paura così folle di studiosi e critici di cinema, da tenerli ai margini dei festival, organizzando sezioni a parte, anzi proprio apartheid, come la Semaine o la Settimana o il Forum. Peccato.
Gli altri film memorabili del festival sono: Il sacro Gra (giustamente premiato), Via Castellana Bandiera (giustamente premiata la protagonista), The Zero Theorem di Terry Gilliam, Ana Arabia di Amos Gitai, The unknown known di Errol Morris (anche se l'operazione è palesemente fallimentare, non riesce a fargli dire cose che potrebbero essere usate in un processo contro di lui, e dunque bisognerà aspettare un Rumsfeld n.2 la vendetta che Morris ci ha promesso), Night Moves di Kelly Reichardt e l'ultimo cartone animato di Hidao Miyazaki. Fuori competizione non ne parliamo. Schrader su tutti (che ovviamente infastidisce i dandy del buon senso antico, come Ippoliti e Stefano Disegni). Cuaron, Aramaki, Kim Ki duk, Reitz, McLean, Gomes, Wiseman, Costanza Quatriglio, Gibney Gia Coppola, Sion Sono, tutti i classici restaurati (con una particolare segnalazione per Il tesoro di Lester Jamie Peries (Sri Lanka), e i film sui registi di Samantha Fuller e Luca Guadagnino-Walter Fasano, Gabe Klinger su James Benning e Richard Linklater. L'esperimento Biennale college è perfettamente riuscito e due film (tunisino e malgascio) usufruiranno di aiuti finanziari per la postproduzione e la stampa delle copie. E ancora. L'intrepido non ha poi molti più difetti di La gelosia di Garrel o di Filomena di Frears (dimostrazione che una sceneggiatura perfetta e attori fantastici, vedi l'altro film britannico, Locke, non sempre fanno grande un film e che l'esperanto della subcritica (non bisognerebbe mai mescolare sguardi critici e interessi "Industry", come si fa in occasione delle prime mondiali di Venezia: si distorcono così i significati degli appalusi e dei fischi) prende abbagli in continuazione. Metà film belli in una competizione internazionale è comunque una buona media. Quella della Berlinale. Venezia qualche anno ha (con Marco Muller) fatto di più, Cannes anche. Ma il bilancio di Venezia 70 è positivo. La sorpresa di inserire cartoon (che è il genere più documentaristico di tutti, perché documenta lo scorrere dei fogli disegnati...) e doc nella gara ci ha riportato agli anni nei quali Leni Riefensthal e Walt Disney gareggiavano e facevano amicizia al Lido, magari inquadrati da quegli operatori del Luce cha tanto sono stati rivalutati e applauditi per i loro bianchi e neri strepitosi.
Forse far premiare due film italiani dopo tanti anni è costato qualche compromesso. In particolare il doppio riconoscimento al film greco sa un po' di contentino per l'ala cinefila-mondana della giuria che se non sente odore di Seidl-Haneke pensa che ci sia puzza di 'buonismo' in giro, che non è solo un peccato mortale estetico ormai, ma l'unico peccato mortale estetico. White shadows, questo snuff movie apolide che ci riporta all'epoca dell'uomo nero, dell'africano mostruosizzato della iconografia coloniale in questo senso è un oggettivo film chic alla moda (moda Jacopetti).
Nessun commento:
Posta un commento