martedì 3 settembre 2013

Amos Gitai, il mistero della sedia mancante

Roberto Silvestri


 Amos Gitai
Abbiamo visto in questi giorni alla Mostra tre casi di cinema moderno estremo: un film muto, senza una sola parola né dialoghi  (Moebius di Kim Ki duk); un film che ha un solo attore che parla tutto solo nella sua automobile, (anche se una supertecnologica Bmw gli permette dialoghi telefonici limpidissimi e agevoli), in tempo reale (Locke). E un film girato in un unico piano sequenza di un'ora e mezzo, formato 1:25, anche se ora è più facile perché c'è il digitale e la pellicola non finisce mai nel caricatore, Ana Arabia di Amos Gitai, israeliano in stato d'allarme, e l'unico dei tre in concorso. Insomma virtuosismi a gogò al Lido di Venezia?

Ana Arabia, in concorso
Non tanto. Quello di Gitai (che spesso ha preferito cimentarsi nella grafia complessa della sequenza lunga senza 'piani' e senza stacchi), per esempio, non è un effettaccio gratuito, una trovata che si compiace della propria eccelsa bravuta nella messa in scena, nel 'montaggio interno', nella direzione d'attori e nell'addomesticamento della casualità. Ha senso e agita tutti i sensi. Gitai non ha bisogno infatti di esibizionismi formalistici. Il suo cinema, che ha anticipato da trent'anni la salutare 'confusione' e mescolamento tra fiction e non fiction, tra sostanza dell'invenzione pura e forma dell'invenzione documentaristica, tra fantasia e Storia, tra rito e vita, pensiero e politica, è strutturato sull'ossimoro, proprio come l'espressione piano sequenza, che nasce nel 1949, negli appunti di Andrè Bazin in preparazione del saggio su Orson Welles, che venne pubblicato nel 1950: "Si vede chiaramente che la sequenza classica costituita da una serie di piani che analizzano l'azione secondo la coscienza del regista si risolve qui in un solo e unico piano. Al limite il taglio in profondità di campo di Welles tende alla sparizione della nozione di piano in una unità di decoupage che si potrebbe chiamare piano-sequenza".  Saranno 28 i piani sequenza di Quarto potere, 43' in tutto...Qui sono tutti e 84 i minuti che, abbracciando i personaggi all'opera, 'palestizzano gli israeliani' o 'israelizzano i palestinesi', alla faccia di Sharon e Yehoshua, e profetizzano una terra comune a venire, invece che separata dai muri, che sappia far rifiorire l'antica 'transcultura' che per secoli valorizzò i suoi tesori e combatté i reciproci fanatismi e oscurantismi senza aizzare al conflitto irriducibile le differenze storico-religiose. I destini di questi due popoli non saranno separati, sono intrecciati, ci dice Gitai. Un albero ben potato, a inizio film, sarà l'albero rigoglioso di fine film. Qualche dolorosa ma inevitabile amputazione servirà a far rinascere questa terra e trasformarla di nuovo nella più bella e speciale del mondo? 

Ana Arabia
Gitai così inventa una plausibile incursione giornalistica, in cerca di belle 'storie' a effetto, seguendo una giovane, bellissima reporter israeliana, Yael, che va a curiosare tra i semibaraccati poveri, ebrei e arabi, di una comunità suburbana, metà giardino metà rifiuti, tra Jaffa e Bat Yam, sobborghi di Tel Aviv. 

Yuval Sharf
L'occasione è data dalla scoperta di una notizia: una sopravvvissuta quindicenne di Auschwitz aveva preferito fuggire di casa e sposare un muratore arabo, convertendosi all'Islam. Strano, no? Yael entra, da un pertugio, in quest'angolo dimenticato della città, con casette provvisorie di un piano e orticelli improbabili, auto scassare e rifiuti vari, il tutto circondato dai palazzoni orribili delle periferie di tutto il mondo, e scova subito il vedovo di quella donna eccentrica e coraggiosa e i suoi amici, i vicini e i parenti, Youssef, Miriam, Sarah, Walid... 

Viene ipnotizzata da quelle storie, da quei ricordi, anche terribili, da desideri e modi di vita che sono fuori da quelli della metropoli tentacolare e che vengono inanellati uno dopo l'altro al ritmo delle mille e una notte. Compresa l'epopea di un super eroe nero e musulmano dell'antichità (mi pare si chiamasse Antar), uno schiavo che, innamorato della sua padrona bianca, come Sansone, sgominò da solo tutti i nemici che volevano renderla prigioniera. Ecco da dove ha origini il super eroe arabo americano della Marvel di oggi, The Green Lantern....

Yael dimentica il suo dovere e tra un té e una serie di chiacchiere dentro e le fuori le case, con le donne di casa, un meccanico-megafono, la 'giardiniera dilettante' che strappa ai monelli un fazzoletto di verde, la ragazza angariata dal marito geloso e il vecchio irrecuperabilmente schiavo di Allah, scopre non tanto tre o quattro storie 'magnifiche' da piazzare (anche se quella del bimbo abbandonato durante la nakba del 1949 a una famiglia ebrea e che venti anni dopo, diventato soldato di Israele, si rifiuterà di tornare ai suoi veri genitori di sangue, non è male, peccato che è già il libro autobiografico, palestinese, di uno scrittore ucciso dagli israeliani, Ghassam Kanafany)  quando di possedere ancora il dono di parlare con gli altri, di dialogare e di saper ascoltare. E riscopre il santo dovere dell'ospitalità totale, il fare tutto per l'ospite, anche se l'ospite ti tratta male, ti schiaffeggia, ti fa sanguinare. L'allusione è più che evidente. E il fatto che questi ospiti squisiti non offrano mai una sedia a Yael che sta in piedi per tutta l'ora e mezza è una perfidia non casuale. Dei palestinesi che si vendicano? Di Gitai che ha orrore della rampante leonessa della middle class di Tel Aviv?                                                     
Ghassan Kanafany) ma di aver recuperato la capacità di dialogare, la virtù dell'ascolto dell'altro, inteso come classe, come etnia, come differente. Riscopre un senso dell'ospitalità perduto, totale e altissimo (anche se, in realtà, nessun palestinese si sogna di farla mai accomodare a una sedia e la lasciano sempre in piedi...) e qui non si capisce se la perfidia sia di Gitai, o Gitai usi quella perfidia per punire le giovani leonesse rampanti della borghesia di Tel Aviv.      

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