martedì 3 settembre 2013

Zero Theorem, il senso della vita in un algoritmo


Mariuccia Ciotta

Venezia

The Zero Theorem


Monty Phyton - Il senso della vita, Terry Gilliam torna alle origini della banda di umoristi laureati a Oxford, lui, unico americano (nato a Minneapolis nel '40) a far parte del gruppo di eccentrici cineasti, prima di dirigere i suoi film fantasgamorici e fantapolitici (Brazil, L'esercito delle 12 scimmie, Paura e delirio a Las Vegas).

Disegnatore di tavole pop mischiate a icone della grade arte pittorica, il regista (ormai cittadino inglese) ha presentato qui a Venezia uno dei titoli più pregevoli, The Zero Theorem, che deluderà gli amanti dei suoi megafilm fiammeggianti.

Piccolo budget, tutto in una stanza, anzi in una chiesa sconsacrata zeppa di pale, affreschi, crocifissi e di monitor tridimensionali, cavi e spie elettroniche seppelliti sotto giocattoli da prima infanzia, tute al neon, mucchi di libri e sacchi di cemento... La chiesa dei frati Certosini fu distrutta da un incendio perché nessuno ruppe il silenzio e gridò “Al fuoco! Al fuoco!”. Prologo raccontato da un Christoph Waltz (Inglourious Basterds, Django Unchained) nudo e pelato, seduto al suo bancone di programmatore al servizio di una mega società diretta da Matt Damon nelle vesti (mimetiche, i suoi abiti riprendono sempre il motivo di poltrone e tendaggi) del signor Management, colui che può stabilire a base di algoritmi “il senso della vita” come estremo modello di profitto.

Soggetto e sceneggiatura di Pat Rushin, docente di scrittura creativa all'università di Orlando, The Zero Theorem è un trattato filosofico travestito da commedia futuribile, con personaggi da fumetto e decor che scimmiotta, in versione trash, Blade Runner. Fuori, nel “mondo reale”, la città è tutta uno spot pubblicitario con megaschermi invasivi e un caos da day-after in colori pastello, una gran festa di carnevale con funamboli e ballerini, umanità giunta al massimo livello di consumismo, senza più desideri. Toccherà al solitario genio del computer provare la “teoria zero”, il buco nero che inghiotte l'universo, il nulla, l'esistenza insensata dell'umanità. Inutile cercare il senso della vita, né in cielo né in terra, l'unico mondo che conta è l'interfaccia digitale che fornisce piaceri sessuali e giochi a premi. Ma lui, il malinconico e misantropo programmista aspetta una telefonata da qualcuno che gli promise, poi cadde la linea, di svelargli il mistero della vita, e non si arrende all'annientamento interiore.

Gilliam mette su un circo surreale con personaggi deformati, frutto dei suoi allucinogeni abituali, e una pin-up bionda (Mélanie Thierry) che insieme al ragazzino nerd, figlio ribelle di mister Mangament, gli fanno assaggiare chi l'amore, chi una pizza canterina (il jingle parte quando si apre la scatola) e lo trascinano su una spiaggia tropicale dove il sole non tramonta mai, essendo di pixel. Per ora.



La solitudine dell'individuo davanti al monitor e l'angoscia di un'umanità perduta ricorre in molti film di generi diversi, dalla commedia teenager Palo Alto (Orizzonti) di Gia Coppola, al film d'animazione giapponese Harlock: Space Pirate di Shinji Aramaki in 3D.

Gia è la nipote di Francis F. Coppola (e figlia del giovane Giancarlo Coppola morto tragicamente) fotocopia 26enne di Sofia, della quale ha preso la malinconia da Giardino delle vergini suicide condita con l'humour corrosivo di American Graffiti.

Palo Alto, spia nel mondo degli adolescenti ricchi e annoiati della baia di San Francisco, privati perfino del gusto di trasgredire. Fumano, fanno sesso come esercizio di potere e di controllo, si strafanno senza attirare l'attenzione dei genitori, più fuori di testa di loro, e quando abbattono alberi secolari, provocano incidenti stradali, o istigano allo stupro di gruppo, a fermarli è solo la polizia. L'unica cosa che li mette in difficoltà, l'unica linea invalicabile, è la dichiarazione d'amore.

Produce James Franco (qui presente ovunque come attore, regista, produttore) nelle vesti di un insegnante di ginnastica che dà il buon esempio alle sue studentesse esperte in “blow job” e le inizia alla “prostituzione intellettuale”, vai col professore (e suo analogo) e sarai promossa.

Cameo per Val Kilmer, ormai gonfio di alcol, nella parte del patrigno del suo vero figlio, Jack Kilmer, dallo slang adolescenziale perfetto, attore promettente come la giovane esordiente alla regia Gia Coppola, degna del nome che porta.

Anche il Capitan Harlock è preda di un vuoto cosmico che lo tormenta nel film d'animazione basato sul manga fantascientifico di Shinji Aramaki, autore della serie televisa in 42 episodi prodotta dalla Toei Animation.
Harlock: Space Pirate, kolossal tenebroso che ripercorre le autostrade intergalattiche di Final Fantasy, videogioco giapponese diventato saga digitale con al centro la perdita della Terra. La Coalizione di Gaia domina l'universo popolato dalla diaspora degli esseri umani, coloni ed esuli, ai quali è interdetto il ritorno sul pianeta di origine. La combatte il pirata immortale, vivo da 100 anni grazie alla “materia oscura” che lo mantiene giovane e bello, alla guida dell'Arcadia, gigantesca astronave dalla prua a forma di teschio.

Il digitale richiede immagini “pesanti” per sfuggire all'effetto dell'assoluto immateriale, così le navi spaziali e le armature metalliche sono oggetti da archeologia industriale, sferraglianti e arrugginiti, salvo poi farsi leggeri e volubili ologrammi, tanto per tradire la loro vera natura.

La fanta-favola è profondamente nobile e tutt'altro che stereotipata. Doppi e triple personalità, enigmi, dubbi e capovolgimenti di fronte con al centro le sorti dell'amato pianeta azzurro, ridotto a un cumulo di macerie, morto a causa di antiche guerre stellari. Ma ecco Wall-E, il robottino Pixar, l'unico abitante del deserto-mondo, innalzare il suo trofeo, la capsula che contiene il fiore della vita, la pianticella verde sopravvissuta alla catastrofe. Le citazioni si susseguono a bordo dell'Arcadia, dotata di un timone di legno da vascello pirata, quando il tempo aveva un andamento lineare e praterie e oceani un bel colore verde-azzurro, proprio come in Gravity di Alfondo Cuaròn.

Insomma, tutti gridano “Terra!” declinata nel senso della vita, e del 35mm invocato da Paul Schrader. Né analogico né digitale, né nostalgia né cinismo. Mondi ibridi, multitecnologici, e irriducibilmente umani.

Il lungometraggio giapponese è stato introdotto dal pregevole corto (3') Disney Mickey Mouse 'O Sole Minnie di Paul Rudish, studente della CalArts fondata da Walt. Altre credenziali: suo padre era un illustratore di Kansas City, Missouri, città dei primi esordi del papà di Topolino. Produttore della serie di cartoon in 2D per la Disney Channel, Rudish ha realizzato il gioiellino con un Mickey stilizzato, quasi irriconoscibile, immerso in una Venezia che sembra l'opera di May Blair, raffinata disegnatrice dell'ultima ondata di Burbank. Il suo “Small Word” (a Disneyland) è citato tale e quale con i suoi pinnacoli colorati, le linee essenziali, un neo-gotico pop, bellissimo. E così tutti i palazzi sul Canal grande dove Mickey Mouse fa il gondoliere canterino, prima di essere travolto da un grosso traghetto guidato a tutta velocità da Gambadilegno. Dettaglio sorprendente dopo l'orrendo incidente mortale avvenuto sotto il Ponte di Rialto pochi giorni fa. Inconsapevole della cronaca, il Topo si fa in quattro per conquistare Minnie, sbirciata su un balcone mentre serve a tavola i turisti.



Acrobazie di ogni genere e la voce stentorea del gondoliere nato nel 1928 che canta l'opera alla sua amata mentre, altra citazione commuovente, Willie la balena tenore (Willie the Operatic Whale) emerge dalle acque della Laguna e intona la sua romanza d'addio. “Sold out” anche per Paul Radish.




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