sabato 7 settembre 2013

Black Scarlet. Under the skin di Jonathan Glazer

Roberto Silvestri

Da qualche anno nei festival più importanti (Cannes Berlino Toronto e Venezia), a costo di irritare i cinephiles drastici e più europeisti e per compiacere il grande pubblico, che sempre i film americani preferisce, vengono selezionati con studiato entusiasmo nelle sezioni principali film hollywoodiani o parahollywoodiani che cercano di deformare o abbellire con qualche tocco d'arte troppo vistosa e sottolineata (o di dare una rinfrescatina squilibrante a) i film di genere molto strutturati e congegnati per il mercato dei soli multiplex. Insomma thriller, horror, western, carcerario, commedia, fantascienza fatti un po' strani, magari in bianco e nero ingiallito o solarizzato... 
Scarlett Johansson


Sono operazioni semi-tarantiniano, semi Miike Takashi, condotte come sono con la cautela, il moderatismo e il perbenismo delle majors e dei suoi cda e prive come sono di passione estrema per le immagini non belle ma vere, per le riscoperte audaci di modelli antichi ma dimenticati, per le esplorazioni sovrumane o subumane più indigeste e per gli innesti più anticonformisti e proibiti. Insomma tanti Django incatenati che si alimentano comunque di valori plastici provenienti dalla cultura figurativa di frontiera, che esibiscono forti frequentazioni di gli artisti visuali a la page, che spesso sono artisti essi stessi (come il londinese nero Steve McQueen, scultore e fotografo). 

Penso non solo alle deformazioni delicate ma estetizzanti di Jesse James o al Cogan di Andrew Dominick o ai ricalchi banali di Nicolas Winding Refn (come il thriller Drive, particolarmente spento e imbigottito rispetto al modello Driver) ma anche alle rincorse allettanti a Nolan o a Burton per abbellire qualche vistoso dettaglio dei mega-blockbuster fin troppo strutturati. Sono i cosiddetti 'film kitsch molto coraggiosi', caratterizzati dal fatto di non sottostare ai format abituali, ma di saper competere con i block-buster (o di creare nuovi prototipi) e non rinchiudersi a riccio nelle nicchie di mercato (il che accade perché non mancano mai superstar attratte da questi viaggi appena 'fuori porta', come Brad Pitt che con La vendetta di Jesse James vinse la coppa Volpi). Anche se il mercato (perfino di serie b e c dei d'essai) non sempre gradisce. Torniamo a Cannes 2011: Mud di Jeff Nichols (il film dove Tye Sheridan, premiato  da Venezia 70 come miglior attoro emergente, fece una apparizione davvero folgorante) non era un film di questo tipo, ma sia Lawless di Hillcoat che The Paperboy di Lee Daniels sì.
Anche a Venezia abbiamo visto due esperimenti di questo genere. Nel primo, però, diretto in stato di trance da James Franco, prevalgono modelli alti o bassi inusuali. L'immagine senza orpelli scaccia ogni belluria 'a freddo'. La luce è aspra. La sequenza dura. La ripetizione non ha nulla di ritmico o fluido... Springsteen o Selander non Yates o Ritt, sembrano ispirarlo. Il b movie. Henelotte, Yuzna o Mojica Marins, nelle scene finali, quelle più snuff. Tutto ciò che non tollera l'obbligo di piacere o compiacere a tutti i costi possibilmente a chiunque, regolando sui gradi medi l'indice di sopportazione delle suggestioni. Franco sceglie invece le sequenze celibi, che non fecondano narrazioni precotte. Child of God si svincola dall'abbraccio mortale delle più maligne abitudini e tocca momenti di disgusto molto poco corretto dalla normalina. 

Sparsa ormai sottotraccia in molti film anche da festival. Il caso più eclatanti sono stati al Lido di Venezia 1. Parkland,  genere semidocumentaristico; 2. Joe, dramma rurale;  3. Tom a la ferme del canadese Xavier Dolan, genere commedia gay alla Ozpetek; ma forse anche 4. il greco Miss Violence, genere Seidl-Haneke, detto anche "Bresson che ogni tanto sbarca", opera sul femminicidio spinto, che, rendendo estrema una pratica violenta e incestuosa che - ci raccontava David Cooper nel 68, è alla base della famglia mononucleare e non l'effezione efferata -  purtroppo è la norma nell'epoca neoliberista, se ne torna a casa con due premi esagerati, uno speciale della giuria per il film, e uno all'attoreThemis Panou  che ha il merito però di assomigliare, moltissimo, a un deputato che ci è caro, al socialdemocratico tedesco del parlamento europeo Martin Schultz, già arruolato a Cinecittà come kapo' da Silvio Berlusconi.
        
Una operazione di questo tipo è quella condotta sul corpo del film di fantascienza intelligente, british-style, da Jonathan Glazer, nato a Londra 48 anni fa, ex scenografo e videoclipparo, qui sotto contratto Bfi. 

Parliamo di un film in concorso che ha trovato larga eco e sedotto anche la critica più acuta (Marco Giusti o Luca Celada, per esempio), anche per la qualità del sound e della densa paritura musicale (di Mica Levi). 

Si tratta di Under the skin, dal romanzo di Michael Faber, protagonista una Scarlet Johansson marziana e spesso nudissima che, parrucca scura, che la rende somigliante a molte altre dive, da Anna Karina a Leslie Ann-Down, scorrazza tutta sole in  camper, controllata a distanza da un marziano travestito da motociclista umano, adesca uomini, meglio se soli, derelitti e mostruosi - non manca una carezzevole citazione a David Lynch e a Elephant man, se li trascina in casa dove, procedendo verso il più prelibato piacere promesso, scivolano invece e si disintegrano, essiccandosi, quasi sgonfiandosi e facendosi assorbire da un liquame nero, tipo pece astrale, diventando combustibile presumibilmente utile alla sopravvivenza terrestre degli alieni, cinici e brutali. La marziana gironzola, come una beatnick o un documentarista alla Gianfranco Rosi, tra i peggiori posti del mondo, baracci, baracche, periferie edimburghesi, scogliere selvagge, night di terza categoria, uccidendo, quando necessario a pietrate, vecchi, donne e bambini, se intralcioni o impiccioni.  La grande bruttezza è all'opera.

Ambientato nei non luoghi della Scozia e nei dintorni del macabro lago nebbioso di Lockness, l'irritazione dell'operazione deriva però dall'incastro tra lentezza e ripetitività delle prime tre o quattro missioni omicida, che comunque vendicano le vittime, che allora, nel 1954, erano tutte donne e furono filmate con la cinepresa, in L'occhio che uccide. La lenta e faticosa opera di presa di coscienza umana (retaggio dei replicanti tragici di Blade runner), da parte dell'aliena charmant, non può mancare, dice lo stereotipo. E neppure il finale drammatico che piacerebbe sicuramente a Jodorowski, l'intellettuale psicomagico che non ha grande simpatia per il verde, l'ecologia e gli alberi, anzi ne diffida. Non ne diffida la nostra eroina che anzi, sperdutasi come nelle fiabe nel bosco, e ormai quasi malata di sentimenti terrestri, come l'amore e la pietà, raggiunto un rifugio, incrocia una guardia forestale piuttosto bruto ma, invece di farlo secco con il solito metodo, scappa, è inseguita, si svincola, viene raggiunta, spogliata dei vestiti e poi della pelle... orrore. A questo punto lo stupratore invece di svenire si procura una tanica di benzina, e, cosparso quel corpo, nascosto fino ad allora dalla bianca pelle di Scarlet Johansson, gli dà fuoco. Già, proprio come La cosa da un'altro mondo. Non c'è bisogno di usare armi chimiche o al fosforo per fermare l'invasione aliena. Basta la benzina. Ecco perché è così preziosa. 


Il fatto di vedere a questo punto però un bellissimo corpo nero come l'ebano, sotto quello di Scarlet, andare a fuoco per mano di un debosciato fascistoide fa un un certo effetto sinistro, come se arrivassero anche qui quelli del 'Kkk'.  E tra i tanti film visti a Venezia che fondano sulla 'proprietà della terra' contro gli alieni di tutti i tipi, l'identità dell'Europa questo contiene l'immagine più indigesta e profeticamente oscena.   

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