Errol Morris |
Mariuccia Ciotta
Venezia
L'attore principale ha attraversato mezzo secolo di storia americana e si è allenato in conferenze stampa da screwball comedy mentre in un continente più in là recitava in un film dell'orrore. Donald Rumsfeld The Unknown Known, il noto ignoto, membro del Congresso, consigliere di quattro presidenti e due volte segretario alla Difesa, entra nel mirino di Errol Morris, il grande documentarista di The Thin Blue Line in concorso alla Mostra (al posto di Philip Glass, alla partitura musicale c'è Danny Elfman).
Perché ha accettato questa
intervista? Chiede il regista. "Non lo so". Rumsfeld è tutta una
doppia e tripla negazione, virtuoso nello slalom tra verità e
il suo contrario, giocoliere di parole in tutte le sfumature della
menzogna. Quello che credi di sapere, quello che sai di non sapere e
quello che non sai di (non) sapere, e via così in una gara a
rimpiattino con le domande di Morris.
Scivoloso “uomo di mondo”
inquadrato dalla videocamera su uno sfondo scuro, compiaciuto di
essere là, ancora protagonista e mai in difficoltà
perché il “fatto non costituisce reato” . Torture a
Guantanamo e ad Abu Ghraib? Eccessi e libere interpretazioni di un
protocollo (ha collezionato migliaia di documenti “riservati”, i
suoi “fiocchi di neve”) che permetteva una pressione con le mani
sul corpo del detenuto e l'urlo in faccia per farlo confessare, tutto
il resto è iniziativa di singoli, teatrino di guerra,
ammucchiate di uomini nudi e lascivi, incappucciati e crocifissi... e
poi che sarà mai. L'amico Cheney lo dichiarò a nome di
entrambi, la tortura è legittima se serve a prevenire attacchi
all'America. La nostra mancanza di immaginazione, sostiene Rumsfeld
gongolante per l'ardito paragone, permise ai giapponesi l'attacco a
Pearl Harbor.
Ma le armi di distruzione di massa? Non
c'erano prove per scatenare l'aggressione all'Iraq dopo l'11
settembre. Risposta: l'assoluta mancanza di prove non significa assenza di prove. La carneficina segue al nonsense, divertente
nelle pagine di Lewis Carrol, orribile sulla bocca obliqua del criminale di guerra, complice di George W. Bush e del suo
compare Tony Blair. A tratti Rumsfeld sfodera un bagliore di dentini aguzzi,
un ghigno furbo, forse studiato allo specchio per sedurre la platea (e i consigli d'amministrazione della sua multinazionale farmaceuica).
Morris lo insegue nel tentativo di
sorprenderlo, di arrivare a quel punto misterioso in cui l'uomo si
imbatte in se stesso. A quella piccola incrinatura mentale o morale
che Adolf Eichmann rivelò all'improvviso nel processo documentato
dal film di Sivan. O che riempì di lacrime gli occhi di
McNamara in The Fog of War, missione compiuta di Errol
Morris, quando si giustificò con la teoria sulla “riduzione
del danno”. Anche Rumsfeld sogna “fontane zampillare sangue”
come l'impiegato nazista ligio al suo dovere, ma resta incolume, non
soffre di insonnia.
La politica targata Nixon-Ford-Bush
esperta nel creare dittatori di comodo come Saddam Hussein, per poi
farli fuori quando non servono più insieme a migliaia di
civili, deve essere stata per Rumsfeld un gioco di ruolo, una
coazione a ripetere lungo cinquant'anni di potere e di spettacolo
offerto ai giornalisti, battute e allusioni, paradossi e metafore
replicate adesso per Morris.
La lunga intervista, intervallata da
filmati e fotografie dell'epoca, dove Rumsfled giovane dice tutto e
il suo contrario, lascia di ghiaccio e non per mancanza di
rivelazioni, verità nascoste, scoop. Ma perché il
regista resta annichilito dalla leggerezza del disumano (piaceva
tanto l'ironia di Andreotti ai notisti politici). E non basta
l'effetto finale del criminale inconsapevole, il suo “essere
sconosciuto a se stesso” (Morris) per decretare la sua immensa
colpa storica. Non c'è dialogo con i Rumsfeld, non c'è
diplomazia, non c'è intervista che tenga, e se lui è la
legge non si può che esserne fuori.
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