lunedì 2 settembre 2013

Perché non giri all'inferno? Sion Sono e la parodia di Tarantino

Roberto Silvestri

Come nel caso di Paul Schrader e di The Canyons, anche qui assistiamo a una sorta di cerimonia funebre, in rito giapponese, del cinema in 35mm e dello spettacolo da grande sala e schermo gigante. Cose di una volta... Siamo tutti digitali adesso. Come essere digital 'noir' o digital dark?? Basterà un mare di sangue e dei fuochi di artificio di gambe, mani, teste e arti segati e volanti? O bisognerà ipotizzare un'altra struttura di 'bad film'?

Perché non giochi all'inferno? di Sion Sono
Il copione, scritto oltretutto 17 anni fa, dal regista di Toyokawa che lo ha anche musicato, racconta di due bande criminali che si odiano; di una ex bambina prodigio della pubblicità, figlia del capo gang Muto (il modernista) e amata segretamente dal boss nemico, Ikegami (il passatista); della moglie di Muto che esce dal carcere dove ha scontato una lunga pena per aver assassinato svariati uomini della Ikegami...Il suo sogno è ammirare la figlia super star del cinema. Per questo bisognerà realizzare velocemente un film. Alla Roger Corman. In meno di una settimana.  

Sion Sono, regista sceneggiatore e autore delle musiche
Così le due gang questa volta si riuniranno per creare il più grande e cruento spettacolo del mondo...Il che avviene perché i sicari si trasformano in elettricisti, attrezzisti e addetti alle luci e alle giraffe, e perché coinvolgeranno nel progetto (quasi alla Frank Capra), Koji, uno strano ragazzo che frequenta, come John Waters, gli ambienti giusti e malfamati, e un gruppo di amici cinefili ex liceali di Tokyo, regista fonico (donna) operatore e super star, che fin da ragazzi sono ossessionati da una idea coraggiosa di street art a alto rischio, quasi radente lo snuff, e dal desiderio di produrre film indipendenti e violenti, autonomi e disgustati dagli standard istituzionali o commerciali: "una idea in testa e una cinepresa in mano", come voleva Glauber Rocha. E se quello che ci circonda è estremamente violento e crudele, perché non riprenderlo? Non roba da cinefili, insomma, non cose autoriali, ma - direbbe Freccero - da cultori del cinema necrorealista e dunque della vita che vi penetra dentro e lo rende molto, molto 'bastardo'. 
Mitsuko in "Jigoku de naze warui"

Sezione Orizzonti (quella più global, dove le 'ipotesi cinema' sono più estreme e diversificate) per Sion Sono, una delle tre presenze giapponesi al Lido, classici restaurati esclusi. Jigoku de naze warui, Perché non giochi all'inferno? se non altro per la ridiscesa in campo della cara tutina gialla a righe nere da combattimento di Bruce Lee e di Uma Thurman, che è quella che il piccolo teppistello scoperto dal regista in erba Hirata come potenziale divo maneggia religiosamente, è un omaggio allo stile di lotta più libero ed efficace, il jet kune do, e dunque alla sua versione cinema, quella dalle ambizioni più scatenate e dai risultati  più efficaci, intesa alla Godard come 'pensiero che prende forma e forma che pensa'... cose mai pensate. Emette suoni più disumani. Collauda valori ancora conturbanti....

La battaglia finale
Come diceva Wakamatsu, che fu yakuza in gioventù, è bene stare però alla larga sempre dagli yakuza, questi servi protetti del potere, non bisogna farne mai soggetto di un film, eroi o controeroi, dunque nemmeno inquadrarli per dissacrarli o metterli alla berlina, sarebbe disgustoso, come riempire sempre le prime pagine dei quotidiani con la fotografia di Silvio Berlusconi o Morsi o George Bush jr. o Assad... Oshima si è attenuto a questa regola. Chi non lo ha fatto o era colluso o er
a estetizzante o l'ha pagata cara (Itami, per esempio). Molti altri no. 

La crudele Mitsuko
Ma Sion Sono, che fa spesso film in prima persona singolare maschile, che dissemina spesso i suoi film di croci cristiane e di segnaletiche 'aliene', mette al centro di questa storia Bruce Lee, il mito dell'Oriente che terrorizza tutto l'Occidente, perché lo conosce fin troppo bene nelle poche grandi virtù e nei tanti vizi. E se la presenza delle due mafie antagoniste qui non si può negare, è però come se venissero travasate, come citazione esterna, per colpa o per merito dei Kill Bill! di Quentin Tarantino, che più a Suzuki pensava e ai suoi cappa e spada rigonfi di moltitutini non yakuza, che a Johnny To e alle sue geometrie di pistole e crudeltà mafiose. Perché della passione del cinema si tratta, del girare, dell'azione! dell'immagine-movimento interpretato alla zen, e non alla Hollywood, del diventare adulti, del provocare il suicidio (per una giusta causa), dell'esporsi all'amore, come giuntura possibile tra vita, politica e arte. Il ritmo, l'agilità, la scienza e la filosofia del gesto incongruo, che non si può prevedere. Tutto questo viene ereditato nel passaggio dal cinema al digitale, dal girare pesante al girare leggerissimo. A tal punto che il film sembra fino alla tre quarti sfatto, acentrico, lento e ritmicamente claudicante. Se lo interpretiamo come cinema-cinema. Ma tutto nel finale si rimette a posto. Jerry Lewis ci ha spiegato che un mare di sangue al cinema è un mare di acqua colorata. Che buttarsi dall'ultimo piano di un palazzo è simulare in studio un grande volo. E che per un attore è più estasiante interpretare un brutto ceffo che san Domenico Savio. 
   


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