mercoledì 11 settembre 2013

Las ninas Quispe. Allende, 40 anni fa. Ma è ancora al potere. Pinochet no

Roberto Silvestri

Abbiamo visto di recente a Pesaro una interessante rassegna del nuovo cinema cileno. Una ventina di opere, di forte taglio metaforico, realizzate dalla giovane generazione negli anni 2000, che non guarda più troppo - bisogna uccidere i padri - ai Maestri epico-lirici (Soto, Francia, Littin, ma anche Ruiz...) cioé ai fondatori, perché prima di Allende non esisteva affatto il cinema cileno: si deve solo consumare roba altrui, non produrre quando si è sottosviluppati (da altri).

Ovvio che questi nuovi filmaker (Lelio, Torres Leiva, Matias Bize, Ignacio Rodriguez, Lavanderos, André Wood, Almendras, Silva) raccontano oggi il loro Cile, soprattutto metropolitano, moderno, global, mettendo poco il naso fuori da ciò che non conoscono bene (la storia, soprattutto il tragico passato, la classe operaia, i contadini, gli indios...) e avventurandosi invece con disinvoltura dentro i riti, anche osceni e nevrotici, della middle class. Hanno dimenticato, o forse messo da parte momentaneamente, la grande lezione, stilisticamente anarchica, patafisica, comica e apolide, di Raul Ruiz. Ma non mancano di charme e originalità, tan'è che girano molto per i festival.

 
Catalina Saavedra e Francisca Gavilan in Las Ninas Quispe
Sanno infatti penentrare indirettamente, ma anche ossessivamente, ben dentro l'inconscio collettivo del paese, anche se spesso ignorano (o danno per scontato) il legame esplicito con ciò che successe trent'anni fa alla borghesia di Santiago: che fu vezzeggiata e arricchita porcamente, per usare un eufemismo, dalla dittatura militare e dalle banche Usa che premiarono chi ebbe il fegato di schiacciare quella strana coppia 'democrazia e comunismo' innalzando, al doppio del valore (rispetto agli altri stati sudamericani) la valuta cilena.

Unica eccezione l'anziano Patricio Guzman e il giovane Pablo Larrain. Ancora impegnati, ideologici come si dice oggi e non con connotazioni marxiane. Quest'ultimo lo abbiamo ritrovato, applauditissimo in sala Darsena a Venezia (il suo ultimo film, No, è stato un grande successo in Italia, grazie anche all tifo inaspettato di un suo fan, Saviano) come produttore di un film cileno, stravagante perché in costume, 'storico', ambientato verso la metà degli anni 70, che torna a interrogarsi sull'orrore militare, e che giustifica ampiamente l'attenzione speciale di Pesaro. Nel Cile liberato, adesso, il cinema lo sanno fare.

A Milano e a Roma (al Nuovo Olimpia) si può rivedere in questi giorni, reduci dalla mostra di Venezia, dentro il cartellone completo della Settimana della critica, questa ottima, aspra opera prima, intagliata nella roccia, scoperta dal pool della Settimana della Critica, Las ninas Quispe di Sebastian Sepulveda, 41 anni, di cui molti passati fuori dal suo paese, allievo della scuola di cinema di San Antonio de los Banos a Cuba e della Femis di Parigi, regista, sceneggiatore, montatore (e anche attore) . E' la proiezione giusta, un film sulla dignità, su una forma di martirio laico, basato sulla superiorità etica di chi ha la coscienza a posto, e dunque vive per sempre, dio o non dio (come ha capito perfino il Papa)  per rendere omaggio, a 40 anni dall'omicidio, alla attualità e vitalità di  Salvador Allende, il presidente, socialista e anarchico di origine basca, assassinato dal generale reazionario e fascista di origine basca Augusto Pinochet, un Blaise Compaoré di colore, dalla pelle bianca.

A completare l'insorgenza cilena, ricordiamo che un altro film cileno, di stile metaforico, è stato invitato a Venezia dalla Settimana, Le analfabete, diretto da un Sepulveda, Moises, che non è parente di Sebastian, che, come Orson Welles, è anche un prestidigitatore, e che, mettendo a confronto una illeterata di 50 anni che sa molto e una insegnante che sa leggere e scrivere ma non sa molto altro, si interroga su quel che significa insegnare, e come siaa necessario cambiare tecniche e spirito didattico per non scodellare analfabeti sostanziali e non formali. Rosselliniano, come intento, no?


Torniamo alle signore Quispe. Siamo nel 1974, un anno dopo l'uccisione di Allende e la fine del governo popolare. Justa, la più grande e esperta (Digna Quispe), Lucia e Luciana Quispe, tre silenziose, quasi telepatiche, sorelle indios Coja, isolate dal mondo, soprattutto dopo la morte (per il freddo) del padre minatore e della sorella maggiore Maria, tra quotidiani riti secolari e inesorabili, conducono una vita durissima e introversa allevando, a quattromila metri sul livello del mare, le loro capre, di cui una cieca, bisogonsa di cure speciali, producendo e vendendo formaggi. Un anziano vicino di valle porta però un brutto giorno pessime notizie dalla città.

Tutti gli allevatori della zona stanno abbandonando via via greggi e case perché il nuovo governo ha deciso di tagliare ciò che non da profitti concentrati, e di elimare dunque tutti i piccoli allevamenti, i micro pascoli, sterminare le bestie e costringere gli allevatori non organizzati (se si organizzano li fucila) a trasferirsi in città, dove serve manodopera flessibile, non qualificata e a basso costo - 'materia prima' preferita del neoliberismo rampante - che non tollera alimentazione 'slow food' e 'a km zero'.

Il mondo crolla addosso alle tre donne. Per quanto ascetico e primitivo fosse, era il loro.  Compresa quella forma di straniamento dalla vita sociale che ha antiche ragioni (una violenza sessuale subita a 17 anni da da Justina spiega la sua chiusura a riccio, la cancellazione della femminilità sua, che contagia le altre).

Un giorno capita lassù un giovane dai capelli lunghi in fuga dai torturatori che sta per scavalcare il confine e si fa aiutare dalle donne a passare in Argentina (auguri). Lo prendono anche un po' in giro per quei capelli non ortodossi (come facevano i soldati con gli studenti di Santiago, prima di tagliarglieli). Scoprono che la dittatura sta uccidendo chiunque non si uniformi al loro volere. La paura cresce. Non fisica. La paura di qualcosa più grande di loro che sta per scomparire. Decidono che se avverrà non succederà con la loro complicità. C'è solo un modo per non essere complici... 

Sebastian Sepulveda, regista di Las Ninas Quispe
Tratto da un drammatico fatto di cronaca, diventato simbolo della mostruosità golpista dei militari di Santiago, il film è ambientato durante i tremendi mesi seguiti all'assassinio di Allende e del colpo di stato filoamericano di Pinochet, in una regione sperduta tra i monti, ai confini dell'Argentina abitata da poche famiglie di pastori.

Si potrebbe definire, senza l'ironia che userebbe Lucherini, un caprolavoro.  Una tragedia particolarmente forte appartenente a quel genere emergente (di cui Michelangelo Frammartino è stato il precursore, ma che si ricollega ai classici andini di Sanjines o ai drammi contadini della Cuba rivoluzionaria) che, più ancora di un western nordamericano, perché tocca le corde ancestrali di un popolo molto più antico, racconta, con molti silenzi e senza alcun aiuto musicale off (fossero pure gli Inti Illimani) di lotte millenarie per la sopravvivenza dei poveri contro l'arroganza armata dei ricchi o dei conquistatori (la grandezza della tradizione) e di orrende automutilazioni sessuali, la formazione della 'corazza' muscolare mutante e mutilante (direbbe Wilhelm Reich) che rende il corpo preda della repressione più invisibile ma non meno dolorosa (l'orrore della tradizione). Insomma Las Ninas è il contrario esatto di un'opera passatista, ruralista, consolatoria, arcadica o populista.

Il fatto è che una gita in montagna sull'altopiano, tra cieli e nubi gigantesche e aria cristallina, può curare il techno-immaginario di oggi, del cinefilo occidentale bombardato dagli effetti speciali e dalla lotta perenne di giganti e super eroi, di mostri contro maghi buoni.

Ma non perché ritroviamo scorciatoie esotiste e orientaliste. O perché respiriamo l'aria rarefatta, ritroviamo i ritmi vitali e umani del mondo contadino-industriale del dopoguerra neorealista che il montaggio uno/due seocndi dei blockbuster ci hanno tolto, o perché si aprono i polmoni, grazie alla fotografia da national geographic di Inti Briones.

Ma perché quei racconti davanti al fuoco nella notte, suscitati dalle cattive notizie che vengono dalla città (e portate da un vecchio amico delle Quispe che ha i capelli lunghi e bianchi, ma ai suoi le sorelle sono più abituate), e soprattutto la saga di "quando Maria si innamorò", hanno la forza destabilizzante di un affabular obliquo e sinistro di Bunuel (La via lattea) o il furore guerriero dei contadini e allevatori etiopi anticolonialisti e anti italiani di Hale Gerima (Il raccolto dei tremila anni), tracciano geometrie e raccordi neo-arcaici misteriosi e anche horror, tanto che ci sembra terapeutico contar le pecore e le capre che, forse per la crisi, stanno ripopolando le campagne e i film, ma anche rito magico. Scomparire, uscire dalla vita, come succede a Justina, Lucia e Luciana, sembra piuttosto un rito ninja. Si diventa fantasmi per essere più feroci di un guerrigliero.  

Augusto Pinochet che le voleva eliminare, è stato invece eliminato. Ecco perché è un ottimo modo, ritrovare il film, per ricordare il quarantesimo anniversario del colpo di stato e il progetto Allende. Pensando che oggi l'America Latina è più india di ieri. Si sta togliendo il laccio delle multinazionali che qui accalappia le sorelline svanite. E diventate mito vendicativo.

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