Ma il problema è.
E' un film separatista o federalista?
E come ne esce lo stereotipo del "biondino ossigenato"?
E' per la bastardaggine e la promiscuità o per la purezza apartheid?
Oppure il film è bello perché ci spiaga in soli 95 minuti cos'è il Canada e perché sta per esplodere?
Roberto Silvestri
Premessa. Il film è stato premiato a Venezia dalla Fipresci. Ci tocca prendere posizione. Voto? 5? Certo è irritantemente vecchio, prevedibile, mai sorprendente. e rileggiamo i classici, paragrofo 'il biondino' (Il cinema vuol dire... di Porro, Turroni, Rezoagli, nuova edizione pag. 37):
Nel cinema italiano, il "biondino" (non il biondo che è un'altra cosa, può essere perfino un detective, diretto da Stelvio Massi) non è cattivo però debole, troppo debole, molto spesso legato alla madre, e con tendenze omosessuali. E' troppo fine, delicato e femmineo. I bruni sono forti e tutti d'un pezzo. In Ritratto di borghesia in enro (1978) di Tonino Cervi, Christian Borromeo, il figlio di Senta Berger, non solo è un po' innamorato della madre, ma anche concupisce le grazie fredde e distanti dell'amico Stefano Patrizi. Il peggio è che, anche, egli è non solo biondissimo, ma ha anche occhi azzurri...Il biondino 'ossigenato' fa parte di una casistica da film 'nero' o 'giallo': può farsi pestare emettendo gridolinistrazianti (brevi, però, rassegnati) dall'investigatore o dal poliziotto. E' imlicato in traffici di droga e tenero e devoto amico di passeggiatrici sagge e dolorose.
L'orrendo Putin sputerebbe epitetti più volgari. Ma avrebbe torto. Nell'omosessualità latente e patente tra biondino ossigenato e bruno palestrato ci sono proprio le intuizioni più sorprendenti di questa opera quebecoise (cioé menscevica, di minoranza). E se fosse l'apertura sessuale, e non la sua separazione, il grimaldello giusto per aprire delle porte e delle finistre colpevolmente chiuse?
Infatti. Il viaggio del cugino Tom possiede proprio qualcosa di speciale, come un fraseggio di Django Reinhardt. Di inquietante. Di apocalittico. Ma anche di fuoriuscita da un incubo leghista. Non chiude le cose. Profeticamente inquieta, è apocalittico, non integrato. Tende a dirci, nella sua metafora light: tra poco questo paese si spaccherà in due. E non deve. E' inevitabile. Ma va contrastato. Non basta l'attrazione fatale e storica per 'il diverso'. Oggi l'identico, l'identità, le radici, il sangue pretendono arrogantemente di prevaricare l'altro, il diverso, l'altro. O di separarsene. Peccato, il Canada, è l'unico paese al mondo di lingua francese e inglese. Un unicum. Ma i francofoni non amano l'anglofono e viceversa. E così qui si radiografa il campo magnetico di attrazione e repulsione tra un uomo e il suo (apparentemente) opposto.
Bisognerebbe conoscere meglio le sfumature artistiche in senso lato, dunque anche politiche e antropologiche, di un paese che si esprime con un film, in questo caso il Canada che vive un problema di identità non indifferente, prima di esprimersi criticamente su un film. Non dovremmo mai estraniarci dalla battaglia delle idee e dei corpi che lì dividono, come ovunque, progressisti da conservatori, rivoluzionari da reazionari. Se un critico non lo sa fare, non lo vuole fare o irride chi lo fa è meglio che cambi mestiere. Non arriverà mai al cuore del lettore/spettatore e di se stesso. E sono i dettagli a contare... Senza conoscere bene come si è articolato il multiculturalismo a Toronto e Montreal, se c'è qualcuno che stia cercando di trasformarlo in feconda transculturalità, senza maneggiare tutte queste ovvietà e le profonde sfumature social cultural politiche sottintese, è mai possibile penetrare in un testo complesso come un film? Il contesto complesso dovrebbe richiedere una certa modestia prima di sparare il giudizio: magnifico o cazzata. E se il film non prende, cioé se la scienza critica ci dice che non è innovativo, non spiazza, non trasforma la godardiana 'notte in luce', che è noioso, che è pieno di banalità autoriali, mentali e iconiche (che sono identiche alle ovvietà hollywoodiane, altrettanto insopportabili, ma molto più trombonesche)?
E passiamo al film, di tendenza.
La tendenza sociale più cool (Bala Tarr insegna) per un solitario drogato di metropoli è: abbandonare le città inquinate e tornare ai lavori nei campi, magari - ma qui Bela Tarr non sarebbe d'accordo - con trattori posmoderni ad aria condizionata. La gran moda è il chilometro zero e l'agriturismo. O almeno risciacquare i panni mentali regalando ai sensi altri sapori, odori e odoracci. Ma attenzione. Certo non mancheranno i problemi, l'avventura, addentrandoci nel provincialismo rurale, è rischiosa.
Una scena di Tom a la férme |
E la tendenza stilistica? Una tensione pronunciata verso lo sfilacciamento dei generi (in questo caso mélo, thriller psicologico, road movie...), con libertà di fraseggio totale. Con scene basate sull'improvvisazione documentaria, sulla cattura del sapore dell'istante, ma 'preso a pugni in faccia' da sciabolate improvvise di incandescenza espressionista (che poi non è altro che la stratificazione storica della memoria e del passato sul presente, fino a deformarlo, sformarlo).
In questo film sulla sindrome di Stoccolma (quando il violentato ribalta in sentimento positivo, fino all’amore, il suo rapporto nei confronti dell'aguzzino) che è una sorta di horror-ombra, di gore-movie non consumato, in concorso a Venezia e poi girato nelle rassegne di Roma e Milano, alcune scene sono di incandescente rottura espressionista: l'improvvisa colluttazione, quasi horror, a letto, nel cuore della prima notte in campagna, con l'eroe aggredito dall'anti-eroe. O la brutale aggressione immaginata perché a porte chiuse, ma di identica prepotenza acustica, nella toilette, il giorno dopo (con tutto quel che significa il segno cesso pubblico nella guerra di indipendenza gay). O quella lunga sequenza quasi realista-socialista tra le spighe di grano, con l'inseguimento, l'ennesimo (gradito) pestaggio, il perverso gioco sado-maso/omo-macho. Immaginatevi Monet alle prese con un quadro che vorrebbe fare 'alla Kokoschka' per avere un'idea di cos'è Tom a la férme e la sua diversità...
Xavier Dolan dirige se stesso |
Dal romanzo di Michel Marc Bouchard, ecco un caprolavoro annunciato, set l'aspra campagna canadese grigio verde, tra trattori, frumento e allevamenti moderni di mucche e pecore. Lo scontro, l'abisso, l'incomunicabilità culturale tra radicali di sinistra con tutte quelle loro idee strane sulla vita e conservatori terragni eredi di una antica e iscalfibile tradizione familiare cristiana e patriarcale. Anche se il pater familiae è assente. Vincerà la birreria di campgna o l'happy hour con il Vodka Martini? Prevarrà il corpo o la mente?
Così ecco che uno stragay di città, giovane pubblicitario rampante, efebico e biondo phonato (è lo stesso regista e sceneggiatore Xavier Dolan, di Montréal, Quebec), è spaesato e anche un po' incazzato, quando arriva in questo piccolo mondo antico con la sua auto nera. Ma deve farlo. Il giorno è speciale. Deve dare l'ultimo addio al suo unico grande amore.
Sembra fragile, il ragazzo, ma è ostinato, si piazza nella casa vuota e, come fosse in un film noir, aspetta in poltrona, nella penombra, l'arrivo dei suoi proprietari, poi si presenta alla padrona di casa, e passa la notte lì. C'è un funerale in corso. "Sono un amico del defunto".
Il cittadino ritrova i sapori dei campi rudi e brutali e affronta e poi conquista, a poco a poco, il 'maschio locale' più prepotente e manesco della zona. Che, guarda caso, è il fratello omofobo del suo amante, morto di aids, di cui si è appena svolta, appunto, la cerimonia funebre. Il fratellone lo odia e vuole controllarlo perché non rompa l'equilibrio infettando la comunità con comportamenti sessualmente eversivi e idee eretiche.
Non deve dire di essere stato l'amante del morto. Ma deve raccontare com'era felice in città con quella dolce ragazza che voleva sposare per fabbricar eredi anche se, accidenti, come mai, cos'è successo?, lei non si è presentata alle estreme esequie addolorando mamma. Roba da matti. Meglio scappare. Scappa. Ma poco dopo ritorna. Siamo fatti strani dentro.
Per proteggere la salute mentale e la tranquillità psicologica della signora e l'onore della famiglia tutta il cittadino accetta di diventare la marionetta del campagnolo che gli impone un comportamento impeccabile. Se no botte. Dovrà fare il suo discorso funebre commuovente ma 'asessuale'. Dovrà dilungarsi sul rapporto d'amore con quella fidanzata bella e adorabile. Dovrà poi prendere la sua automobile e sparire per sempre.
La mamma non dovrà sapere nulla. Ma il tempo passa, l'automobile resta posteggiata nel cortile, i due ragazzi fraternizzano, si fanno una birra insieme, e addirittura si mettono a ballare un tango consensuale in fattoria. L'ospite dimostra che c'è addirittura un certo feeling tra effeminatezza gestuale e spirituale e perizia nel trattamento delle mucche e degli stalloni. Non si finisce mai di imparare. Non è un caso che Judy Dench in Filomena, nella scena madre del film, quando tutti vogliono proteggerla dalla notizia che il suo caro figlio morto fosse gay, rompe gli indugi e esclama: "ma certo, me n'ero accorta, non a caso indossava la salopette". Il tipico indumento del rude contadino, del serial killer dei belt countries in ogni slatter che si rispetti.
Xavier Dolan (a sinistra), il 'cattivo' Pierre Yves Cardinal (a destra) e Lise Roy |
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