Nel trentesimo anniversario della sua scomparsa ci saranno certo, da ora in poi, molte iniziative e manifestazioni per celebrarlo. In Italia e nel mondo (è stata dopo Dante Alighieri il più tradotto dei nostri narratori). Ma quest'anno, nel novantesimo della nascita, non sembra che la prassi intellettuale di Calvino sia molto ricordata. Anche se, recentemente, in due preziosi volumi, Vito Santoro, e prima ancora, nel 1990, Lorenzo Pellizzari si sono accostati a Calvino in maniera differente, partendo dal cinema per arrivare alla letteratura e alla saggistica e svelare il mistero di una scrittura unica, contaminata e multimediale ante litteram.
Calvino sarà infatti ricordato prima di tutto come grande scrittore, di fiction e di non fiction, svezzato da Cesare Pavese e Elio Vittorini e traghettato nel pieno del boom economico, in una modernità a parte, al di là del Gruppo 63 e al di qua del neo-populismo pasoliniano, perché capace di arcaismi ancora più arditi. E non chiamatelo mai scrittore di favole. Ma anche. Come partigiano comunista che rischia non poche volte la pelle. Come manager dell'editoria, per i lunghi anni passati all'Einaudi, protagonista di una stagione aurea della nostra industria culturale prima che Mondadori la risucchiasse con metodi pare gangsteristici. Come giornalista, celebre per i suoi viaggi 'esotici' raccontati su Repubblica, diretta dal suo ex compagno di banco Eugenio Scalfari (meno partigiano di lui). Come profeta di una urbanistica a venire, ancora invisibile, indocile alle città invivibili che la speculazione edilizia democristiana ci impose, eppure ancora capace di trovare nello squallore più totale quell'angolo di delizie, perfino a Detroit o a Scampia. Come 'cantautore popolare' di lotta (fu tra gli animatori del movimento di risarcimento musical-popolare Cantacronache) e reinventore di Mozart. Come ex intellettuale impegnato nel Pci e ancor più impegnato quando lo lasciò (aveva cercato perfino di far iscrivere al partito dell' 'antitesi operaia' l'indocile Fruttero...), sempre capace di maneggiare le affilate armi della critica anche quando si considerava molto più dirompente e perfino più violenta e sanguinaria - e non era vero - la critica delle armi. Come fonte di ispirazione per architetti, pittori, scultori, fotografi, botanici, cartoonist...
Ma anche come spettatore di cinema, fanatico della Hollywood anni trenta e quaranta, cineclubista, critico e cineasta, a suo agio sia nel documentario che nella finzione, purché mai noiosi e drastici (Straub fece Pavese senza la sua autorizzazione), che esordì come penna del Cinema nuovo aristarchiano, come cronista dell'Unità di Torino (al fianco di Novelli e Crispino) spedito tra le mondine del vercellese set di Riso amaro di Beppe De Santis, di imprinting e cultura neorealista, proprio come neorealista fu il suo primo romanzo, una eredità in fondo in fondo mai veramente tradita. Il cinema fa molto bene alla letteratura. E viceversa. E forse con il passpartout del cinema neorealista anche certi segreti della sua scrittura saranno svelati....
Sia perché proprio a causa di quel 'neo' ogni, anche la più spericolate, variazioni di senso (e - Mario Mattoli aggiungerebbe - e di pesante ironia) è permessa, sia perché, come ricordava Roberto Rossellini, nessuno è riuscito ancora bene a definire a parole cosa fu il neorealismo, al di là di un desiderio collettivo di cambiamento sociale radicale, di uno stile di vita etico, della scoperta dello 'sguardo individuale', mai più embedded, in sintonia con il noir-realismo nordamericano di Chandler e Cain.
Per un momento, dal 1945 al 1948, il cinema italiano diventa essenziale, aspro, crudele, libero, aperto, horror, criminale, etico, senza orpelli né trombonate, e mai moralista, il numero uno, proprio come il cinema hollywoodiano d'era rooseveltiana, anzi l'unico cinema dotato di 'grande struttura', che inventa un mondo, che apre ad altre 'dimensioni del mondo'. Poi sarà bene non avere più nulla a che vedere con Cinecittà impossibilitata perfino a lavare i propri panni sporchi.
Infatti poi, come scrive Lietta Tornabuoni, i suoi rapporti con il cinema italiano 'mainstream' furono sempre piuttosto patafisici per un intellettuale 'potente' e mai drop-out come lui:
«È uno degli scrittori che direttamente meno hanno contribuito al cinema italiano: qualche collaborazione a sceneggiature, qualche soggetto [...]. Ma è forse lo scrittore italiano che più ha anticipato nella propria opera l’immaginario, le fascinazioni, le tendenze del cinema internazionale contemporaneo: il mondo medievale rivissuto con ironia, l’universo magico ripetitivo e fatale della fiaba, le cosmogonie fantastico-scientifiche, le città del sogno tra Oriente visionario e megalopoli moderna, la narrativa come processo combinatorio di elementi preesistenti, la narrazione come forma compiuta che è possibile scomporre giocando col racconto come con gli scacchi».Sarà stato l'internazionalismo di famiglia, l'orrore per la politica della bigotta dc di emarginazione del paese dal flusso vivo della cultura (esistenzialismo, beat generation, angry young man, be-bop, nouvelle vague, nouveau roman, akzionismus austriaco, musica post dodecafonica...sono tutti movimenti peccaminosi), la presa di attenta distanza rispetto alle pratiche delle neoavanguardie letterarie (che pure pubblica su Einaudi) che stanno perdendo il gusto antico dell'intreccio narrativo, per sostituirlo con procedimenti formali urlati e complicati come gli assolo del free jazz, salvo poi ritrovarlo, recuperare la melodia, con il distacco e l'ironia snodabile del postmoderno (Umberto Eco lo teorizza adesso: il gruppo 63 si preparava già a In nome della rosa...). Gusto dell'intreccio e della melodia che invece Calvino (incapace di marciare a tempo) non perdette mai, salvo applicarlo a percorsi narrativi bastardi e multipli, complicarlo raccordandolo alle altre arti e alle scienze mutanti, ben al di là del romanzo, verso una prefigurazione sinestetica e transartistica del cinema e del digitale futuro...Ma fino al primo governo di centro sinistra, e ai socialisti al potere, fino al 1960 Calvino si tiene bene alla larga dalla commedia rosa e dai sub-generi provinciali dominanti, concedendosi poi a ben pochi registi 'a parte': Zac, Monicelli, Quilici, Bennati, Maselli, Di Carlo, Manfredi, Vanzi...
Narratore, saggista, critico, teorico, cosmonauta dell’immaginario, soggettista e sceneggiatore,
documentarista, intellettuale impegnato nella battaglia delle idee e “giocatore” negli apparati
culturali, punto di riferimento vitale per i cineasti del XXI secolo, gli esploratori della “verità nella
vita globalizzata”, tre anni dopo Bologna e l'omaggio che gli fece la Cineteca (e Fofi), dimenticandosi però i due film di Carlo Di Carlo (bolognese), Italo Calvino sarà al centro di una retropettiva cinematografica all'interno di una mostra in progress (In viaggio con Calvino) iniziata a Roma nel giugno scorso (all'Acquario).
Al cinema Trevi, dall'1 al 5 ottobre, verranno perciò scodellati, nel novantesimo anniversario della nascita, una ventina di film a soggetto “calviniani”, cartoon, corti, opere neo-post-realiste, e anche doc, doc industriali, o storici o geografici, pellicole ispirate ai suoi scritti, comprese alcune, come L'uomo fiammifero o Domani accadrà, che hanno con Calvino un rapporto di scambio a distanza, diretto o obliquo. È il Calvino già polemista, che è in attesa del Sacro Gra che, parola di Gianfranco Rosi, proprio alle Città invisibili è ispirato. La rassegna è organizzata dall'IXCO (Istituto Italiano per la Cooperazione o.n.g.), dalla Casa dell’Architettura, dalla Cineteca Nazionale e dall'Archivio Nazionale Cinema d’Impresa. Non ci saranno purtroppo alcune perle calviniste: il lungometraggio Palookaville di Alan Taylor (Usa, 1995) liberamente ispirato a Calvino tutto e in particolare al racconto breve "Furto in pasticceria" da Ultimo viene il corvo (da cui è tratta anche l'idea centrale di I soliti ignoti), L'avventura di un fotografo mediometraggio di Citto Maselli (1983) e Ti-koyo e il suo pescecane di Folco Quilici (1962) ispirato al romanzo di Clement Richter, e sceneggiato da Calvino, per problemi di reperimento o stato di conservazione delle copie.
La reperibilità you tube di L'Italia vista dal cielo, e in particolare la nona puntata sulla Liguria (una ricognizione - molto poco lineare, in elicottero che è antropologica, geologica, storica, botanica, sociale e archeologica nello stesso tempo - della nostra regione morfologicamente più strana) di Folco Quilici, testo di Italo Calvino, del 1973, permetterà a chiunque, poi, a casa, di costruirsi una sua rassegna calvinista, perché negli ultimi anni sempre più cortisti, da tutto il mondo, hanno affrontato e diffuso in rete i testi del nostro scrittore, quelli più 'combinatori' e di scatenata reversibilità temporale, che hanno avuto una influenza postuma straordinaria e planetaria anche nel cinema fantascientifico ad alto budget e ipertecnologico (da Matrix ai fratelli Wachowsky, da Lynch a Cronenberg, da Niccol a Gilliam, da Ferrara a Greenaway). Basta ricordarne alcuni: Nancy King (Usa, 2006) con Solidarity, Yu-Hsiu Camille Chen con Conscience (Australia, 2010); Kevin Ruelle, con The false grandmother (Usa); Calvino e Dani con Zobeide (Usa, 2010), Ana Luisa Liguori con Amores Dificiles (Messico, 1983), Philippe Danzelot con L'aventure d'une baigneuse (Franca, 1991), Stelios Rogakos con Efprosopo katafygio (Grecia, 1990), Ergin Cavusoglu con Voyage of no return (Turchia) e Gabriel Bitar con A Citade e o desejo (Brasile)....
Oggi, a quasi 30 anni dalla morte
dello scrittore più cinematografico e magico-fantastico del 900 una animatrice
israeliana, Shulamit Seraty, non può esimersi dal trovare The
distance from the moon, tratto da Le Cosmicomiche,
una perfetta metafora per raccontare Israele oggi, ipotizzando un
pioneristico esodo, single magari, che tuttora attrae chi vuole cercare una
terra (o una luna) promessa, senza dover per questo cacciare di casa chi vi
abita. Il viaggio senza meta, quello nel quale il paesaggio mangia divora e annulla il viaggiatore, che non sarà più quello che era, che mette in moto un processo di mutazione irreversibile, insomma il road movie, è già, e prima del Sorpasso di Risi, nel dna di Calvino.
Lo sanno bene i documentaristi, Roberto Giannarelli e Damian Pettigrew, che stanno appassionandosi sempre più alla sua geografia on the road, e oltre,
mentale e biologica, libera e etica, che scavalca i confini del pianeta e si fa
stellare, preistorica, addirittura precellulare.
Una geografia che parte da Cuba - un
giardino che il Wwf oltre che l’Unesco, dovrebbe tutelare - con i suoi antenati
‘acquisiti’. E poi va su e giù nell’America, non solo latina, con il suo cristianesimo ‘altro’, un
pensiero unico che si vivifica di rivolta, rabbia, urla, occupy, anonymus (lo
capiremo rivedendo il dimenticato e attualissimo America paese di dio). E in
Giappone, paese che più riclicla parte della sua immensa tradizione culturale
come missile spirituale di immensa potenza per disegnare un futuro non
sciovinista (Miyazaki, per dire un nome)…
E torna indietro nel tempo, fin nella preistoria stellare e pre
stellare, riletta in chiave scientifico-evoluzionista, quasi fosse già un gioco
di neuroni-specchio a tracciare le peripezie del cambiamento, della
metamorfosi, da atomo a pesce da dinosauro a scimmia a umano, con un Darwin che è
contemporaneamente osservatore del soggetto indocile e ribelle, feroce e unico,
però incapace di salto, di imporsi come il più forte, senza aggregare forze collettive che
acquistano potenza solo nella reciproca assistenza. L'evoluzionismo non premia affatto il piu' forte single spietato, ma il general intellect della solidarietà....
Siamo sulle soglie di un
liberalismo altro, ancora da inventare, e lo scienziato anarchico Kropotkin, hobo libertario in
Siberia, l'amico di Lenin, sarebbe qui molto utile da riutilizzare. E’ la sopravvivenza,
bellezza.
Al Centro Sperimentale di Roma da anni si studia
la ‘parte visuale della fantasia’, estetica, non estetizzante. Nel senso più
scientifico del termine. Quando si attivizzano tutti i sensi conosciuti e anche la
sensuale sensibilità ‘ai confini della realtà’. E si cerca di portare a
compimento un copione plausibile - non descrivere il pantano in cui viviamo, ma
viaggiare per uscirne - tratto dal Barone Rampante. E’ un vecchio pallino di
Giorgio Arlorio, l’insegnante di sceneggiatura…
Che probabilmente parte dal più agghiacciante shock visuale ispirato a Calvino, quel Visconte dimezzato (scritto nel 1952) messo in scena live nel 1964 da Gunter Brus, uno degli artisti, performer e cineasti austriaci più radicali dell'azionismo sessantottino, che trasformatosi in statua vivente gessosa, materica e spaccata in due da una riga dipinta di scuro, se ne andava per le strade di Vienna a rischio dell'arresto per offrirsi come capro espiatorio, quasi come un Pasolini sacrificale, incorporando dentro di se' la devastante zuffa di classe limitrofa, che stava pericolosamente slittando verso la fase armata della guerra civile. Che in Austria non sfociò mai nel terrorismo forse grazie anche a quella stirpe di artisti masochisti come Günter Brus che insieme a Otto Mühl, Hermann Nitsch e Rudolf Schwarzkogler, sfiorando la morte, seppero dire un grande sì alla vita. Calvino interpretato proprio alla perfezione come sacro rito, esorcismo politicamente corretto, profeta fantastico.
Gianfranco Rosi, Leone d'oro con Il Sacro Gra ispirato alle Città invisibili di Calvino |
Segnali di attualità della sua
‘patafisica’ e 'patalogica' visione delle immagini, indocili agli standard e
contemporaneamente alla ricezione schermica subumana o sovrumana di tanti
autori amati dalle nicchie o dal popolo, da Straub a Pasolini (di cui Calvino detestava Il vangelo secondo Matteo, trovandolo dilettantesco) fino al
virtuosismo postmoderno di Lynch e von Trier, perché non basta smitizzare il
mito del cinema.
Lo spettatore medio ha un che di estremista quando esige semplicemente da un film l’estasi del piacere (Niccol, Gilliam, Ferrara, Cronenberg, i fratelli Wachowski…)…Eppure sono così pochi i film tratti dalle sue opere. Monicelli, Pino Zac, Alan Taylor, Carlo di Carlo, Citto Maselli, Giuseppe Bennati, Nino Manfredi, Daniele Luchetti, e in maniera solo lontanamente apologetica, il Gianni Romoli di Fantaghirò e il Folco Quilici di Tikoyo e il suo pescecane… Ma, come ricorda Vito Santoro nel suo prezioso studio “Calvino e il cinema” furono soprattutto i racconti degli anni 50, quelli del periodo realista ad attirare l’attenzione. Oggi invece, senza neppure pensarci, sono più ‘calvinisti’ Michelangelo Frammartino, l’argentino Lisandro Alonso, l’americana Kelly Reichardt, il thailandese Apichatpong Weerasethakul e i registi dell’avventura senza bussola, del walking cinema, ma dell’antitesi, del ‘vagare alla cieca della storia d’amore’, della deambulazione labirintica da un punto all'altro, ma ad alto quoziente soggettivo.
Zero in condotta nella ‘scuola dello sguardo’, perché l’obiettivo è riappropriarsi, altrimenti, al di là dell’occhio-mio-dio, dei significati storico-sociali dell’agire nel mondo. E’ critica pratica dell’economia politica del cinema. Fu non a caso insignificante per Calvino la seduzione esercitata da Cinecittà e da quel ‘cinema italiano semi artigianale più che poco industriale’ che stava sprofondando nell’abisso. E che lo aveva tenuto stranamente ai margini del ‘grande affare’.
Calvino fu tra i pochi scrittori di successo internazionale estranei alle affollate botteghe dei costruttori di ‘commedie al vetriolo’ atte a massacrare i riti e i miti del boom, ‘crescita + disoccupazione in crescita’, avrebbe detto Mario Tronti. Intimo, interno a tutte le discussioni e polemiche collegate al dibattito sul neorealismo e su come uscirne, visto che di palazzi crollati per i bombardamenti ormai non v’era più traccia, come critico prima di Cinema Nuovo poi dell’Unità è tra i primi a compiere un detour scandaloso.
Che in Italia stesse cambiando la società, il costume, l’ambiente, l’uomo, il Calvino neorealista del ‘Sentiero dei nidi di ragno’ del 1947, se ne accorge, con crudeltà e sensibilità Qfwfq. Si esaurisce il linguaggio diretto, sostituito “da quell’amabile divertimento dell’intelligenza, che è l’ironia del dimezzamento, della sospensione, e della sottrazione del mondo” (Asor Rosa). “Noi guardiamo il mondo precipitando dalla tromba delle scale” aveva sintetizzato Calvino il saggista, attratto dalla “verità industriale”, cioè la verità della moderna società capitalistica”.
Cinefilo appassionato, fu testimone del grande rinascimento etico dei nostri cineasti post fascisti, e poi fautore di un approccio al cinema come pensiero e macchina della ‘verità della vita’, piuttosto che come ‘realtà della vita’, usando una terminologia presa in prestito da Franco Fortini. E dunque schierato con chi utilizzava il laboratorio da scienziato pazzo per radiografare l’alienazione neocapitalistica, in una Italia ormai industrial-contadina (si vedano le interviste operaie di Marcovaldo, che è un apologo sullo scontro incontro tra campgna e città) che avrebbe però perso, con il crollo sospetto della Olivetti, la sua spinta propulsiva. Alcuni rottamarono il linguaggio, anticipando il ‘salto operaio della scocca’ e buttando all’aria tutto (grammatica, sintassi, istituzioni, parentele), tra risate e scherno. Fu la neoavanguardia del Gruppo 63. Altri scelsero il linguaggio cifrato e misterioso, ma non ermetico, solo transculturale. Più Raymond Queneau che Eugenio Montale. Ed eccolo così al fianco di Orson Welles, di Antonioni, a volte, e di Fellini, quasi sempre.
Lo spettatore medio ha un che di estremista quando esige semplicemente da un film l’estasi del piacere (Niccol, Gilliam, Ferrara, Cronenberg, i fratelli Wachowski…)…Eppure sono così pochi i film tratti dalle sue opere. Monicelli, Pino Zac, Alan Taylor, Carlo di Carlo, Citto Maselli, Giuseppe Bennati, Nino Manfredi, Daniele Luchetti, e in maniera solo lontanamente apologetica, il Gianni Romoli di Fantaghirò e il Folco Quilici di Tikoyo e il suo pescecane… Ma, come ricorda Vito Santoro nel suo prezioso studio “Calvino e il cinema” furono soprattutto i racconti degli anni 50, quelli del periodo realista ad attirare l’attenzione. Oggi invece, senza neppure pensarci, sono più ‘calvinisti’ Michelangelo Frammartino, l’argentino Lisandro Alonso, l’americana Kelly Reichardt, il thailandese Apichatpong Weerasethakul e i registi dell’avventura senza bussola, del walking cinema, ma dell’antitesi, del ‘vagare alla cieca della storia d’amore’, della deambulazione labirintica da un punto all'altro, ma ad alto quoziente soggettivo.
Zero in condotta nella ‘scuola dello sguardo’, perché l’obiettivo è riappropriarsi, altrimenti, al di là dell’occhio-mio-dio, dei significati storico-sociali dell’agire nel mondo. E’ critica pratica dell’economia politica del cinema. Fu non a caso insignificante per Calvino la seduzione esercitata da Cinecittà e da quel ‘cinema italiano semi artigianale più che poco industriale’ che stava sprofondando nell’abisso. E che lo aveva tenuto stranamente ai margini del ‘grande affare’.
Calvino fu tra i pochi scrittori di successo internazionale estranei alle affollate botteghe dei costruttori di ‘commedie al vetriolo’ atte a massacrare i riti e i miti del boom, ‘crescita + disoccupazione in crescita’, avrebbe detto Mario Tronti. Intimo, interno a tutte le discussioni e polemiche collegate al dibattito sul neorealismo e su come uscirne, visto che di palazzi crollati per i bombardamenti ormai non v’era più traccia, come critico prima di Cinema Nuovo poi dell’Unità è tra i primi a compiere un detour scandaloso.
Che in Italia stesse cambiando la società, il costume, l’ambiente, l’uomo, il Calvino neorealista del ‘Sentiero dei nidi di ragno’ del 1947, se ne accorge, con crudeltà e sensibilità Qfwfq. Si esaurisce il linguaggio diretto, sostituito “da quell’amabile divertimento dell’intelligenza, che è l’ironia del dimezzamento, della sospensione, e della sottrazione del mondo” (Asor Rosa). “Noi guardiamo il mondo precipitando dalla tromba delle scale” aveva sintetizzato Calvino il saggista, attratto dalla “verità industriale”, cioè la verità della moderna società capitalistica”.
Cinefilo appassionato, fu testimone del grande rinascimento etico dei nostri cineasti post fascisti, e poi fautore di un approccio al cinema come pensiero e macchina della ‘verità della vita’, piuttosto che come ‘realtà della vita’, usando una terminologia presa in prestito da Franco Fortini. E dunque schierato con chi utilizzava il laboratorio da scienziato pazzo per radiografare l’alienazione neocapitalistica, in una Italia ormai industrial-contadina (si vedano le interviste operaie di Marcovaldo, che è un apologo sullo scontro incontro tra campgna e città) che avrebbe però perso, con il crollo sospetto della Olivetti, la sua spinta propulsiva. Alcuni rottamarono il linguaggio, anticipando il ‘salto operaio della scocca’ e buttando all’aria tutto (grammatica, sintassi, istituzioni, parentele), tra risate e scherno. Fu la neoavanguardia del Gruppo 63. Altri scelsero il linguaggio cifrato e misterioso, ma non ermetico, solo transculturale. Più Raymond Queneau che Eugenio Montale. Ed eccolo così al fianco di Orson Welles, di Antonioni, a volte, e di Fellini, quasi sempre.
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