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venerdì 27 novembre 2015

Daniele Luchetti presenta il suo film inchiesta su Jorge Bergoglio. Ma si tace sulla Guardia di ferro




La croce di ferro del Papa 

comunque si dice bergoghlio, all'argentina...


a sinistra la croce d'oro di papa Ratzinger, e a destra quella di ferro di Francesco  

roberto silvestri 


Agiografia, non agiografia? Santino? Non santino? Ieri è uscito il nuovo attesissimo film di Daniele Luchetti Chiamatemi Francesco. Lasciando non poche perplessità rispetto al progetto di Luchetti di realizzare un film-inchiesta.
E’ proprio la biografia (“veritiera” dicono però in Vaticano) sul gesuita peronista tifoso del San Lorenzo ed ex militante della Guardia di ferro che appena eletto sorprenderà tutti rifiutando la croce dorata e preziosa (preferendole non a caso una croce di vil ferro) e conquisterà i fedeli, collegando il poverello d’Assisi a Mike Bongiorno: “fratelli e sorelle, buonasera!”.
Il primo film su un Papa vivente e ridente come il Dalai Lama (Razzi era morto, L’uomo venuto dal Kremlino e Habemus Papam erano solo film profetici, per non ricordare i documentari su papa Givanni XXIII) è stato “fortemente voluto”, come ha sottolineato Piero Valsecchi, il produttore, da Silvio Berlusconi.
Il regista Daniele Luchetti 
Eppure sono ripetute e continuate le intemperanze anti papiste dei suoi organi di stampa, il Giornale del Foglio e di Libero e dei corrispettivi mezzi di comunicazione di massa televisivi (i tg di Canale 5 Italia1 e Retequattro) che fiancheggiano il terrorismo mediatico dell’estrema destra vaticana e extravaticana, contro la mina vagante dello “scandaloso Jorge” che urla contro il neoliberismo e la disoccupazione dilagante, il maltrattamento delle donne, e a favore dell’accoglienza dei profughi, contro la guerra che non è mai “di civiltà” e i lussi vergognosi dell’1% del mondo, nostalgica del pastore tedesco che li aveva condotti invece pimpanti alla guerra di civiltà contro le altre religioni (inferiori) e a quella contro i laici e i relativisti culturali che come si sa mancano completamente di Spirito. I cattolici insomma si devono rifare velocemente una identità. Anche perché, se no, scompariranno….

L'attore argentino Sergio Hernandez interpreta Papa Francesco dal 2005 al 2013

Un ambientino anti-Francesco composito, popolato da principi neri, vescovi di Ferrara (città e ex direttore del Foglio), teologi reazionari, probabili candidati sindaci di Milano, sentinelle in piedi, picchiatori, manifestanti anti Gender, sindaci eletti (!?) di Venezia e difensori di padre Lefevre e dei metodi di educazione approfondita collaudata nei secoli, altro che pedofilia! E perfino i ciellini più integralisti. Ma anche formato da certi gruppi femministi della differenza che trovavano più eco nelle encicliche filosoficamente dense di Benedetto XVI, e qualche stravagante libero pensatore di estrema sinistra, che giustamente diffida del populismo ed è sempre in difficoltà quando un soldato intelligente di Ignazio de Loyola spiazza tutti perché sembra occupare l’intero settore etico dello schieramento di sinistra…. 
Tutti gli altri, tranne questi ultimi, sono nostalgici di quando il compianto giornalista Mario Cervi poteva tranquillamente scrivere i suoi pezzi di appoggio razzista a Pretoria senza che la magistratura e l’ordine dei giornalisti intervenisse. E cercano disperatamente chi sia oggi il miglior allievo spirituale del nunzio apostolico presso Videla, Pio Laghi (quello che copriva la guerra sporca e affermava che i desaparecidos erano in realtà scomparsi ma presto torneranno) e di cui nel film, caritatevolmente, si tace. A volte i comunisti si combattono in un modo e a volte i comunisti si combattono in un altro.

Papa Francesco in una posa da Stan Laurel
A tutti costoro il film di Luchetti non piacerà. E troppo descamisado. Ma tanto non sono queste le persone che affollano i multiplex.
Ebbene, nonostante Papa Francesco sia ancora considerato dai suoi fidi alleati, Fratelli d’Italia e Forza Nuova soprattutto, “peggio di un comunista bastardo” (perché ormai non contano più nulla)il più celebre dei nostri pregiudicati e il meno infastidito dei nostri monopolisti ha intuito il grosso affare. E a proposito di Cl la "Guardia di ferro" è nato come gruppo di estrema sinistra peronista ma poi la sua evoluzione lo ha portato al centro, in polemica con le posizioni dei Montoneros e dell'eservito rivoluzionario trotskista argentino e infine nelle vicinanze di Comunione e Liberazione e della parte più cattolica di Solidarnosc. Nessuno dei suoi militanti è stato toccato dalla dittatura Videla. Da qui le note polemiche.

Un film e una serie tv di di 200 minuti su Bergoghlio (così si pronuncia in Argentina, e dovrebbe avere voce in capitolo) che smentisca le brutte voci su una presunta collusione durante la feroce dittatura militare tra lui e Videla, smantellando punto per punto le calunnie uscite a suo tempo sui due gesuiti abbandonati ai seviziatori, potrebbe essere uno strumento di propaganda fide redditizio.


I sondaggi parlano chiaro. Il Papa povero piace moltissimo. E' un sommo comunicatore. Così Berlusconi è stato felice di “sborsare di tasca sua” i 15 milioni di dollari del budget (in fondo medio basso, ma non per l’Italia). Si sarà identificato. Un lavoro lungo di riprese, 15 settimane. Una uscita italiana in 700 copie. L’arrivo in tv tra un anno e mezzo come vuole la legge. E la prevendita di un prodotto senza alcuna super star internazionale in ben 40 paesi.  Sono state impegnato le due grandi corazzate del suo impero cinematografico, la casa di distribuzione Medusa e la casa di produzione Taodue Film di Giorgio Grignaffini che ha tratto dalla sceneggiatura il romanzo della vita di Bergoglio (così si pronuncia nel film) a 17 euro, Mondadori edizione (ma potrebbe sembrare un libro Rizzoli).  Senza dimenticare che la versione lunga televisiva in 4 puntate di 50 minuti l’una non dovrebbe umiliare il buon lavoro di sintesi di Mirco e Francesco Garrone, i montatori, che sono riusciti a nascondere bene buchi e raccordi nella versione dimezzata per le sale, di 98’.
Inoltre non prendendo posizione sui due anni di pontificato che stanno sconvolgendo dal 2013 riti e miti della chiesa cattolica, oltre che l’attico di Bertone e l’intero gruppo dirigente d’epoca Ior, completamente fatto fuori da sua eminenza, ma limitandosi alla biografia precedente, soprattutto argentina, il film non potrà infastidire nessun credente, per quanto di destra sia. Ci sono in questo pontificato, anche azioni contraddittorie, comunque. Enzerberger non sarebbe troppo d'accordo sulla santificazione di preti e suore vittime della guerra civile spagnola perché nel suo libro su Durruti ci spiega che più che preti e suore costoro erano caudillos locali che tiranneggiavano da decenni i contadini sfruttandoli, trascinandoli alla fame e imprigionandoli. Già. Un caso di vendetta proletaria magari discutibilke, ma la santificazione sembra davvero esagerata. La riforma agraria. I socialisti nazionalisti sono famosi per prometterla sempre e non attuarla mai. Si analizzino le politiche di Peron e Nasser e i loro rapporti in sostanza privilegiati con i latifondisti. Dunque un po' di diffidenza per i peronisti e i giustizialisti di qualunque sponda è bene continuare ad averla. Anche qui, diffidare di chi ha il culto astratto della gente, dei sondaggi, di ciò che i "cittadini vogliono davvero" e di ciò che "ai cittadini interessa" e aizza alla galera chiunque solo perché dispone di macchine del fango efficienti, magistrati amici e mass-media... 

Ma. "Non c’è stato neanche bisogno di essere aiutati dal Vaticano. Perché tutta la storia vera, pubblica e politica, su Bergoglio  si può leggere tranquillamente su Wikipedia”. Luchetti insomma ci tiene a precisare che il suo “film inchiesta”, difficile da mettere in piedi perché non ne trovava un baricentro narrativo plausibile, poi scovato nel motivo psicologico della “preoccupazione”, vuole radiografare più la personalità intima e spirituale del futuro Papa che la cronaca della sua ascesa politico-pastorale che scandisce comunque: piccolo chimico peronista di sinistra che a vent’anni abbandona amore e lavoro e diventa sacerdote poi è promosso insegnante di letteratura nella Santa Fé di Birri (chissà se si sono conosciuti) e diventa amico del "radicale" antiperonista per eccellenza Borges (ma questa parte c’è solo nel film tv), poi è curiosamente appesantito di responsabilità come Padre Provinciale dei Gesuiti per l’Argentina, e continua a mantenere rapporti stretti con la sua organizzazione di origine, di ispirazione estremista rivoluzionaria ma che intanto si è spostata un po' al centro ed è diventata anti Montoneros (la Guardia di ferro, appunto), come si intuisce nella scena del consiglio d’amministrazione del mega-seminario in crisi economica, che lui raddrizza facendosi aiutare proprio da tre civili non ben indentificati nel film, ebbene sono propio loro, militanti della Guardia di ferro. E poi Bergoglio vede impotente assassinare amici, comunisti, rivoluzionari di altro tipo e gesuiti radicali senza poter far altro che “minimizzare al massimo le perdite”, costringendosi perfino a dir messa a Videla e famiglia pur di intercedere per i progionieri, aiutando alcuni profughi dal Cile a mettersi in salvo e organizzando un bel traffico di passaporti falsi etc… fino alla fine della dittatura, per proseguire in un molto piu’ umile il suo apostolato tra le baracche  delle periferie e delle favela, sopraffatte dal potere e dalla gentrificazione, anche in epoca Menem, fino al soglio pontificio che accetta con un grande sorriso. Nonna Rosa gli aveva insegnato a non andare mai d'accordo con i "santi tristi". 
 
Un libro dedicato alla Guardia di ferro argentina 

Mesi e mesi di sopralluoghi, per Luchetti, l’ascolto confidenziale di prelati, seminaristi, amici di infanzia e parenti, le testimonianze raccolte ovunque di tanti “nemici di Bergoglio” che gli rimproverano ancora comportamenti più che scorretti durante le persecuzioni neo-naziste, convincono il regista e sceneggiatore, giustamente, a scrivere un copione contro la lotta armata senza se e senza ma che non sembri però l’opera di un pio turista italiano di passaggio o di un brutale marine che si impadronisce di un territorio sconosciuto per far propaganda. “Per questo ho chiesto aiuto a uno sceneggiatore argentino, Martin Salinas “. Che ha lavorato con Cuaron e ha scritto Nicotina, El embruyo e Gaby. Da reference system.  
Dalla conferenza stampa (anche in collegamento con Milano) di qualche giorno fa si è scoperto che Luchetti non è diventato credente durante le riprese, “ma adesso credo di più in chi crede”. Che si è trattato di una "missione impossibile" per il produttore Pietro Valsecchi anche all'interno di una carriera che pure ha sfornato un Ambrosoli e un Borsellino. E, continua Valsecchi "il film sarà proiettato in Vaticano con platea a inviti di 7000 poveri e bisognosi". Che il regista si è più che altro ispirato a The Queen e a quel tipo di cinema inglese sulla storia, “asciutto, che va al cuore delle cose” e che però un po' apologetico, poco sottilmente, lo è sempre. 
Allora il problema è proprio il cuore delle cose. L’interiorità di Bergoglio. Con i suoi scatti nervosi da generale gesuita capace di mandare al diavolo una suora peggio che un fascista una donna. Con i suoi difetti e errori e gesti sempre così ben misurati. Per esempio il papa - dicono gli intimissimi - non alza le mani al cielo in modo plateale, e fa colazione mangiando in piedi frettolosamente una banana. Qui invece si fa la zuppetta nel caffèlatte, in attesa del conclave. Non c’è piedistallo. Non c’è apologia. Non c'è culto della personalità. Bene. 
Ma se il film è un film inchiesta non ci siamo. Il vero nodo interiore della biografia di papa Bergoglio è il suo rapporto politico con il movimento da cui è nato e che continua tutt'oggi. Il suo peronismo, versione Guardia di ferro. Certo. Il nome è orrendo. E’ quello della organizzazione fascistissima rumena di Codreanu. Ma si tratta di una pura omonimia, anche se inquietante. In realtà il gruppo è stato fondato nel 1961 dal gallego Alejandro Alvarez, come organizzazione giovanile del Comando Superior Peronista, ala sinistra del movimento e per lo più agì nella clandestinità. Dopo il breve ritorno in patria, dall’esilio nella Spagna franchista durato 18 anni, dell’ex leader nazional-socialista, tra il 1973 e il 1974, si assistette però a una imprevista sterzata a destra della sua politica già funestamente nazional-socialista anche se orgogliosamente anti- americana. Peron tra l’altro appoggia il golpe di Pinochet stupendo gli anti americani e spinge sempre più l’ala sinistra del movimento, i Montoneros (un gruppo di ispirazione cristiana) all’opposizione e nelle braccia della lotta armata di difesa, contro i primi gruppi fascisti organizzati (la tripla A, per esempio, Allenaza Anticomunista Argentina). Gruppo paramilitare protetto dai poteri forti della marina dell'aviazione e dell'esercito (e collegato pure alla estrema destra giustizialista dell'ambiguo “stregone” José Lopez Rega), responsabile tra l’altro del massacro di Elzeida, dove una bomba in aeroporto uccise 13 persone e ne ferì circa 400 mentre Peron rientrava in patria. 
Dopo l’assassinio nel 1973 del sindacalista peronista "burocrate" Rucci, a lungo osteggiato dai Montoneros, e prima ancora in polemica con l’esecuzione nel 1970 del generale Aramburu, responsabile del golpe anti Peron del ’55,  la Guardia di ferro polemizza sempre più duramente con le posizioni favorevoli alla resistenza armata, si sposta verso il centro e assume una più forte connotazione religiosa, giungendo nella sua ultima fase ad avere rapporti stabili, per iniziativa di Alvarez con Comunione e Liberazione (ma anche Jaca book aveva una sinistra) e con Solidarnosc (idem), anche grazie all’intermediazione di Rocco Buttilione e di Jorge Bergoglio. Il gruppo si scioglie nel 1974, dopo la morte di Peron, ma cambia nome, resta coeso e appoggia Isabelita fino al colpo di stato del 1976. Durante la dittatura i dirigenti della Guardia di ferro sono salvati grazie a buoni rapporti con i vertici della Marina militare e anche alla capacità diplomatica, alla Richelieu, di Bergoglio. Come vediamo nel film.
Insomma il duello all'ultimo sangue fu tra due linee interne al paese e anche interne ai gesuiti, tra chi era vicino alla teologia della liberazione e a Camilo Torres e chi era con Bergoglio. Anche se nel film non si dà mai la parola alle posizioni. Per esempio a quelle di José Miguez Bonino, il prete protestante che stava pericolosamente intaccando, a favore dei protestanti, il monte fedeli cristiano....O a Marcella Althaus-Reid (l'importantissima teologa queer). C'è molta attenzione, giustamente, alla strategia promozionale della chiesa cattolica, specialità gesuitica. E in un interessante duetto viene rimproverato da un superiore a Bergoglio il suo desiderio di evangelizzare il Giappone. "E' vero che i cattolici giapponesi sono scesi in poco tempo da un milione a mezzo milione, ma tu sei più utile qui perché li faresti scendere a 50 mila". Aveva ancora bisogno di crescere, gesuiticamente. Ma i due gesuiti di estrema sinistra che lo combattono (e che verranno espulsi dall'ordine e dunque subito imprigionati e torturati) appaiono nel film i soliti giocondi utopisti idealisti votati alla morte certa che non vogliono lasciare la loro favela anche se armi e mitra furoreggiano. Il che non fu. 
Quello scontro divide in due ancora la società argentina, l'1% di potenti di Baires e il 99% di argentini sotto comando, e i neoliberisti, come il neopresidente pericolosissimo Macri ne approfittano di tanto in tanto per dare duri colpi ai ceti più indifesi. Tanto che peronismo e giustizialismo ormai sembrano solo sinonimo di Argentina. Una parola che ha perso ogni connotazione di classe.
Bergoglio che arriverà all’Arcivescovado dopo aver operato molto in favore dei militanti perseguitati di sinistra durante la dittatura, come si vede nel film (tra questi “Tito” Bacman, l'unico militante della Guardia di ferro fastidioso perché amico di molti montoners) mantenne poi sempre relazioni strette con il suo movimento, diffondendo anche in ambienti vaticani il pensiero della filosofa peronista e “guardista” Amelia Podetti  che distanziandosi dalla razionalità illuminista prospetta l’unità della fede e della ragione, contestando quest’ultima come unica categoria nella costruzione della conoscenza  (cfr la lettera enciclica di Papa Giovanni Paolo II “ Fides et Ratio” ). Bé, certo, un po' di intuizione e di amore per la ricerca ci vuole. Basterebbe leggere Dialettica dell'Illuminismo di Adorno.
Insomma un film inchiesta serio avrebbe avuto bisogno di spiegare di più quella spaccatura in seno al peronismo. E soprattutto analizzare se le posizioni di destra e di centro moderato (lo è mai? a me sembra estremista il "centro moderato") del movimento abbiamo favorito l’avvento della dittatura militare e della “guerra sporca anti sovversiva” ben più della trappola tesa dai settori oligopolistici e filoamericani di Buenos Aires e chiamata resistenza armata Montonerso o Erp (l'organizzazione armata clandestina comunista-trotzkista).  

Una rete di nodi storici ancora da sciogliere. Ecco la “preoccupazione” come chiave del mosaico di Luchetti. Preoccupazione che per esempio in America Latina il film possa non incassare un centesimo. Non a caso molta parte magico- irrazionale del film è dedicata a un santino che il gesuita Bergoglio distribuisce qua e là ai bisognosi di ultra-conforto (per esempio agli occupanti di una baraccopoli del centro di Buenos Aires che secondo il film verrà salvata da Bergoglio, mentre secondo la storia verrà immediatamente rasa al suolo e offerta in dono alle grande compagnie palazzinare appena Bergoglio uscirà dalla inquadratura). Segnamoci il nome di questa preziosa immagine sacra. Può essere utile. E' il santino della madonna dei nodi. Una Maria Santissima che scioglie i nodi si può ammirare anche in un dipinto del 1700 ad Asburgo, in Germania. Vestita di rosso è concentrata sul compito che le è assegnato: sciogliere i nodi grossi e piccoli di un nastro bianco aggrovigliato offertole dal fastidioso angelo di sinistra. Ma ecco che lei scodella il nastro, ormai libero e liscio, all'angelo di destra. La Madonna sta serena.

mercoledì 11 dicembre 2013

Ancona capitale del cinema breve. Corto Dorico X



Corto Dorico (9-14 dicembre), anno dieci, è un festival del cinema breve (tra i più importanti d'Italia) che si svolge a Ancona, al Teatro Sperimentale, ed è organizzato (con il contributo di enti locali e sponsor privati) dall’associazione Nie Wiem, espressione polacca per dire ‘non so’, perché l’esplorazione, il dubbio, la ricerca dello sconosciuto sono le idee forza di questa manifestazione e anche di una rivista, Argo, che ha appena pubblicato il fascicolo monografico n.18, titolo H2O, dedicato all’acqua, bene comune messo a rischio da privatizzazioni e avvelenamenti (con saggi di filosofi, poeti, ecologisti, fotografi, scienziati e artisti e con scritti, tra gli altri, di Erri De Luca, e Ugo Mattei e immagini di Carlos Solito).

Maurizio Nichetti
Proiezioni il 13 e 14. 15 i film in concorso (2000 euro in palio, più premi minori), otto nella sezione a tema libero e sette a tematica sociale. Simone Massi, uno dei nostri cartoonist più raffinati e apprezzati ha disegnato il manifesto del 2013. La giurie è composta dal regista Maurizio Nichetti, dall’attrice Elena Radonicich e dallo scenografo Giancarlo Basili; la giuria stampa da Andrea Chimento (IlSole-24ore), Giulio Sangiorgi (Film Tv e Gli Spietati) e Mariuccia Ciotta

Daniele Gaglianone
Supporter speciali del festiva, ‘numi dorici’, Daniele Ciprì, Toni Servillo e Steve della Casa.
Gli 8 corti a tema libero in finale sono Cloro di Laura Plebani; Ehi muso giallo di Pierluca Di Pasquale, Un uccello molto serio di Lorenza Indovina, 37°4S di Adriano Valerio, Anna di Diego Scano e Luca Zambolin, Silvio. Here I am di Mattia Coletti e Carlo Migotto, Ce l'hai un minuto? di Alessandro Bardani, La legge di Jennifer di Alessandro Capitani.

Giancarlo Basili
I 7 corti finalisti a tema sociale: Settanta di Pippo Mezzapesa, Prendere i cinghiali con le mani di Corrado Ceron, Matilde di Vito Palmieri, A passo d’uomo di Giovanni Aloi, Try and see di Giacomo Pecci, Dreaming apecar di Dario Leone, More than two hours di Ali Asgari.

Elena Rodonicich
Lunedì 9 dicembre, ore 21.15 al Cinema Italia, A Mao e a Luva. Storia di un trafficante di libri il documentario di Roberto Orazi sul potere della lettura nella favela brasiliana di Recife (in concorso al Festival di Roma 2010).

Mercoledì 11 master class in regia di Daniele Gaglianone che incontra gli studenti dei Licei cittadini e, alle 20.45, la proiezione di La mia classe (2013), con Valerio Mastrandrea, al Multisala Goldoni. Il festival di Annecy ha assegnato a Gaglianone il Premio Sergio Leone 2011 per l’opera omnia. 

Giovedì 12, ore 18, il cinema in libreria, alla Feltrinelli di corso Garibaldi, dove i critici cinematografici Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri (quest’ultimo già ospite, come giurato, a Corto Dorico 2011) presentano Il film del Secolo, la storia del cinema intrecciata, inebriata e intralciata dalla Storia e dalla politica, di cui sono autori insieme a Rossana Rossanda. 

Venerdì 13, omaggio a Maurizio Nichetti con Stefano Quantestorie (1993), alla presenza del regista-attore (ore 18, Teatro Sperimentale): un film comico e dissacrante, tra cartoon e realismo poetico, con sfumature malinconiche sui possibili (ma ormai mancati) destini del protagonista.  Alle 21, seguono proiezioni e premiazioni dei corti finalisti a tema libero.

Sabato 14, omaggio a Giancarlo Basili con Anni Felici (2013) di Daniele Lucchetti, alla presenza dello scenografo marchigiano che ha creato gli ambiente per una rilettura “solare e trasversale” degli anni Settanta (ore 18, Teatro Sperimentale).
Alle ore 21, proiezioni e premiazioni dei corti finalisti a tema sociale.
Ore 24 al MaVie di via Pizzecolli 3, “10 Years Party” per chiudere il festival e festeggiare il doppio compleanno di Corto Dorico e dell’associazione Nie Wiem. L’ingresso è libero, il brindisi offerto.

lunedì 14 ottobre 2013

La fantastica storia della mia famiglia. Anni felici di Daniele Luchetti


Angelique Cavallaro e Kim Rossi Stuart in "Anni felici"
Roberto Silvestri


Anni felici, la nuova opera di Daniele Luchetti, “fatti finti, sentimenti veri”, è ambientata a Roma nell’estate del 1974. Il divertissment semi-autobiografico (anche Caterina Venturini è alla sceneggiatura), che è un dramma domestico agrodolce e ha non pochi momenti di cupezza, si può permettere una certa libertà di fraseggio e delle ironie contenute sulle miserie e sulla grandezza dell’immaginazione al potere, che caratterizzò quell’effimero frangente di storia, perché racconta, in prima persona singolare maschile, con leggerezza, invidia, un po’ di back to the future, crudeltà e  forse del sarcasmo triste, la storia fantastica e sempre in bilico di se stesso e della famiglia Luchetti, papà mamma e due figli, guidata, fino a un certo punto, perché il femminismo stava arrivando al galoppo, e picchiava come cosacchi, dall’artista estremo, ‘marchigiano di Roma’, impersonato e reinventato con la solita sottigliezza sguaiata, anche se il nome nel film è diverso, ‘Guido’, da Kim Rossi Stuart.


Micaela Ramazzotti, Samuel Garofalo e Niccolò Calvagna in Anni felici
Il vero papà di Daniele si chiamava Luca, era scultore soprattutto di monumentali opere religiose, ma pittoricamente molto più spericolato, fino a sfiorare l’happening più conturbante, e morì giovanissimo nel 1993. Il film sembra un po’ il remake a colori e con molte più donne nude (perché erano gli anni di Escalation, Ultimo tango e Nude at the Restaurant), e senza intenti sovversivi (Rulli e Petraglia al copione ne sono una garanzia) di Morire gratis, l’opera unica di Sandro Franchina, uno dei pochi thriller ambientati nel mondo dell’avanguardia romana, protagonista Franco Angeli, a cui Kim Rossi Stuart deve aver risucchiato non poco nel tono, nella voce - ma qui balbetta - e nei gesti (droga a parte, ma credo che Cattleya non avrebbe permesso) per delineare la soggettività desiderante di quelle stagioni estremamente estremiste ed edoniste e l’annoiata operosità di una personalità di labirintico candore. Che voleva, ma non poteva, essere dark (e qui si ruba qualcosa, ma nello sguardo registico obliquo, si ode anche il mormorio romanaccio di Alberto Sordi).


Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti
La differenza è tutta nelle loro automobili. Quella di Kim viene presa a calci dai ragazzi perché è uno scassone di utilitaria immobilizzata ai piedi di Regina Coeli, e trasformata in lamiere da gioco (è il momento più alto dal punto di vista della performance d’arte di tutto il film, litigio con la trasteverina compreso). Quella di Franco Angeli, stracolma di polvere di stelle, era una spider degna del Sorpasso che volava vertiginosa al centro del più turbinoso dei momenti rivoluzionari, in pieno 1969. Ma come film in costume tanto di cappello allo scenografo (al parrucchiere un po’ meno) per le auto i pantaloni scampanati e le camice a fiori.  


Daniele Luchetti
Anni felici è un film, più che recitato, giocato d’azzardo da un poker di attori affiatato: Guido e Serena, marito e moglie trentenni (Kim Rossi Stuart, nervoso e ambizioso ‘trasteverino’ di adozione, e Micaela Ramazzotti, la nostra, più morbida, Hilary Swanck) e i loro figli Dario e Paolo (Samuel Garofalo, più timido, 10 anni, che è il moretto Luchetti jr. in persona, e lo snodato Niccolò Calvagna, più sfrontato, riccio e capellone, 5 anni, di sicuro avvenire). Sullo sfondo modelle bisex, critici d’arte crudeli ma giusti, galleriste dionisiache, la Camargue ventosa, le nudiste di Provenza, ma anche mamme e zii piuttosto ‘convenzionali’…ma il solito modo di girare di Lucchetti che permette poi una certa scioltezza al montaggio (scena in tono drammatico, stessa scena in tono semibuffo...).


Martina Friederike Gedek e Micaela Ramazzotti
Già. Una cosa che mi ricordo con stupore, frequentando i concettuali dell’epoca, assieme a Carlo Deleo, giovane artista immigrato emergente, il cui sogno era costruire un gigantesco arcobaleno da piazzare fisso a Ostiense e delle scatolette Simmenthal di vetro, era proprio il rapporto intenso, quasi pesante, di ognuno di loro, e che a noi sembrava piccolo borghese, con la famiglia. “La domenica, sempre con la mamma e con il papà, a Cinecittà”, ci diceva Sergio Lombardo. Mah. E Carmelo Bene, sempre con la sorella. E Alighiero Boetti che costruiva per i figli in gigantesche stanze soldatini, a migliaia… Noi abituati a Warhol, Kossuth e a quelle comuni sovraffollate e promiscue, house mai home, verniciate di glam culture, non ci capacitavamo. Ma gli artisti concettuali come i loro antenati dell’arte povera erano di qualche generazione precedente. Solo Mario Schifano ce lo immaginavamo isolato nel suo loft, come un conte Dracula sulle barricate, fiancheggiatore irriducibile del Maggio francese. 


Micaela Ramazzotti, Samuel Garofalo e Kim Rossi Stuart
Torniamo al film. Serena, la mamma, è rampolla di ricchi commercianti romani. E lasciamo perdere i commenti cliché su questa corporazione che, da 8 anni, è cambiata, e finanzia perfno la cultura e il festival-festa di Roma. La sua sola (fragilissima) àncora di salvezza è Guido, che ha per mamma Benedetta Buccellato. Lei lo maltratta proprio come ha trattato la Daddario: “non vali niente, non sei colto, non sei artista, non hai dignità, non farai mai nulla nella vita, non venderai mai un quadro, proprio come tuo padre”… ‘Ma era solo per non farti dormire sugli allori’, si scuserà quando orami è troppo tardi, davanti a un Guido infuriato che, insofferente, rompe per sempre e fugge via sbattendo la porta.


sul set di Anni felici, in Camargue
Guido, infatti, è un artista più impulsivo che cerebrale. Insegna all’Accademia a non essere accademici. A non vendersi. A non farsi comprare. Anche se il suo amico (colluso con la pubblicità), e scusandosi perché ogni tanto fa i soldi con i suoi disegni pop, ci terrà a precisare: “ma io non sono un venduto, sono un comprato!”. 

Guido è sedicente membro dell’avanguardia pura e dura (strano, così non erano i concettuali più flessibili, vedi Pino Pascali che lavorava anche placidamente  per Carosello). Forse per questo non ha ancora sfondato su Flash Art. Ma ce la mette tutta. E Serena lo ama pazzamente. Deve aiutarlo per fargli venire l’idea giusta al momento giusto, quella che ammalierò i critici di tendenza (e farà scrivere loro: “è l’oggetto d’arte che ti vede, e questa volta mi ha visto, preso, conquistato e sconquassato dentro”), per conquistare il top, la sera della vernice, per provocare un terremoto simbolico simile alla ‘merda d’artista’ di Manzoni. 

Niccolò Calvagna, Samuel Garofalo e Micaela Ramazzotti
Ma come fare? Neanche a un happening alla Triennale di Milano (ma un po' di spirito contestatario? niente, sparito, nessuno oggi capirebbe si saranno detti Rulli e Petraglia che, in realtà, neanche allora erano proprio sulle barricate), quando fa come Francesca Woodman e si spoglia tutta per dare grinta e pathos all’istallazione un po’ rigidina del marito, verrà presa sul serio. ‘Trovatina oscena’ dirà il critico (schiaffeggiato) tanto per far la parodia manesca di Toni Servillo, alle prese con la performance politico-patetica della finta ‘Abramovich’, nella scena peggiore di La grande bellezza.


Kim Rossi Stuart, Samuel Garofalo e Micaela Ramazzotti
Guido ha invece bisogno di deviazioni maleodoranti, di diventare ‘cattivo’, traditore, infido, inaffidabile, bugiardo, infedele. Ecco il perché di quel letto nel suo atelier di via delle Mantellate…. I due figli sanno tutto. Sono esposti a tutto. Sono trattati da grandi. Avranno più difficoltà a ‘uccidere’ i genitori. Luchetti ce l’ha fatta, mi sa solo con questo film. Anzi nella scena in cui il suo piccolo alter ego urla ai genitori in rotta: Stronzi! Siete proprio stronzi! perché capisce che la storia d’amore tra Guido e Serena è proprio finita e che loro vedranno separarsi per sempre il papà e la mamma, e si butterà in mare e, salvato, chiamerà Serena per la prima volta mamma.


la festa femminista in camargue
Il fatto è che la deviazione di papà – avevano confessato candidi, non possono mentire - non si chiama solo Michelle, come la modella di un biancore danese, ma anche… Pure Heidegger si sarebbe scusato così con sua moglie: loro, le amanti tante e varie, non sono niente, ‘solo una grattatina al naso’. Ma ho paura che Luchetti qui si accontenti di antropologia spiccia da XXI secolo. Non è il modo di parlare dell’epoca che sconvolse il mondo. Forse non era neanche, quello, un motivo di litigio in quegli anni di contestazione generale, e di esplorazioni reichiane, e di esperimenti micro e macro comportamentale. 

Micaela Ramazzotti e i ragazzi alla Triennale di Milano
Ma. Per scusarsi Guido abbozza quando la moglie sentenzia ‘io sono mia’ e se ne va in Francia, a maturare una inconscia vendetta tra le braccia saffiche di Helke, la gallerista di Guido (l’attrice Martina Friederike Gedek). Sembra incoscienza. Invece è autoscoscienza femminista. Definitivamente liberatoria… Anzi amore, cuore. Altro che grattatina al naso.


La famiglia in via delle Mantellate
Come Salvatores che si riappacificava con il padre in Mediterraneo, Luchetti in Anni felici come anello di congiunzione biogenerazionale utilizza, è un escamotage, la ‘pellicola morente’ in 35mm, 16mm e 8mm.  E si ritrova come suo padre davanti alla creta, ai colori, alla tela, al cavalletto e ai pennelli, strumenti ormai inutilizzabili per catturare le forme nuove del mondo, per realizzare immagini, astratte o figurative, sufficientemente critiche o almeno adeguate della realtà. Come Guido, anche Daniele è costretto ad abbandonare i suoi strumenti di lavoro.  Le scene in super otto pellicola kodak più che per autoelogiarsi come bambino prodigio che vince un concorso, sono utilizzate per ricordare/rievocare gli esperimenti fotocromatici e su pellicola del padre, che faceva ricorso a elementi trasparenti e montava su supporti tridimensionali: li ricordano sia le scene sue e della mamma in Camargue a passo ridotto Canon sia, soprattutto, la sequenza-madre del film, il suo punctum erotico, la scena gioiello di Caludio Collepiccolo, il direttore della fotografia, in auto, quando le due donne si abbandonano a fantasie sensuali e sessuali librandosi (immaginazione al potere) castanedamente fuori della macchina in corsa, come sdoppiate e danzanti nel post orgasmo. 

L'happening alla Triennale
Il filo del gioco d’azzardo, nell’arte, nella vita, nell’amore - si vince e si perde - e nel gioco non ci sono più innocenti di altri, anche se si bara, immerge l’opera in un profumo speciale transgenerazionale e patafisico.  Infatti, attenti alla cronologia. Si insinuano anacronismi che spiazzano. Per esempio mai visti negli anni 70 tutti questi uomini con la coda di cavallo da metrosexual serbo, solo per non farli somigliare a Casaleggio. Luchetti, gran combinatore e assemblatore di forme avulse gioca con noi alla macchina del tempo.  



Micaela Ramazzotti
Erano davvero anni felici, i primi settanta, perché i decenni plumbei che ci stavano alle spalle li stavamo cancellando a forza di humor, lotte e fantasia (anche se con non poche perdite umane, e dopo stragi ancora senza nome e infinite provocazione fasciste protette dalla polizia). Restavano gli occhiali scuri, anche di notte, perché quelli rosa erano stati gettati alle ortiche, come il principe Kim ci ricorda. Poi ci avrebbero scaraventato addosso nuovo piombo, anche in forma di carcere e eroina e censure e esilio per molti (istigando qualcuno alla trappola della risposta armata, che comunque fu inefficace, o alla fuga del ‘profugo politico’, così ben raccontata da Roan Johnson).


Angelique Cavallari, nel film la modella Michelle
Anni felici. Già. Perché in quei mesi si lavorava instancabilmente (e in molti, e ovunque, in ogni nicchia del sociale, giorno e notte, il tempo non esisteva) per trasformare la vita, per cambiare il mondo, modificare le regole e le gerarchie della convivenza non autoritaria tra le persone e cancellare gli orrori e le psicosi della famiglia patriarcale tradizionale, per trovare nell’inferno ciò che inferno non era, per rendere tutti artisti della nostra esistenza. Ed è solare e trasversale la maniera che ha scelto Luchetti per rievocare quella scultura interiore d’epoca.


Happening alla Triennale di Milano
Che poi era questo il grande scandalo libertario degli artisti concettuali, dei colleghi più famosi di Guido (che poi liberamente si ispira al padre vero di Luchetti, artista concettuale), da Manzoni a Kounellis, da Fabro a Pascali, da Lombardo a Mattiacci: trattare la mente come se fosse uno schermo dipinto dal mondo e affidare alla ricezione dello spettatore il compito di agirvi sopra, di dare un finish a quello schermo, deformandolo, quel mondo, rovesciandolo, perché la libertà non può esistere finché qualcuno è oppresso… Un metodo da fisica quantistica. 

Kim Rossi Stuart con la tenuta da lavoro
E poi lottavamo in maniera speciale, internazionalisticamente, una parola che Renzi non ha mai sentito, anche gli artisti ‘poveri’ e neodada, per cancellare la guerra in Vietnam (che poi fu l’unica nostra vera vittoria, assieme alla nascita del movimento rivoluzionario femminista e di quello per i diritti gay&lesbian). Il maschilismo, allora come oggi, di pessimo gusto, nella sua versione latina-matriciana-mammista era davvero annidato ovunque. Come Luchetti ci indica.


Kim Rossi Stuart
Anni felici parla di tutto questo, ma indirettamente, non lo mostra full frontal. Come fanno i film davvero politici. Certo ghigna e gufa anche un po’ contro quegli anni. Ma come dargli torto? Certo tanto divertimento (chissà che belli i giocattoli di un rampollo d’artista!). Ma anche troppi drammi seri da affrontare quando artisti o meno i genitori ti trattano per pigrizia come loro coetanei. O non vedendoti proprio (finché non ci si butta in acqua per farli reagire). Ecco dunque la verifica incerta  degli effetti collaterali (e anche dei danni collaterali) che la super ribellione provocò: molti figli di quegli anni un po’ storti lo sono rimasti. Ci sono solo sullo sfondo i manifesti No! e i giornali che ci informano della grande battaglia sul divorzio di quei giorni. Ma l’incubo di essere abbandonati, cavallo di battaglia della destra, non superava certo l’incubo del litigio urlato, della lotta continua in tinello.


Siamo sfiorati da agganci delicati, citazioni anzi più allusioni ai film eversivi dell’epoca, come Blow up (le nudissime modelle swinging e beat dell’artista, qui Angelique Cavallari fa Jane Birkin) o addirittura ai documentari sulle provocazioni, tuttoggi scandalose, degli akzionisti austriaci, con le loro eco-comuni blasfeme pre Avatar, le performance per strada destabilizzanti, gli happening selvaggi e trib
ali, i corpi imbrattati di ogni cosa organica e inorganica e scorporati per sempre dall’osceno. 

Kim Rossi Stuart sembra uscito, ancora perplesso, da quell’aula magna di lettere della Sapienza gremita che Julian Beck cercò di far spogliare, mille persone tutti insieme, via i vestiti! e fu fermato solo dall’arrivo della questura bigotta.   

In Austria se non ci fu lotta armata lo si deve a Brus e Schwarzkogler. Gettarono sul loro corpo, autoimmolandosi, tutta la malignità post hitleriana circostante. Si violentarono per impedire violenza. Un po’ alla Pasolini. Da noi non bastò. Come neppure le opere che urlavano un grande sì alla vita (e non inconsapevole) di Merz, Pistoletto e Paolini, perché penetrarono con più difficoltà nel sistema nervoso del paese, ancora protetto da una scuola e da una chiesa disperatamente tuttora patetiche (Francesco e i beati di Spagna!). E poi ancora, certo incosciamente, non mancano omaggi a Blind Date di Yasuzo Masumura, nella scena finale, di fronte alla gigantesca statua umida della Super Donna, che l’artista ‘cieco’ giapponese utilizzava per concupire ragazze….


Daniele Luchetti sul set di Anni felici
Le lotte sono dietro lo schermo e davanti. Anche perché quegli anni sono visti da due angolazioni particolari e sguardi divergenti. Gli occhi e il cuore di un bambino di dieci anni (l’età di Luchetti allora). E lo stesso regista, anche in voice over, che oggi li commenta. Commenta la sua vita da cucciolo. E le conseguenze degli anni ribollenti sulla vita coniugale dei genitori. Che si divisero, pur amandosi, per sempre, e pur continuando a vedersi, sempre. Gli anni felici li avevano modificati irreversibilmente. Un bene? Un male? Al pubblico la sentenza. 

Il film è uscito qualche giorno fa nelle sale con successo, a giudicare dalla proiezione al cinema Eden di Roma, domenica scorsa, Dopo l’anteprima mondiale di Toronto che Luchetti ha preferito al bailamme superficiale della Mostra di Venezia. Per un film così privato (anche se lavora tanto di fantasia sui suoi ricordi, e si vede) Luchetti si è giustamente concesso una ‘vernice’ a passioni moderate.  



Si maneggiano infatti nel film  le più belle avventure morali e mentali dell’epoca, il 1974, e cioè l’arte concettuale romana (che era un frutto parallelo del movimento rivoluzionario, visto che i suoi esponenti migliori lo finanziavano con le loro opere e lo arricchivano – vedi Schifano e Kounellis - con la loro testa) , della febbre del ‘super 8’, che ci aveva reso tutti d’un tratto, registi di cinema, e uno lo divenne davvero (Nanni Moretti), e dell’insorgenza femminista che si stava ramificando nel tessuto intimo della società, pochi giorni dopo il trionfo dei no che seppellì chi voleva cancellare la legge di divorzio, finalmente passata.




lunedì 30 settembre 2013

La "profezia" fantastica di Italo Calvino. Una rassegna di film a Roma. Al cinema Trevi (1-5 ottobre)

Italo Calvino è morto improvvisamente il 20 settembre 1985, nello stesso giorno del terribile terremoto in Messico, proprio lui che era nato - da sanremese emigrante - lì vicino, a Cuba, mamma botanica e papà agronomo. Inoltre stava proprio per recarsi in Messico per sposarsi. Ma la cattolica Mexico City non avrebbe mai concesso l'ok alle nozze con una donna divorziata e dunque si era diretto verso la l'isola atlantica dell'amico Che Guevara...
Nel trentesimo anniversario della sua scomparsa ci saranno certo, da ora in poi, molte iniziative e manifestazioni per celebrarlo. In Italia e nel mondo (è stata dopo Dante Alighieri il più tradotto dei nostri narratori). Ma quest'anno, nel novantesimo della nascita, non sembra che la prassi intellettuale di Calvino sia molto ricordata. Anche se, recentemente, in due preziosi volumi, Vito Santoro, e prima ancora, nel 1990, Lorenzo Pellizzari si sono accostati a Calvino in maniera differente, partendo dal cinema per arrivare alla letteratura e alla saggistica e svelare il mistero di una scrittura unica, contaminata e multimediale ante litteram. 

Calvino sarà infatti ricordato prima di tutto come grande scrittore, di fiction e di non fiction, svezzato da Cesare Pavese e Elio Vittorini e traghettato nel pieno del boom economico, in una modernità a parte, al di là del Gruppo 63 e al di qua del neo-populismo pasoliniano, perché capace di arcaismi ancora più arditi. E non chiamatelo mai scrittore di favole. Ma anche. Come partigiano comunista che rischia non poche volte la pelle. Come manager dell'editoria, per i lunghi anni passati all'Einaudi, protagonista di una stagione aurea della nostra industria culturale prima che Mondadori la risucchiasse con metodi pare gangsteristici. Come giornalista, celebre per i suoi viaggi 'esotici' raccontati su Repubblica, diretta dal suo ex compagno di banco Eugenio Scalfari (meno partigiano di lui). Come profeta di una urbanistica a venire, ancora invisibile, indocile alle città invivibili che la speculazione edilizia democristiana ci impose, eppure ancora capace di trovare nello squallore più totale quell'angolo di delizie, perfino a Detroit o a Scampia. Come 'cantautore popolare' di lotta (fu tra gli animatori del movimento di risarcimento musical-popolare Cantacronache) e reinventore di Mozart. Come ex intellettuale impegnato nel Pci e ancor più impegnato quando lo lasciò (aveva cercato perfino di far iscrivere al partito dell' 'antitesi operaia' l'indocile Fruttero...), sempre capace di maneggiare le affilate armi della critica anche quando si considerava molto più dirompente e perfino più violenta e sanguinaria - e non era vero - la critica delle armi. Come fonte di ispirazione per architetti, pittori, scultori, fotografi, botanici, cartoonist...

Ma anche come spettatore di cinema, fanatico della Hollywood anni trenta e quaranta, cineclubista, critico e cineasta, a suo agio sia nel documentario che nella finzione, purché mai noiosi e drastici (Straub fece Pavese senza la sua autorizzazione), che esordì come penna del Cinema nuovo aristarchiano, come cronista dell'Unità di Torino (al fianco di Novelli e Crispino) spedito tra le mondine del vercellese set di Riso amaro di Beppe De Santis, di imprinting e cultura neorealista, proprio come neorealista fu il suo primo romanzo, una eredità in fondo in fondo mai veramente tradita. Il cinema fa molto bene alla letteratura. E viceversa. E forse con il passpartout del cinema neorealista anche certi segreti della sua scrittura saranno svelati.... 

Sia perché proprio a causa di quel 'neo' ogni, anche la più spericolate, variazioni di senso (e - Mario Mattoli aggiungerebbe - e di pesante ironia) è permessa, sia perché, come ricordava Roberto Rossellini, nessuno è riuscito ancora bene a definire a parole cosa fu il neorealismo, al di là di un desiderio collettivo di cambiamento sociale radicale, di uno stile di vita etico, della scoperta dello 'sguardo individuale', mai più embedded, in sintonia con il noir-realismo nordamericano di Chandler e Cain.

Per un momento, dal 1945 al 1948, il cinema italiano diventa essenziale, aspro, crudele, libero, aperto, horror, criminale, etico, senza orpelli né trombonate,  e mai moralista, il numero uno, proprio come il cinema hollywoodiano d'era rooseveltiana, anzi l'unico cinema dotato di 'grande struttura', che inventa un mondo, che apre ad altre 'dimensioni del mondo'. Poi sarà bene non avere più nulla a che vedere con Cinecittà impossibilitata perfino a lavare i propri panni sporchi.

Infatti poi, come scrive Lietta Tornabuoni, i suoi rapporti con il cinema italiano 'mainstream'  furono sempre piuttosto patafisici per un intellettuale 'potente' e mai drop-out come lui: 

«È uno degli scrittori che direttamente meno hanno contribuito al cinema italiano: qualche collaborazione a sceneggiature, qualche soggetto [...]. Ma è forse lo scrittore italiano che più ha anticipato nella propria opera l’immaginario, le fascinazioni, le tendenze del cinema internazionale contemporaneo: il mondo medievale rivissuto con ironia, l’universo magico ripetitivo e fatale della fiaba, le cosmogonie fantastico-scientifiche, le città del sogno tra Oriente visionario e megalopoli moderna, la narrativa come processo combinatorio di elementi preesistenti, la narrazione come forma compiuta che è possibile scomporre giocando col racconto come con gli scacchi».
Sarà stato l'internazionalismo di famiglia, l'orrore per la politica della bigotta dc di emarginazione del paese dal flusso vivo della cultura (esistenzialismo, beat generation, angry young man, be-bop,  nouvelle vague, nouveau roman, akzionismus austriaco, musica post dodecafonica...sono tutti movimenti peccaminosi), la presa di attenta distanza rispetto alle pratiche delle neoavanguardie letterarie (che pure pubblica su Einaudi) che stanno perdendo il gusto antico dell'intreccio narrativo, per sostituirlo con procedimenti formali urlati e complicati come gli assolo del free jazz, salvo poi ritrovarlo, recuperare la melodia, con il distacco e l'ironia snodabile del postmoderno (Umberto Eco lo teorizza adesso: il gruppo 63 si preparava già a In nome della rosa...). Gusto dell'intreccio e della melodia che invece Calvino (incapace di marciare a tempo) non perdette mai, salvo applicarlo a percorsi narrativi bastardi e multipli, complicarlo raccordandolo alle altre arti e alle scienze mutanti, ben al di là del romanzo, verso una prefigurazione sinestetica e transartistica del cinema e del digitale futuro...Ma fino al primo governo di centro sinistra, e ai socialisti al potere, fino al 1960 Calvino si tiene bene alla larga dalla commedia rosa e dai sub-generi provinciali dominanti, concedendosi poi a ben pochi registi 'a parte': Zac, Monicelli, Quilici, Bennati, Maselli, Di Carlo, Manfredi, Vanzi...
  
Narratore, saggista, critico, teorico, cosmonauta dell’immaginario, soggettista e sceneggiatore,
documentarista, intellettuale impegnato nella battaglia delle idee e “giocatore” negli apparati
culturali, punto di riferimento vitale per i cineasti del XXI secolo, gli esploratori della “verità nella
vita globalizzata”, tre anni dopo Bologna e l'omaggio che gli fece la Cineteca (e Fofi), dimenticandosi però i due film di Carlo Di Carlo (bolognese), Italo Calvino sarà al centro di una retropettiva cinematografica all'interno di una mostra in progress (In viaggio con Calvino) iniziata a Roma nel giugno scorso (all'Acquario).

Al cinema Trevi, dall'1 al 5 ottobre, verranno perciò scodellati, nel novantesimo anniversario della nascita, una ventina di film a soggetto “calviniani”, cartoon, corti, opere neo-post-realiste, e anche doc, doc industriali, o storici o geografici, pellicole ispirate ai suoi scritti, comprese alcune, come L'uomo fiammifero o Domani accadrà,  che hanno con Calvino un rapporto di scambio a distanza, diretto o obliquo. È il Calvino già polemista, che è in attesa del Sacro Gra che, parola di Gianfranco Rosi, proprio alle Città invisibili è ispirato. La rassegna è organizzata dall'IXCO (Istituto Italiano per la Cooperazione o.n.g.), dalla Casa dell’Architettura, dalla Cineteca Nazionale e dall'Archivio Nazionale Cinema d’Impresa. Non ci saranno purtroppo alcune perle calviniste: il lungometraggio  Palookaville di Alan Taylor (Usa, 1995) liberamente ispirato a Calvino tutto e in particolare al racconto breve "Furto in pasticceria" da Ultimo viene il corvo (da cui è tratta anche l'idea centrale di I soliti ignoti), L'avventura di un fotografo mediometraggio di Citto Maselli (1983) e Ti-koyo e il suo pescecane di Folco Quilici (1962) ispirato al romanzo di Clement Richter, e sceneggiato da Calvino, per problemi di reperimento o stato di conservazione delle copie.

La reperibilità you tube di  L'Italia vista dal cielo, e in particolare la nona puntata sulla Liguria (una ricognizione - molto poco lineare, in elicottero che è antropologica, geologica, storica, botanica, sociale e archeologica nello stesso tempo - della nostra regione morfologicamente più strana) di Folco Quilici, testo di Italo Calvino, del 1973, permetterà a chiunque, poi, a casa, di costruirsi una sua rassegna calvinista, perché negli ultimi anni sempre più cortisti, da tutto il mondo, hanno affrontato e diffuso in rete i testi del nostro scrittore, quelli più 'combinatori' e di scatenata reversibilità temporale, che hanno avuto una influenza postuma straordinaria e planetaria anche nel cinema fantascientifico ad alto budget e ipertecnologico (da Matrix ai fratelli Wachowsky, da Lynch a Cronenberg, da Niccol a Gilliam, da Ferrara a Greenaway). Basta ricordarne alcuni: Nancy King (Usa, 2006) con Solidarity, Yu-Hsiu Camille Chen con Conscience (Australia, 2010); Kevin Ruelle, con The false grandmother (Usa); Calvino e Dani con Zobeide (Usa, 2010), Ana Luisa Liguori con Amores Dificiles (Messico, 1983), Philippe Danzelot con L'aventure d'une baigneuse (Franca, 1991), Stelios Rogakos con Efprosopo katafygio (Grecia, 1990), Ergin Cavusoglu con Voyage of no return (Turchia) e Gabriel Bitar con  A Citade e o desejo (Brasile).... 


Oggi, a quasi 30 anni dalla morte dello scrittore più cinematografico e magico-fantastico del 900 una animatrice israeliana, Shulamit Seraty, non può esimersi dal trovare The distance from the moon, tratto da Le Cosmicomiche,  una perfetta metafora per raccontare Israele oggi, ipotizzando un pioneristico esodo, single magari, che tuttora attrae chi vuole cercare una terra (o una luna) promessa, senza dover per questo cacciare di casa chi vi abita. Il viaggio senza meta, quello nel quale il paesaggio mangia divora e annulla il viaggiatore, che non sarà più quello che era, che mette in moto un processo di mutazione irreversibile, insomma il road movie, è già, e prima del Sorpasso di Risi, nel dna di Calvino.

Lo sanno bene i documentaristi, Roberto Giannarelli e Damian Pettigrew, che stanno appassionandosi sempre più alla sua geografia on the road, e oltre, mentale e biologica, libera e etica, che scavalca i confini del pianeta e si fa stellare, preistorica, addirittura precellulare. 

Una geografia che parte da Cuba - un giardino che il Wwf oltre che l’Unesco, dovrebbe tutelare - con i suoi antenati ‘acquisiti’.  E poi va su e giù nell’America, non solo latina, con il suo cristianesimo ‘altro’, un pensiero unico che si vivifica di rivolta, rabbia, urla, occupy, anonymus (lo capiremo rivedendo il dimenticato e attualissimo America paese di dio). E in Giappone, paese che più riclicla parte della sua immensa tradizione culturale come missile spirituale di immensa potenza per disegnare un futuro non sciovinista (Miyazaki, per dire un nome)…

E torna indietro nel tempo, fin nella preistoria stellare e pre stellare, riletta in chiave scientifico-evoluzionista, quasi fosse già un gioco di neuroni-specchio a tracciare le peripezie del cambiamento, della metamorfosi, da atomo a pesce da dinosauro a scimmia a umano, con un Darwin che è contemporaneamente osservatore del soggetto indocile e ribelle, feroce e unico, però incapace di salto, di imporsi come il più forte, senza aggregare forze collettive che acquistano potenza solo nella reciproca assistenza. L'evoluzionismo non premia affatto il piu' forte single spietato, ma il general intellect della solidarietà....

Siamo sulle soglie di un liberalismo altro, ancora da inventare, e lo scienziato anarchico  Kropotkin, hobo libertario in Siberia, l'amico di Lenin, sarebbe qui molto utile da riutilizzare. E’ la sopravvivenza, bellezza. Al Centro Sperimentale di Roma da anni si studia la ‘parte visuale della fantasia’, estetica, non estetizzante. Nel senso più scientifico del termine. Quando si attivizzano tutti i sensi conosciuti e anche la sensuale sensibilità ‘ai confini della realtà’. E si cerca di portare a compimento un copione plausibile - non descrivere il pantano in cui viviamo, ma viaggiare per uscirne - tratto dal Barone Rampante. E’ un vecchio pallino di Giorgio Arlorio, l’insegnante di sceneggiatura…

Che probabilmente parte dal più agghiacciante shock visuale ispirato a Calvino, quel Visconte dimezzato (scritto nel 1952) messo in scena live nel 1964 da Gunter Brus, uno degli artisti, performer e cineasti austriaci più radicali dell'azionismo sessantottino, che trasformatosi in statua vivente gessosa, materica e spaccata in due da una riga dipinta di scuro, se ne andava per le strade di Vienna a rischio dell'arresto per offrirsi come capro espiatorio, quasi come un Pasolini sacrificale, incorporando dentro di se' la devastante zuffa di classe limitrofa, che stava pericolosamente slittando verso la fase armata della guerra civile. Che in Austria non sfociò mai nel terrorismo forse grazie anche a quella stirpe di artisti masochisti come Günter Brus che insieme a Otto Mühl, Hermann Nitsch e Rudolf Schwarzkogler, sfiorando la morte, seppero dire un grande sì alla vita. Calvino interpretato proprio alla perfezione come sacro rito, esorcismo politicamente corretto, profeta fantastico.       

Gianfranco Rosi, Leone d'oro con Il Sacro Gra ispirato alle Città invisibili di Calvino
Segnali di attualità della sua ‘patafisica’ e 'patalogica' visione delle immagini, indocili agli standard e contemporaneamente alla ricezione schermica subumana o sovrumana di tanti autori amati dalle nicchie o dal popolo, da Straub a Pasolini (di cui Calvino detestava Il vangelo secondo Matteo, trovandolo dilettantesco) fino al virtuosismo postmoderno di Lynch e von Trier, perché non basta smitizzare il mito del cinema. 

Lo spettatore medio ha un che di estremista quando esige semplicemente da un film l’estasi del piacere (Niccol, Gilliam, Ferrara, Cronenberg, i fratelli Wachowski…)…Eppure sono così pochi i film tratti dalle sue opere. Monicelli, Pino Zac, Alan Taylor, Carlo di Carlo, Citto Maselli, Giuseppe Bennati, Nino Manfredi, Daniele Luchetti, e in maniera solo lontanamente apologetica, il Gianni Romoli di Fantaghirò e il Folco Quilici di Tikoyo e il suo pescecane Ma, come ricorda Vito Santoro nel suo prezioso studio “Calvino e il cinema” furono soprattutto i racconti degli anni 50, quelli del periodo realista ad attirare l’attenzione. Oggi invece, senza neppure pensarci, sono più ‘calvinisti’ Michelangelo Frammartino, l’argentino Lisandro Alonso, l’americana Kelly Reichardt, il thailandese Apichatpong Weerasethakul e i registi dell’avventura senza bussola, del walking cinema, ma dell’antitesi, del ‘vagare alla cieca della storia d’amore’, della deambulazione labirintica da un punto all'altro, ma ad alto quoziente soggettivo. 

Zero in condotta nella ‘scuola dello sguardo’, perché l’obiettivo è riappropriarsi, altrimenti, al di là dell’occhio-mio-dio, dei significati storico-sociali dell’agire nel mondo. E’ critica pratica dell’economia politica del cinema. Fu non a caso insignificante per Calvino la seduzione esercitata da Cinecittà e da quel ‘cinema italiano semi artigianale più che poco industriale’ che stava sprofondando nell’abisso. E che lo aveva tenuto stranamente ai margini del ‘grande affare’. 

Calvino fu tra i pochi scrittori di successo internazionale estranei alle affollate botteghe dei costruttori di ‘commedie al vetriolo’ atte a massacrare i riti e i miti del boom, ‘crescita + disoccupazione in crescita’, avrebbe detto Mario Tronti.  Intimo, interno a tutte le discussioni e polemiche collegate al dibattito sul neorealismo e su come uscirne, visto che di palazzi crollati per i bombardamenti ormai non v’era più traccia, come critico prima di Cinema Nuovo poi dell’Unità è tra i primi a compiere un detour scandaloso. 

Che in Italia stesse cambiando la società, il costume, l’ambiente, l’uomo, il Calvino neorealista del ‘Sentiero dei nidi di ragno’ del 1947, se ne accorge, con crudeltà e sensibilità Qfwfq. Si esaurisce il linguaggio diretto, sostituito “da quell’amabile divertimento dell’intelligenza, che è l’ironia del dimezzamento, della sospensione, e della sottrazione del mondo” (Asor Rosa). “Noi guardiamo il mondo precipitando dalla tromba delle scale” aveva sintetizzato Calvino il saggista, attratto dalla “verità industriale”, cioè la verità della moderna società capitalistica”.  

Cinefilo appassionato, fu testimone del grande rinascimento etico dei nostri cineasti post fascisti, e poi fautore di un approccio al cinema come pensiero e macchina della ‘verità della vita’, piuttosto che come ‘realtà della vita’, usando una terminologia presa in prestito da Franco Fortini. E dunque schierato con chi utilizzava il laboratorio da scienziato pazzo per radiografare l’alienazione neocapitalistica, in una Italia ormai industrial-contadina (si vedano le interviste operaie di Marcovaldo, che è un apologo sullo scontro incontro tra campgna e città) che avrebbe però perso, con il crollo sospetto della Olivetti, la sua spinta propulsiva. Alcuni rottamarono il linguaggio, anticipando il ‘salto operaio della scocca’ e buttando all’aria tutto (grammatica, sintassi, istituzioni, parentele), tra risate e scherno. Fu la neoavanguardia del Gruppo 63. Altri scelsero il linguaggio cifrato e misterioso, ma non ermetico, solo transculturale. Più Raymond Queneau che Eugenio Montale.  Ed eccolo così al fianco di Orson Welles, di Antonioni, a volte, e di Fellini, quasi sempre.