lunedì 14 ottobre 2013

La fantastica storia della mia famiglia. Anni felici di Daniele Luchetti


Angelique Cavallaro e Kim Rossi Stuart in "Anni felici"
Roberto Silvestri


Anni felici, la nuova opera di Daniele Luchetti, “fatti finti, sentimenti veri”, è ambientata a Roma nell’estate del 1974. Il divertissment semi-autobiografico (anche Caterina Venturini è alla sceneggiatura), che è un dramma domestico agrodolce e ha non pochi momenti di cupezza, si può permettere una certa libertà di fraseggio e delle ironie contenute sulle miserie e sulla grandezza dell’immaginazione al potere, che caratterizzò quell’effimero frangente di storia, perché racconta, in prima persona singolare maschile, con leggerezza, invidia, un po’ di back to the future, crudeltà e  forse del sarcasmo triste, la storia fantastica e sempre in bilico di se stesso e della famiglia Luchetti, papà mamma e due figli, guidata, fino a un certo punto, perché il femminismo stava arrivando al galoppo, e picchiava come cosacchi, dall’artista estremo, ‘marchigiano di Roma’, impersonato e reinventato con la solita sottigliezza sguaiata, anche se il nome nel film è diverso, ‘Guido’, da Kim Rossi Stuart.


Micaela Ramazzotti, Samuel Garofalo e Niccolò Calvagna in Anni felici
Il vero papà di Daniele si chiamava Luca, era scultore soprattutto di monumentali opere religiose, ma pittoricamente molto più spericolato, fino a sfiorare l’happening più conturbante, e morì giovanissimo nel 1993. Il film sembra un po’ il remake a colori e con molte più donne nude (perché erano gli anni di Escalation, Ultimo tango e Nude at the Restaurant), e senza intenti sovversivi (Rulli e Petraglia al copione ne sono una garanzia) di Morire gratis, l’opera unica di Sandro Franchina, uno dei pochi thriller ambientati nel mondo dell’avanguardia romana, protagonista Franco Angeli, a cui Kim Rossi Stuart deve aver risucchiato non poco nel tono, nella voce - ma qui balbetta - e nei gesti (droga a parte, ma credo che Cattleya non avrebbe permesso) per delineare la soggettività desiderante di quelle stagioni estremamente estremiste ed edoniste e l’annoiata operosità di una personalità di labirintico candore. Che voleva, ma non poteva, essere dark (e qui si ruba qualcosa, ma nello sguardo registico obliquo, si ode anche il mormorio romanaccio di Alberto Sordi).


Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti
La differenza è tutta nelle loro automobili. Quella di Kim viene presa a calci dai ragazzi perché è uno scassone di utilitaria immobilizzata ai piedi di Regina Coeli, e trasformata in lamiere da gioco (è il momento più alto dal punto di vista della performance d’arte di tutto il film, litigio con la trasteverina compreso). Quella di Franco Angeli, stracolma di polvere di stelle, era una spider degna del Sorpasso che volava vertiginosa al centro del più turbinoso dei momenti rivoluzionari, in pieno 1969. Ma come film in costume tanto di cappello allo scenografo (al parrucchiere un po’ meno) per le auto i pantaloni scampanati e le camice a fiori.  


Daniele Luchetti
Anni felici è un film, più che recitato, giocato d’azzardo da un poker di attori affiatato: Guido e Serena, marito e moglie trentenni (Kim Rossi Stuart, nervoso e ambizioso ‘trasteverino’ di adozione, e Micaela Ramazzotti, la nostra, più morbida, Hilary Swanck) e i loro figli Dario e Paolo (Samuel Garofalo, più timido, 10 anni, che è il moretto Luchetti jr. in persona, e lo snodato Niccolò Calvagna, più sfrontato, riccio e capellone, 5 anni, di sicuro avvenire). Sullo sfondo modelle bisex, critici d’arte crudeli ma giusti, galleriste dionisiache, la Camargue ventosa, le nudiste di Provenza, ma anche mamme e zii piuttosto ‘convenzionali’…ma il solito modo di girare di Lucchetti che permette poi una certa scioltezza al montaggio (scena in tono drammatico, stessa scena in tono semibuffo...).


Martina Friederike Gedek e Micaela Ramazzotti
Già. Una cosa che mi ricordo con stupore, frequentando i concettuali dell’epoca, assieme a Carlo Deleo, giovane artista immigrato emergente, il cui sogno era costruire un gigantesco arcobaleno da piazzare fisso a Ostiense e delle scatolette Simmenthal di vetro, era proprio il rapporto intenso, quasi pesante, di ognuno di loro, e che a noi sembrava piccolo borghese, con la famiglia. “La domenica, sempre con la mamma e con il papà, a Cinecittà”, ci diceva Sergio Lombardo. Mah. E Carmelo Bene, sempre con la sorella. E Alighiero Boetti che costruiva per i figli in gigantesche stanze soldatini, a migliaia… Noi abituati a Warhol, Kossuth e a quelle comuni sovraffollate e promiscue, house mai home, verniciate di glam culture, non ci capacitavamo. Ma gli artisti concettuali come i loro antenati dell’arte povera erano di qualche generazione precedente. Solo Mario Schifano ce lo immaginavamo isolato nel suo loft, come un conte Dracula sulle barricate, fiancheggiatore irriducibile del Maggio francese. 


Micaela Ramazzotti, Samuel Garofalo e Kim Rossi Stuart
Torniamo al film. Serena, la mamma, è rampolla di ricchi commercianti romani. E lasciamo perdere i commenti cliché su questa corporazione che, da 8 anni, è cambiata, e finanzia perfno la cultura e il festival-festa di Roma. La sua sola (fragilissima) àncora di salvezza è Guido, che ha per mamma Benedetta Buccellato. Lei lo maltratta proprio come ha trattato la Daddario: “non vali niente, non sei colto, non sei artista, non hai dignità, non farai mai nulla nella vita, non venderai mai un quadro, proprio come tuo padre”… ‘Ma era solo per non farti dormire sugli allori’, si scuserà quando orami è troppo tardi, davanti a un Guido infuriato che, insofferente, rompe per sempre e fugge via sbattendo la porta.


sul set di Anni felici, in Camargue
Guido, infatti, è un artista più impulsivo che cerebrale. Insegna all’Accademia a non essere accademici. A non vendersi. A non farsi comprare. Anche se il suo amico (colluso con la pubblicità), e scusandosi perché ogni tanto fa i soldi con i suoi disegni pop, ci terrà a precisare: “ma io non sono un venduto, sono un comprato!”. 

Guido è sedicente membro dell’avanguardia pura e dura (strano, così non erano i concettuali più flessibili, vedi Pino Pascali che lavorava anche placidamente  per Carosello). Forse per questo non ha ancora sfondato su Flash Art. Ma ce la mette tutta. E Serena lo ama pazzamente. Deve aiutarlo per fargli venire l’idea giusta al momento giusto, quella che ammalierò i critici di tendenza (e farà scrivere loro: “è l’oggetto d’arte che ti vede, e questa volta mi ha visto, preso, conquistato e sconquassato dentro”), per conquistare il top, la sera della vernice, per provocare un terremoto simbolico simile alla ‘merda d’artista’ di Manzoni. 

Niccolò Calvagna, Samuel Garofalo e Micaela Ramazzotti
Ma come fare? Neanche a un happening alla Triennale di Milano (ma un po' di spirito contestatario? niente, sparito, nessuno oggi capirebbe si saranno detti Rulli e Petraglia che, in realtà, neanche allora erano proprio sulle barricate), quando fa come Francesca Woodman e si spoglia tutta per dare grinta e pathos all’istallazione un po’ rigidina del marito, verrà presa sul serio. ‘Trovatina oscena’ dirà il critico (schiaffeggiato) tanto per far la parodia manesca di Toni Servillo, alle prese con la performance politico-patetica della finta ‘Abramovich’, nella scena peggiore di La grande bellezza.


Kim Rossi Stuart, Samuel Garofalo e Micaela Ramazzotti
Guido ha invece bisogno di deviazioni maleodoranti, di diventare ‘cattivo’, traditore, infido, inaffidabile, bugiardo, infedele. Ecco il perché di quel letto nel suo atelier di via delle Mantellate…. I due figli sanno tutto. Sono esposti a tutto. Sono trattati da grandi. Avranno più difficoltà a ‘uccidere’ i genitori. Luchetti ce l’ha fatta, mi sa solo con questo film. Anzi nella scena in cui il suo piccolo alter ego urla ai genitori in rotta: Stronzi! Siete proprio stronzi! perché capisce che la storia d’amore tra Guido e Serena è proprio finita e che loro vedranno separarsi per sempre il papà e la mamma, e si butterà in mare e, salvato, chiamerà Serena per la prima volta mamma.


la festa femminista in camargue
Il fatto è che la deviazione di papà – avevano confessato candidi, non possono mentire - non si chiama solo Michelle, come la modella di un biancore danese, ma anche… Pure Heidegger si sarebbe scusato così con sua moglie: loro, le amanti tante e varie, non sono niente, ‘solo una grattatina al naso’. Ma ho paura che Luchetti qui si accontenti di antropologia spiccia da XXI secolo. Non è il modo di parlare dell’epoca che sconvolse il mondo. Forse non era neanche, quello, un motivo di litigio in quegli anni di contestazione generale, e di esplorazioni reichiane, e di esperimenti micro e macro comportamentale. 

Micaela Ramazzotti e i ragazzi alla Triennale di Milano
Ma. Per scusarsi Guido abbozza quando la moglie sentenzia ‘io sono mia’ e se ne va in Francia, a maturare una inconscia vendetta tra le braccia saffiche di Helke, la gallerista di Guido (l’attrice Martina Friederike Gedek). Sembra incoscienza. Invece è autoscoscienza femminista. Definitivamente liberatoria… Anzi amore, cuore. Altro che grattatina al naso.


La famiglia in via delle Mantellate
Come Salvatores che si riappacificava con il padre in Mediterraneo, Luchetti in Anni felici come anello di congiunzione biogenerazionale utilizza, è un escamotage, la ‘pellicola morente’ in 35mm, 16mm e 8mm.  E si ritrova come suo padre davanti alla creta, ai colori, alla tela, al cavalletto e ai pennelli, strumenti ormai inutilizzabili per catturare le forme nuove del mondo, per realizzare immagini, astratte o figurative, sufficientemente critiche o almeno adeguate della realtà. Come Guido, anche Daniele è costretto ad abbandonare i suoi strumenti di lavoro.  Le scene in super otto pellicola kodak più che per autoelogiarsi come bambino prodigio che vince un concorso, sono utilizzate per ricordare/rievocare gli esperimenti fotocromatici e su pellicola del padre, che faceva ricorso a elementi trasparenti e montava su supporti tridimensionali: li ricordano sia le scene sue e della mamma in Camargue a passo ridotto Canon sia, soprattutto, la sequenza-madre del film, il suo punctum erotico, la scena gioiello di Caludio Collepiccolo, il direttore della fotografia, in auto, quando le due donne si abbandonano a fantasie sensuali e sessuali librandosi (immaginazione al potere) castanedamente fuori della macchina in corsa, come sdoppiate e danzanti nel post orgasmo. 

L'happening alla Triennale
Il filo del gioco d’azzardo, nell’arte, nella vita, nell’amore - si vince e si perde - e nel gioco non ci sono più innocenti di altri, anche se si bara, immerge l’opera in un profumo speciale transgenerazionale e patafisico.  Infatti, attenti alla cronologia. Si insinuano anacronismi che spiazzano. Per esempio mai visti negli anni 70 tutti questi uomini con la coda di cavallo da metrosexual serbo, solo per non farli somigliare a Casaleggio. Luchetti, gran combinatore e assemblatore di forme avulse gioca con noi alla macchina del tempo.  



Micaela Ramazzotti
Erano davvero anni felici, i primi settanta, perché i decenni plumbei che ci stavano alle spalle li stavamo cancellando a forza di humor, lotte e fantasia (anche se con non poche perdite umane, e dopo stragi ancora senza nome e infinite provocazione fasciste protette dalla polizia). Restavano gli occhiali scuri, anche di notte, perché quelli rosa erano stati gettati alle ortiche, come il principe Kim ci ricorda. Poi ci avrebbero scaraventato addosso nuovo piombo, anche in forma di carcere e eroina e censure e esilio per molti (istigando qualcuno alla trappola della risposta armata, che comunque fu inefficace, o alla fuga del ‘profugo politico’, così ben raccontata da Roan Johnson).


Angelique Cavallari, nel film la modella Michelle
Anni felici. Già. Perché in quei mesi si lavorava instancabilmente (e in molti, e ovunque, in ogni nicchia del sociale, giorno e notte, il tempo non esisteva) per trasformare la vita, per cambiare il mondo, modificare le regole e le gerarchie della convivenza non autoritaria tra le persone e cancellare gli orrori e le psicosi della famiglia patriarcale tradizionale, per trovare nell’inferno ciò che inferno non era, per rendere tutti artisti della nostra esistenza. Ed è solare e trasversale la maniera che ha scelto Luchetti per rievocare quella scultura interiore d’epoca.


Happening alla Triennale di Milano
Che poi era questo il grande scandalo libertario degli artisti concettuali, dei colleghi più famosi di Guido (che poi liberamente si ispira al padre vero di Luchetti, artista concettuale), da Manzoni a Kounellis, da Fabro a Pascali, da Lombardo a Mattiacci: trattare la mente come se fosse uno schermo dipinto dal mondo e affidare alla ricezione dello spettatore il compito di agirvi sopra, di dare un finish a quello schermo, deformandolo, quel mondo, rovesciandolo, perché la libertà non può esistere finché qualcuno è oppresso… Un metodo da fisica quantistica. 

Kim Rossi Stuart con la tenuta da lavoro
E poi lottavamo in maniera speciale, internazionalisticamente, una parola che Renzi non ha mai sentito, anche gli artisti ‘poveri’ e neodada, per cancellare la guerra in Vietnam (che poi fu l’unica nostra vera vittoria, assieme alla nascita del movimento rivoluzionario femminista e di quello per i diritti gay&lesbian). Il maschilismo, allora come oggi, di pessimo gusto, nella sua versione latina-matriciana-mammista era davvero annidato ovunque. Come Luchetti ci indica.


Kim Rossi Stuart
Anni felici parla di tutto questo, ma indirettamente, non lo mostra full frontal. Come fanno i film davvero politici. Certo ghigna e gufa anche un po’ contro quegli anni. Ma come dargli torto? Certo tanto divertimento (chissà che belli i giocattoli di un rampollo d’artista!). Ma anche troppi drammi seri da affrontare quando artisti o meno i genitori ti trattano per pigrizia come loro coetanei. O non vedendoti proprio (finché non ci si butta in acqua per farli reagire). Ecco dunque la verifica incerta  degli effetti collaterali (e anche dei danni collaterali) che la super ribellione provocò: molti figli di quegli anni un po’ storti lo sono rimasti. Ci sono solo sullo sfondo i manifesti No! e i giornali che ci informano della grande battaglia sul divorzio di quei giorni. Ma l’incubo di essere abbandonati, cavallo di battaglia della destra, non superava certo l’incubo del litigio urlato, della lotta continua in tinello.


Siamo sfiorati da agganci delicati, citazioni anzi più allusioni ai film eversivi dell’epoca, come Blow up (le nudissime modelle swinging e beat dell’artista, qui Angelique Cavallari fa Jane Birkin) o addirittura ai documentari sulle provocazioni, tuttoggi scandalose, degli akzionisti austriaci, con le loro eco-comuni blasfeme pre Avatar, le performance per strada destabilizzanti, gli happening selvaggi e trib
ali, i corpi imbrattati di ogni cosa organica e inorganica e scorporati per sempre dall’osceno. 

Kim Rossi Stuart sembra uscito, ancora perplesso, da quell’aula magna di lettere della Sapienza gremita che Julian Beck cercò di far spogliare, mille persone tutti insieme, via i vestiti! e fu fermato solo dall’arrivo della questura bigotta.   

In Austria se non ci fu lotta armata lo si deve a Brus e Schwarzkogler. Gettarono sul loro corpo, autoimmolandosi, tutta la malignità post hitleriana circostante. Si violentarono per impedire violenza. Un po’ alla Pasolini. Da noi non bastò. Come neppure le opere che urlavano un grande sì alla vita (e non inconsapevole) di Merz, Pistoletto e Paolini, perché penetrarono con più difficoltà nel sistema nervoso del paese, ancora protetto da una scuola e da una chiesa disperatamente tuttora patetiche (Francesco e i beati di Spagna!). E poi ancora, certo incosciamente, non mancano omaggi a Blind Date di Yasuzo Masumura, nella scena finale, di fronte alla gigantesca statua umida della Super Donna, che l’artista ‘cieco’ giapponese utilizzava per concupire ragazze….


Daniele Luchetti sul set di Anni felici
Le lotte sono dietro lo schermo e davanti. Anche perché quegli anni sono visti da due angolazioni particolari e sguardi divergenti. Gli occhi e il cuore di un bambino di dieci anni (l’età di Luchetti allora). E lo stesso regista, anche in voice over, che oggi li commenta. Commenta la sua vita da cucciolo. E le conseguenze degli anni ribollenti sulla vita coniugale dei genitori. Che si divisero, pur amandosi, per sempre, e pur continuando a vedersi, sempre. Gli anni felici li avevano modificati irreversibilmente. Un bene? Un male? Al pubblico la sentenza. 

Il film è uscito qualche giorno fa nelle sale con successo, a giudicare dalla proiezione al cinema Eden di Roma, domenica scorsa, Dopo l’anteprima mondiale di Toronto che Luchetti ha preferito al bailamme superficiale della Mostra di Venezia. Per un film così privato (anche se lavora tanto di fantasia sui suoi ricordi, e si vede) Luchetti si è giustamente concesso una ‘vernice’ a passioni moderate.  



Si maneggiano infatti nel film  le più belle avventure morali e mentali dell’epoca, il 1974, e cioè l’arte concettuale romana (che era un frutto parallelo del movimento rivoluzionario, visto che i suoi esponenti migliori lo finanziavano con le loro opere e lo arricchivano – vedi Schifano e Kounellis - con la loro testa) , della febbre del ‘super 8’, che ci aveva reso tutti d’un tratto, registi di cinema, e uno lo divenne davvero (Nanni Moretti), e dell’insorgenza femminista che si stava ramificando nel tessuto intimo della società, pochi giorni dopo il trionfo dei no che seppellì chi voleva cancellare la legge di divorzio, finalmente passata.




Nessun commento:

Posta un commento