Angelique Cavallaro e Kim Rossi Stuart in "Anni felici" |
Roberto Silvestri
Anni felici,
la nuova opera di Daniele Luchetti, “fatti finti, sentimenti veri”, è
ambientata a Roma nell’estate del 1974. Il divertissment semi-autobiografico (anche Caterina Venturini è alla sceneggiatura),
che è un dramma domestico agrodolce e ha non pochi momenti di cupezza, si può
permettere una certa libertà di fraseggio e delle ironie contenute sulle
miserie e sulla grandezza dell’immaginazione
al potere, che caratterizzò quell’effimero frangente di storia, perché
racconta, in prima persona singolare maschile, con leggerezza, invidia, un po’
di back to the future, crudeltà e forse del sarcasmo triste, la storia
fantastica e sempre in bilico di se stesso e della famiglia Luchetti, papà mamma e due figli, guidata,
fino a un certo punto, perché il femminismo stava arrivando al galoppo, e
picchiava come cosacchi, dall’artista estremo, ‘marchigiano di Roma’, impersonato
e reinventato con la solita sottigliezza sguaiata, anche se il nome nel film è
diverso, ‘Guido’, da Kim Rossi Stuart.
Micaela Ramazzotti, Samuel Garofalo e Niccolò Calvagna in Anni felici |
Il vero papà di Daniele si chiamava
Luca, era scultore soprattutto di monumentali opere religiose, ma
pittoricamente molto più spericolato, fino a sfiorare l’happening più
conturbante, e morì giovanissimo nel 1993. Il film sembra un po’ il remake a colori
e con molte più donne nude (perché erano gli anni di Escalation, Ultimo tango
e Nude at the Restaurant), e senza intenti sovversivi (Rulli e Petraglia al copione ne sono una garanzia) di Morire gratis, l’opera unica di Sandro
Franchina, uno dei pochi thriller ambientati nel mondo dell’avanguardia romana,
protagonista Franco Angeli, a cui Kim Rossi Stuart deve aver risucchiato non
poco nel tono, nella voce - ma qui balbetta - e nei gesti (droga a parte, ma credo che Cattleya non avrebbe permesso) per delineare
la soggettività desiderante di quelle stagioni estremamente estremiste ed edoniste e
l’annoiata operosità di una personalità di labirintico candore. Che voleva, ma
non poteva, essere dark (e qui si ruba qualcosa, ma nello sguardo registico
obliquo, si ode anche il mormorio romanaccio di Alberto Sordi).
Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti |
La differenza è tutta nelle loro
automobili. Quella di Kim viene presa a calci dai ragazzi perché è uno scassone
di utilitaria immobilizzata ai piedi di Regina Coeli, e trasformata in lamiere
da gioco (è il momento più alto dal punto di vista della performance d’arte di
tutto il film, litigio con la trasteverina compreso). Quella di Franco Angeli,
stracolma di polvere di stelle, era una spider degna del Sorpasso che volava vertiginosa al centro del più turbinoso dei
momenti rivoluzionari, in pieno 1969. Ma come film in costume tanto di cappello
allo scenografo (al parrucchiere un po’ meno) per le auto i pantaloni
scampanati e le camice a fiori.
Daniele Luchetti |
Anni felici è
un film, più che recitato, giocato d’azzardo da un poker di attori affiatato:
Guido e Serena, marito e moglie trentenni (Kim Rossi Stuart, nervoso e
ambizioso ‘trasteverino’ di adozione, e Micaela Ramazzotti, la nostra, più
morbida, Hilary Swanck) e i loro figli Dario e Paolo (Samuel Garofalo, più
timido, 10 anni, che è il moretto Luchetti jr. in persona, e lo snodato Niccolò
Calvagna, più sfrontato, riccio e capellone, 5 anni, di sicuro avvenire). Sullo sfondo modelle
bisex, critici d’arte crudeli ma giusti, galleriste dionisiache, la Camargue
ventosa, le nudiste di Provenza, ma anche mamme e zii piuttosto ‘convenzionali’…ma il solito modo di girare di Lucchetti che permette poi una certa scioltezza al montaggio (scena in tono drammatico, stessa scena in tono semibuffo...).
Martina Friederike Gedek e Micaela Ramazzotti |
Già. Una cosa che mi ricordo con
stupore, frequentando i concettuali dell’epoca, assieme a Carlo Deleo, giovane
artista immigrato emergente, il cui sogno era costruire un gigantesco
arcobaleno da piazzare fisso a Ostiense e delle scatolette Simmenthal di vetro,
era proprio il rapporto intenso, quasi pesante, di ognuno di loro, e che a noi sembrava piccolo
borghese, con la famiglia. “La domenica, sempre con la mamma e con il papà, a
Cinecittà”, ci diceva Sergio Lombardo. Mah. E Carmelo Bene, sempre con la
sorella. E Alighiero Boetti che costruiva per i figli in gigantesche stanze
soldatini, a migliaia… Noi abituati a Warhol, Kossuth e a quelle comuni
sovraffollate e promiscue, house mai home, verniciate di glam culture, non ci
capacitavamo. Ma gli artisti concettuali come i loro antenati dell’arte povera
erano di qualche generazione precedente. Solo Mario Schifano ce lo immaginavamo
isolato nel suo loft, come un conte Dracula sulle barricate, fiancheggiatore irriducibile
del Maggio francese.
Micaela Ramazzotti, Samuel Garofalo e Kim Rossi Stuart |
Torniamo al film. Serena, la mamma,
è rampolla di ricchi commercianti romani. E lasciamo perdere i commenti cliché
su questa corporazione che, da 8 anni, è cambiata, e finanzia perfno la cultura e il festival-festa
di Roma. La sua sola (fragilissima) àncora di salvezza è Guido, che ha per
mamma Benedetta Buccellato. Lei lo maltratta proprio come ha trattato la
Daddario: “non vali niente, non sei colto, non sei artista, non hai dignità,
non farai mai nulla nella vita, non venderai mai un quadro, proprio come tuo
padre”… ‘Ma era solo per non farti dormire sugli allori’, si scuserà quando
orami è troppo tardi, davanti a un Guido infuriato che, insofferente, rompe per
sempre e fugge via sbattendo la porta.
sul set di Anni felici, in Camargue |
Guido, infatti, è un artista più
impulsivo che cerebrale. Insegna all’Accademia a non essere accademici. A non
vendersi. A non farsi comprare. Anche se il suo amico (colluso con la
pubblicità), e scusandosi perché ogni tanto fa i soldi con i suoi disegni pop,
ci terrà a precisare: “ma io non sono un venduto, sono un comprato!”.
Guido è sedicente membro dell’avanguardia
pura e dura (strano, così non erano i concettuali più flessibili, vedi Pino Pascali
che lavorava anche placidamente per
Carosello). Forse per questo non ha ancora sfondato su Flash Art. Ma ce la mette tutta. E Serena lo ama pazzamente. Deve
aiutarlo per fargli venire l’idea giusta al momento giusto, quella che ammalierò i
critici di tendenza (e farà scrivere loro: “è l’oggetto d’arte che ti vede, e
questa volta mi ha visto, preso, conquistato e sconquassato dentro”), per
conquistare il top, la sera della vernice,
per provocare un terremoto simbolico simile alla ‘merda d’artista’ di Manzoni.
Niccolò Calvagna, Samuel Garofalo e Micaela Ramazzotti |
Ma come fare? Neanche a un happening alla Triennale di Milano (ma un po' di spirito contestatario? niente, sparito, nessuno oggi capirebbe si saranno detti Rulli e Petraglia che, in realtà, neanche allora erano proprio sulle barricate), quando fa come Francesca Woodman e si
spoglia tutta per dare grinta e pathos all’istallazione un po’ rigidina del
marito, verrà presa sul serio. ‘Trovatina oscena’ dirà il critico
(schiaffeggiato) tanto per far la parodia manesca di Toni Servillo, alle prese
con la performance politico-patetica della finta ‘Abramovich’, nella scena
peggiore di La grande bellezza.
Kim Rossi Stuart, Samuel Garofalo e Micaela Ramazzotti |
Guido ha invece bisogno di
deviazioni maleodoranti, di diventare ‘cattivo’, traditore, infido,
inaffidabile, bugiardo, infedele. Ecco il perché di quel letto nel suo atelier
di via delle Mantellate…. I due figli sanno tutto. Sono esposti a tutto. Sono
trattati da grandi. Avranno più difficoltà a ‘uccidere’ i genitori. Luchetti ce
l’ha fatta, mi sa solo con questo film. Anzi nella scena in cui il suo piccolo alter ego
urla ai genitori in rotta: Stronzi! Siete proprio stronzi! perché capisce che la storia d’amore tra Guido e Serena è proprio finita e che
loro vedranno separarsi per sempre il papà e la mamma, e si butterà in mare e, salvato, chiamerà Serena per la
prima volta mamma.
la festa femminista in camargue |
Il fatto è che la deviazione di papà
– avevano confessato candidi, non possono mentire - non si chiama solo Michelle, come la
modella di un biancore danese, ma anche… Pure Heidegger si sarebbe scusato così
con sua moglie: loro, le amanti tante e varie, non sono niente, ‘solo una grattatina al
naso’. Ma ho paura che Luchetti qui si accontenti di antropologia spiccia da
XXI secolo. Non è il modo di parlare dell’epoca che sconvolse il mondo. Forse non era neanche, quello, un
motivo di litigio in quegli anni di contestazione generale, e di esplorazioni
reichiane, e di esperimenti micro e macro comportamentale.
Micaela Ramazzotti e i ragazzi alla Triennale di Milano |
Ma. Per scusarsi Guido
abbozza quando la moglie sentenzia ‘io sono mia’ e se ne va in Francia, a
maturare una inconscia vendetta tra le braccia saffiche di Helke, la gallerista
di Guido (l’attrice Martina Friederike
Gedek). Sembra incoscienza. Invece è autoscoscienza femminista.
Definitivamente liberatoria… Anzi amore, cuore. Altro che grattatina al naso.
La famiglia in via delle Mantellate |
Come
Salvatores che si riappacificava con il padre in Mediterraneo, Luchetti in Anni
felici come anello di congiunzione biogenerazionale utilizza, è un
escamotage, la ‘pellicola morente’ in 35mm, 16mm e 8mm. E si ritrova come suo padre davanti alla
creta, ai colori, alla tela, al cavalletto e ai pennelli, strumenti ormai
inutilizzabili per catturare le forme nuove del mondo, per realizzare immagini, astratte
o figurative, sufficientemente critiche o almeno adeguate della realtà. Come Guido, anche Daniele
è costretto ad abbandonare i suoi strumenti di lavoro. Le scene in super otto pellicola kodak più
che per autoelogiarsi come bambino prodigio che vince un concorso, sono
utilizzate per ricordare/rievocare gli esperimenti fotocromatici e su pellicola
del padre, che faceva ricorso a elementi trasparenti e montava su supporti
tridimensionali: li ricordano sia le scene sue e della mamma in Camargue a passo ridotto Canon sia,
soprattutto, la sequenza-madre del film, il suo punctum erotico, la scena gioiello di Caludio Collepiccolo, il direttore della fotografia, in auto, quando le due donne si
abbandonano a fantasie sensuali e sessuali librandosi (immaginazione al potere) castanedamente fuori della macchina in corsa, come sdoppiate e danzanti nel post
orgasmo.
L'happening alla Triennale |
Il filo del gioco d’azzardo,
nell’arte, nella vita, nell’amore - si vince e si perde - e nel gioco non ci
sono più innocenti di altri, anche se si bara, immerge l’opera in un profumo
speciale transgenerazionale e patafisico.
Infatti, attenti alla cronologia. Si insinuano anacronismi che
spiazzano. Per esempio mai visti negli anni 70 tutti questi uomini con la coda
di cavallo da metrosexual serbo, solo per non farli somigliare a Casaleggio.
Luchetti, gran combinatore e assemblatore di forme avulse gioca con noi alla
macchina del tempo.
Micaela Ramazzotti |
Erano davvero anni felici, i primi
settanta, perché i decenni plumbei che ci stavano alle spalle li stavamo
cancellando a forza di humor, lotte e fantasia (anche se con non poche perdite
umane, e dopo stragi ancora senza nome e infinite provocazione fasciste
protette dalla polizia). Restavano gli occhiali scuri, anche di notte, perché quelli rosa erano stati gettati alle ortiche, come il principe Kim ci ricorda. Poi ci avrebbero scaraventato addosso nuovo piombo,
anche in forma di carcere e eroina e censure e esilio per molti (istigando
qualcuno alla trappola della risposta armata, che comunque fu inefficace, o
alla fuga del ‘profugo politico’, così ben raccontata da Roan Johnson).
Angelique Cavallari, nel film la modella Michelle |
Anni felici. Già. Perché in quei
mesi si lavorava instancabilmente (e in molti, e ovunque, in ogni nicchia del
sociale, giorno e notte, il tempo non esisteva) per trasformare la vita, per cambiare
il mondo, modificare le regole e le gerarchie della convivenza non autoritaria tra
le persone e cancellare gli orrori e le psicosi della famiglia patriarcale
tradizionale, per trovare nell’inferno ciò che inferno non era, per rendere
tutti artisti della nostra esistenza. Ed è solare e trasversale la maniera che ha scelto Luchetti
per rievocare quella scultura interiore d’epoca.
Happening alla Triennale di Milano |
Che poi era questo il grande
scandalo libertario degli artisti concettuali, dei colleghi più famosi di Guido
(che poi liberamente si ispira al padre vero di Luchetti, artista concettuale),
da Manzoni a Kounellis, da Fabro a Pascali, da Lombardo a Mattiacci: trattare
la mente come se fosse uno schermo dipinto dal mondo e affidare alla ricezione
dello spettatore il compito di agirvi sopra, di dare un finish a quello
schermo, deformandolo, quel mondo, rovesciandolo, perché la libertà non può
esistere finché qualcuno è oppresso… Un metodo da fisica quantistica.
Kim Rossi Stuart con la tenuta da lavoro |
E poi lottavamo in maniera speciale,
internazionalisticamente, una parola che Renzi non ha mai sentito, anche gli
artisti ‘poveri’ e neodada, per cancellare la guerra in Vietnam (che poi fu
l’unica nostra vera vittoria, assieme alla nascita del movimento rivoluzionario
femminista e di quello per i diritti gay&lesbian). Il maschilismo, allora
come oggi, di pessimo gusto, nella sua versione latina-matriciana-mammista era
davvero annidato ovunque. Come Luchetti ci indica.
Kim Rossi Stuart |
Anni felici parla
di tutto questo, ma indirettamente, non lo mostra full frontal. Come fanno i
film davvero politici. Certo ghigna e gufa anche un po’ contro quegli anni. Ma
come dargli torto? Certo tanto divertimento (chissà che belli i giocattoli di
un rampollo d’artista!). Ma anche troppi drammi seri da affrontare quando
artisti o meno i genitori ti trattano per pigrizia come loro coetanei. O non
vedendoti proprio (finché non ci si butta in acqua per farli reagire). Ecco
dunque la verifica incerta degli effetti
collaterali (e anche dei danni collaterali) che la super ribellione provocò: molti
figli di quegli anni un po’ storti lo sono rimasti. Ci sono solo sullo sfondo i
manifesti No! e i giornali che ci
informano della grande battaglia sul divorzio di quei giorni. Ma l’incubo di
essere abbandonati, cavallo di battaglia della destra, non superava certo l’incubo
del litigio urlato, della lotta continua in tinello.
Siamo sfiorati da agganci delicati,
citazioni anzi più allusioni ai film eversivi dell’epoca, come Blow up (le nudissime modelle swinging e
beat dell’artista, qui Angelique Cavallari fa Jane Birkin) o addirittura ai
documentari sulle provocazioni, tuttoggi scandalose, degli akzionisti
austriaci, con le loro eco-comuni blasfeme pre Avatar, le performance per strada destabilizzanti, gli happening
selvaggi e trib
Kim Rossi Stuart sembra uscito, ancora perplesso, da
quell’aula magna di lettere della Sapienza gremita che Julian Beck cercò di far
spogliare, mille persone tutti insieme, via i vestiti! e fu fermato solo
dall’arrivo della questura bigotta.
In
Austria se non ci fu lotta armata lo si deve a Brus e Schwarzkogler. Gettarono
sul loro corpo, autoimmolandosi, tutta la malignità post hitleriana
circostante. Si violentarono per impedire violenza. Un po’ alla Pasolini. Da
noi non bastò. Come neppure le opere che urlavano un grande sì alla vita (e non
inconsapevole) di Merz, Pistoletto e Paolini, perché penetrarono con più
difficoltà nel sistema nervoso del paese, ancora protetto da una scuola e da
una chiesa disperatamente tuttora patetiche (Francesco e i beati di Spagna!). E poi ancora, certo incosciamente, non mancano
omaggi a Blind Date di Yasuzo Masumura,
nella scena finale, di fronte alla gigantesca statua umida della Super Donna, che
l’artista ‘cieco’ giapponese utilizzava per concupire ragazze….
Daniele Luchetti sul set di Anni felici |
Le lotte sono dietro lo schermo e
davanti. Anche perché quegli anni sono visti da due angolazioni particolari e
sguardi divergenti. Gli occhi e il cuore di un bambino di dieci anni (l’età di
Luchetti allora). E lo stesso regista, anche in voice over, che oggi li
commenta. Commenta la sua vita da cucciolo. E le conseguenze degli anni
ribollenti sulla vita coniugale dei genitori. Che si divisero, pur amandosi,
per sempre, e pur continuando a vedersi, sempre. Gli anni felici li avevano
modificati irreversibilmente. Un bene? Un male? Al pubblico la sentenza.
Il
film è uscito qualche giorno fa nelle sale con successo, a giudicare dalla
proiezione al cinema Eden di Roma, domenica scorsa, Dopo l’anteprima mondiale
di Toronto che Luchetti ha preferito al bailamme superficiale della Mostra di
Venezia. Per un film così privato (anche se lavora tanto di fantasia sui suoi
ricordi, e si vede) Luchetti si è giustamente concesso una ‘vernice’ a passioni
moderate.
Si maneggiano infatti nel film le più belle avventure morali e mentali
dell’epoca, il 1974, e cioè l’arte concettuale romana (che era un frutto
parallelo del movimento rivoluzionario, visto che i suoi esponenti migliori lo
finanziavano con le loro opere e lo arricchivano – vedi Schifano e Kounellis - con
la loro testa) , della febbre del ‘super 8’, che ci aveva reso tutti d’un
tratto, registi di cinema, e uno lo divenne davvero (Nanni Moretti), e dell’insorgenza
femminista che si stava ramificando nel tessuto intimo della società, pochi
giorni dopo il trionfo dei no che seppellì chi voleva cancellare la legge di
divorzio, finalmente passata.
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