lunedì 28 ottobre 2013

Rock fatale. Lou Reed, anche lui se ne va

di Roberto Silvestri 

Dovremo ora sopravvivere, maledizione, anche senza Lou Alan Reed, il cuore del rock and roll, come si intitolava il lungo video musicale noir che vinse il Grammy nel 1999. Ci basteranno i suoi dischi? I film in cui compare, come Prozac Nation? O Brian Bell che lo ritrae in The Factory Girl, il biopic di George Hickenlooper del 2006 sulla vita da eroina di Edie Sedgwick?  Gli oltre 200 lungometraggi dove si usano le sue song, dal 1977 fino a Flight di Bob Zemeckis? Passando per Berlin Alexanderplatz, Perfect, Le età di Lulu, Fino alla fine del mondo, V per Vendetta, I Tanenbaun, Juno, Trainspotting, RocknRolla, Beautiful Girls, Men in Black 3.....

Ma i giornalisti per Lou Reed erano tutti 'idioti e ignoranti'. Riusciremo a capire, almeno un po', da gazzettieri, perché quel suo rock denso, misterioso e obliquo ha cambiato il mondo, anzi ha inventato un altro mondo, parallelo e più vivibile? 

"La musica è tutto - diceva - La gente dovrebbe morire per la musica. Si muore per tante cose, non capisco perchè non dovrebbe morire per la musica". Anche la Metal Machine Music.

Reed, prima chitarra - e che strana chitarra la sua Ostrich guitar, con quel tremulo elettronico incorporato - compositore e voce, certo, il grande musicista di pelle nera (per la sua immancabile giacca da black panther) che venne da Freeport, Brookyn e si fermò nel Lower East Side, l'inferno dell'inferno del mondo, con capacità di scovare sempre ciò che infernale non è, il traghettatore del rock verso il punk, ovvero verso 'la dolcezza nella violenza', 'la vita fin dentro la morte', il barocco degli squallors. 

Heroin, Black Angels' Death Song... Come potevano le nostre band beat nazionali di allora cantare ancora Wolly BullySono un ragazzo di strada, Sha la la la la o E' la fine del libro, senza rendersi conto che si trattava, al massimo, di motivetti da Cantagiro? Ma Lou Reed vive la metropoli ruggente che soffre i tagli della spesa pubblica e vede morire per strada homeless e junkies a palate. Si difende con il t'ai chi.

Reed, il compositore deviante, per non finire nel burrone tossico scavato poi da quel freak a rota di potere di nome Ronnie Reagan negli anni 80, l'icona della modernità metropolitana indocile e resistente, certo non senza grandi mal di fegato, è morto ieri a 71 anni. Complicazioni al fegato, appunto.  Nel maggio scorso aveva tentato un trapianto.


E' morto lo stesso giorno del volo nel vuoto di un ragazzo romano che a vent'anni ha preferito uccidersi piuttosto che farsi sbeffeggiare perché gay. E Lou Reed passò alcune settimane in un ospedale, da teenager, perché i suoi genitori gli imposero di curare una 'innaturale' sessualità multipla con dosi massicce di elettroschock e psicofarmaci.


Ne esce, dall'incubo, grazie alla musica. A 14 anni nel 1958 entra nella doo-wop band The Shades.

Ma non è finita. Frequenta la Syracuse University, negli anni di Kent. Quando i marines invece di sparare al nemico esterno vietcong, troppo forte, preferivano sfogare le loro frustrazioni vigliacche uccidendo e spezzettanto gli arti dei ventenni americani nei campus. Altro che Lsd. Altro che occhiali rosa, hippies e figli dei fiori. Ecco perché trovava così noiosi e conformisti i Greatful Dead e i Jefferson Airplanes, anzi l'intera scena di San Francisco.

Già, Reed era anche Factory, cinema warholiano, l'attore, bigger then male, che ha impersonato Auden, una parodia di Bob Dylan, in Get Crazy (in Italia Flippaut), un capolavoro sovraculturale diretto da Allan Arkush, allievo della scuola di cinema della New York University, 'compagno di banco' di Martin Scorsese (vediamo i 9' di Lou Reed di Flippaut nel video di You Tube sotto il titolo). Ed è stato dentro The Brave con Marlon Brando, a fare l'indiano metropolitano nel film incompreso sugli snuff-movies e il nuvo schiavismo di Johnny Depp.

Franco Battiato che gli fece da spalla in un concerto tanto tempo fa lo ricorda ancora come un punto luminoso di riferimento totale, e con lui Nico. Un po' meno Cale, ego extra extra large, che se ne andò presto infatti. E questo per ricordarne la grandezza di sound.


E non sarà facile adesso, Sunday Morning, muoversi con la stessa disinvolta libertà, senza essere teleguidati da quegli occhi prensili e saggi nascosti perennemente dietro occhiali scuri così poco autoritari. I primi Google Glass della storia.

E' dal 1964, anno di nascita della band The Velvet Underground, formato con il multistrumentista gallese John Cale (organo, compositore, contrabbasso), dalla seconda chitarra Sterling Morrison (tromba classica, anche) e dal batterista Maureen "Moe" Tucker, dai concerti al Café Bizarre di New York City, che la musica hard-pop non è più la stessa. 

Si blobbizza, globalizza, snazionalizza, smaterializza nel format. E' in mutazione perenne. Sostanza spessa e gelatinosa, corpo armonico incandescente che penetra ovunque. Berkeley e le sue lotte furiose hanno rotto gli argini della canzone, suoni e rumori dilagano, slabbrano, debordano nella vita, i Fugs azzerano tutto, Jimi Hendrix va a Londra, inseguito dall'Fbi, Reed si nasconde nella giungla (la banana...) inseguito dalla scimmia sulla schiena. The Exploding Plastic Inevitable. Lo show di Warhol che li lancia. Ma non ne inventa il nome favoloso. E anche il repertorio è tutto pronto, compresa Femme Fatale.

Una copia di quell'istallazione teatral-musicale è anche a Salemi, in vhs, fa parte del fondo Kim's che Sgarbi e Oliviero Toscano hanno acquistato dall'esercente di musica e cinema underground coreano-americano che ha svenduto gli interi magazzini dei suoi due bei negozi off off off di Manhattan, anni fa. 

Subito dopo il primo long playing, prodotto con Tom Wilson. Come cantante arriva la voce androgina e barbara di Nico Otzak, venuta dalla mitteleuropa e dall'oltretomba, capelli biondi imprecisati che sedussero Federico Fellini. Li catturò nella Dolce Vita. The Velvet Underground and Nico (1967) è un album miliare, ma anche un film, che è al centro di quello "show exploiding". Nico resterà nella factory (Closet, The Chelsea Girl, Four Stars, I, a man). Reed no. Sui misteri di Nico, sulla sua relazione con Reed e con Garrell, vedi il libro di Augusto Illuminati, e il film di Garrel Non sento più la chitarra, dove è il suo fantasma il protagonista (e in Le lit de la vierge canta una canzone, ed è l'interprete principale di La cicatrice interiore e Le bercau de cristal).

Dopo "White Light/White Heat" (1968) e "The Velvet Underground" (1969), con il mirabile "Loaded" (1970) c'è David Youle (organo, piano, basso, batteria, chitarra, voce) al posto di Cale in un crescendo di glamour, finezza concettuale ma anche gelida fluidità accademica...Litigio. Reed e Nico se ne vanno lasciando Sterling Morrison da solo.  

E, dal 1970, Lou Reed non è più Velvet né Underground. Il suo secondo album è prodotto dai due grandi fan dei Velvet, David Bowie e Mick Ronson, e si intitola "Transformer" (1972), con la canzone "Walk on the Wildside" che arriva nelle Top 20. 

Degli anni 70 sono gli album "Berlin" (1973), "Rock 'n' Roll Animal" (1974) e "Street Hassle" (1978). Nel giorno di San Valentino del 1980, inizia una nuova fase. Reed sposa Sylvia Morales e azzecca l'album "The Blue Mask" (1982). Nel 1989 con "New York" scrive una lettera di amore e odio alla sua città, dove l'urlo è soprattutto contro una civiltà e una ideologia, l'americanismo, malato e in crisi. 

Si va sempre per decenni in America. Gli anni 90 lo rivedono al fianco di John Cale. "E' matto, sarà perché è gallese, ma è un grande musicista e spero che un giorno sarà riconosciuto come il Beethoven dei nostri giorni", dirà Lou Reed del suo compagno.  E' "Songs for Drella", elogio funebre dell'amico Andy Warhol, Dracula più Cindarella, che li riunisce.  Dal 1993 The Velvet Underground rinascono e vanno in tournéé europea. Dal 1995 Lou vide con la musicista, videoartista e performer Laurie Anderson. Lou Reed, John Cale, Maureen Tucker e Sterling Morrison sono ufficialmente membri del 'Rock n roll hall of fame' di Cleveland, Ohio. Nella classifica di Rolling Stone i Velvet sono al 19° posto di sempre nella classifica degli artisti di Rock'n'roll più grandi.

Senza "Kill your sons", "Sweet Jane" o "Satellite of Love",  Sonic Youth, Nine Inch Nails, U2, David Byrne e Patti Smith non sarebbero gli stessi.E anche molti di noi.






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