sabato 12 ottobre 2013

Lizzani, l'ultimo atto. Da svitato saggio.

di Roberto Silvestri

Cos'era il neorealismo? Una finestra aperta sul mondo. Girare fuori dagli studios, to shoot, "sparare", ma con l'accortezza, la sensibilità e la capacità di aprire spiragli, di fare in modo che fosse vita a prendere il posto di comando, che introducesse nell'azione qualcosa di imprevisto nel copione. Che fosse lei a catturare le immagini. Ma "una finestra aperta sul mondo", il consiglio che Rossellini dava ai giovani cineasti, è anche una terribile tentazione esistenziale...

Proprio come un suo amato collega, Mario Monicelli. Un salto nel vuoto. A 91 anni. Improvvisamente, con la badante accanto e una moglie lontana, ricoverata da tempo, Carlo Lizzani ha interpretato diversamente quel consiglio. Più tragico ancora, l'esito di quel momento di vertigine. Non è morto sul colpo. Terzo piano, nono piano. C'è chi (un giornalista radiato dall'ordine) ha fatto dello spirito 'meritocratico' su questa differenza, ossessionato dal suo servilismo vero i piani alti. Altri, complottisti, stanno ripensando ai progetti di Lizzani, al suo film annunciato sulle intercettazioni telefoniche. E in Italia a pensare male si fa peccato ma non si sbaglia mai....

Però. Insieme, Lizzani e Monicelli, avevano fatto parte del più rivoluzionario movimento della storia del cinema, anche perché ha continuato a ispirare cineasti di tutto il pianeta fino ai giorni nostri. E i giovani filmaker si erano molto interessati a lui. Da Francesca Del Sette, autrice di un appassionato Viaggio in corso nel cinema di Carlo Lizzani (2007) a Antonello Aglioti, Il come eravamo di Carlo Lizzani (2008).  E Lizzani ha fatto parte anche della folta band anti-global a part di Un mondo diverso è possibile, a Genova nel 2001, per assistere, davanti al cadavere di Carlo Giuliani, all'ennesima dimostrazione del teorema Italia.


Questa morte così annunciata (Lizzani non era a Venezia per presentare il suo ultimo film, come attore protagonista, e sembrò strano) si poteva già intuire tra le righe del set in cui è ambientato Non eravamo solo ... ladri di biciclette - Il neorealismo, il documentario di Gianni Bozzacchi, musiche di Pino Donaggio, presentato nella sezione Venezia Classici, con Lizzani voce recitante che ne spiega origini e innovazioni linguistiche, come quasi ultimo testimone e superstite di quella grande generazione di artisti (con Enzo Staiola e Giuseppe Rotunno, intervistati nel film).

Gianni Bozzacchi e Carlo Lizzani sul set di Non eravamo solo...ladri di bibliclette - Il neorealismo
Una stanza. Un ufficio, presumibilmente la casa romana di Lizzani al terzo piano in via dei Gracchi. Tutt'attorno libri e tre finestre spalancate. E le finestre erano gli schermi dei classici neorealisti, da Paisà a Sciuscià a Roma città aperta.  Da Riso amaro a Il sole sorge ancora a La terra trema. Carlo Lizzani, per la sua lezione finale intervista anche Ermanno Olmi, Paolo e Vittorio Taviani, Bernardo Bertolucci, Umberto Eco, Franco Interlenghi, Antonella Lualdi, Paolo Galluzzi e Martin Scorsese.

La stanza della 'casa di Lizzani', e la finestra spalancata, dove si è girato il suo ultimo film come attore. 
In Germania anno zero, di cui Lizzani fu aiuto regista, e girò molte sequenze, la vita disperata e strappata alla felicità del giovane protagonista finisce con un ultimo volo. La vita di Lizzani è stata felice. Ha realizzato il suo sogno di bambino, eccitato dalle avventure in giro per il mondo. Ma forse non si sentiva più in grado di contribuire all'ecologia dell'immagine, "a quei focolai di autonomia fertile, nell'universo digitalizzato che ci avvolge come una ragnatela morbida, che le nuove tenologie offrono agli individui e ai piccoli gruppi". Non si sentiva più giovane come 5, 6 mesi fa.

Lizzani e Bozzacchi
E torniamo molto indietro nel tempo.

Blade runner, al palazzo del cinema del Lido di Venezia, e anche all'Arena, fu un avvenimento epocale. Mai vista tanta gente vera spingere entusiasta per entrare. E così a E.T. per Patti Smith, per Meredith Monk...  Dal 1983 al 1987, anche se eravamo nel decennio del riflusso, chi andava alla Mostra di Venezia, per lo più anime belle, non se ne accorgeva di certo. Continuava la rivoluzione.

Blade Runner
Infatti. Quando Carlo Lizzani - il cineasta ex neorealista, militante della sinistra seria ma moderata, considerato "il più americano dei registi italiani" per la flessibilità con la quale si dedicava ai generi più disparati e all'instant-movie - e il più vicino a Antonio Pietrangeli per gentilezza e finezza d'animo, è diventato direttore della Mostra di Venezia, ne fummo tutti contenti. Tranne i tanti reazionari ringalluzziti agli inizi degli anni '80, nonostante tutto. Quelli che trovavano le sue storie del cinema italiano troppo di parte.

Erano stati loro, non altri, che avevano reso plumbeo il paesaggio, e avevano deviato di senso l'espressione anni di piombo. Che sarebbe come dire che la guerra dell'oppio l'hanno voluta i cinesi imperiali e non gli inglesi democratissimi per lucrare sulla droga.

Più la dinamite senza rivendicazioni della Banca dell'Agricoltura di Milano che le pallottole, quasi sempre di illegittima difesa, ma sempre così scrupolosamente griffate, avevano disegnato la grana interiore del decennio precedente. Che, stragi e esecuzioni a parte, era stata soprattutto una stagione di lotte pacifiche, incantevoli, di massa, squilibranti antiche servitù. E aveva provocato irreversibili vittorie collettive e un capovolgimento nell'immaginario sociale salutare. Proprio come portare Lizzani al vertice della Mostra.

Perché Lizzani (1922-2013), prestigioso ex aiuto di Rossellini e De Santis (era lui a ballare il Mambo in Riso amaro, non Gassman), sceneggiatore e documentarista cosmopolita, infaticabile e acuto storico del cinema, anche attore e filmaker della storia, critico e autore originale di opere, tutte 'in costume', sempre impegnate a capire la cronaca, i retroscena e gli aspetti segreti del mondo, a 'rimettere in forma' la realtà (non è questo forse il segreto neorealista? Saper cambiare continuamente i connotati di un film, la sua grammatica e la sua sintassi, perché il mondo cambia e a molti villain fa comodo che sia indecrifrabile), poteva riportare in pochi anni Venezia al centro dell'attenzione generale. Intanto per il suo carattere. Un gentleman colto e dotato di grande senso dell'umorismo e della decenza. Attorno a lui si capiva subito, nello staff, chi maneggiava e chi trafficava.

Eravamo certi insomma che Lizzani avrebbe potuto dare una sintesi, in avanti, alle lotte contro l'arcaico e inadeguato carrozzone del Lido, anche avvalendosi del nuovo Statuto della Biennale, più aperto ai contributi della società civile e alle forze  creative, non rappresentate ancora nelle istituzioni.

E dunque lo Statuto nuovo permetteva collegamenti non tanto con i padroni del cinema e con via delle Zoccolette di Roma (sede dei mefitici maneggi dello staff eterno del Ministero dello Spettacolo) e ai commercianti demodé dell'Anica-Agis (in quegli anni completamente fuori dal mondo). O solo con i sindacati del cinema, con l'Anac, i registi Pci, e con Cinema Democratico (quelli più vicini all'estrema sinistra), ma soprattutto con lo sguardo creativo e ammazzacattivi dei metalmeccanici di allora, la 'vil razza pagana' molto turbolenta e fantasy, e dunque anche con i movimenti antisistemici dei club-cinema off off, altrettanto 'informali' e ribelli rispetto alle adesioni confessionali e ideologiche del d'essai embedded: i cineclub finanziati dallo stato, le riviste e il pensiero cinematografico tradizionale e mainstream che era o cattolico o social-comunista. Non c'era terza via oltre Ucca, Ficc e compari.

Ma era nata nel frattempo la Liaca, la lega delle associazioni culturali autonome: i romani del Filmstudio, L'Occhio l'orecchio la bocca, Il Politecnico, che Nicolini avrebbe convocato a Massenzio; il Movie club di Torino, il Cinema Zero di Padova, le altre realtà aggiornate di Bari, Napoli, Genova, Firenze... Non a caso il compagno d'arme, il Lin Piao di Lizzani in quella avventura fu Enzo Ungari, un grande 'mangiatore di film'.

Chi era Ungari, prima di sceneggiare L'ultimo imperatore, il kolossal Oscar di Bertolucci? Un giovane turco di La Spezia, anima con Aprà del Filmstudio, ex critico a la page della più avanzata rivista di cinema italiana di sempre, Cinema e Film. E soprattutto il nemico pubblico numero uno del quotidiano 'revisionista' La Repubblica (allora impegnata anima e corpo anche in una patetica campagna contro il cinema trash come quella che Antonio Monda sta conducendo contro Godard da qualche anno con lo stesso impeto di Villaggio contro Eisenstein), per la sua sempre attenta e costante ricognizione e rivalutazione del cinema di genere Usa, di Soukaz e del gay-movie, dell'horror e perfino dell'hard e delle nouvelle vagues di Calcutta, Tokyo e Tunisi, di Warhol e dell'underground, di Antonioni ma anche di Jancso, Siegel, Aldrich e Philip Kauffman.

Una strana coppia davvero, Lizzani-Ungari. Fu il colpo di genio svitato del regista di Crazy Joe e Nucleo Zero, Mamma Ebe e Caro Gorbaciov, per ricordare i suoi film del periodo. E anche del film (precedente) che io preferisco su tutti, dal titolo emblematico,  Lo svitato, con Dario Fo e Franca Rame, 1955, che apriva alla commedia demenziale, costola eretica dello scherzo futurista, e edificava una (incompresa) strada avveniristica (poi interrotta), tra Italo Calvino e Enzo Jannacci, tra Aki Kaurismaki e John Landis.

Gli perdonammo perfino il cedimento su due punti importanti del sessantotto veneziano e delle 'Giornate' organizzate in Campo Santa Margherita da Pier Paolo Pasolini e Marco Ferreri. Il ritorno dei premi, del Leone d'oro e perfino della indigesta 'Coppa Volpi' (giustificato dal fatto che a molti cineasti nel mondo, e soprattutto ai più indipendenti e 'indifesi' dei tre mondi, serviva per battere ostilità censorie e politiche in patria) e la dizione 'Mostra d'arte cinematografica' che era parsa un po' antiquata in epoca abruzzesiana proprio perché il cinema stava diventando così expanded e altro, e ci pareva troppo restrittiva.... Marco Mueller e Quentin Tarantino avrebbero scandalizzato, alla Ungari-Lizzani, anni dopo molti benpensanti d'autore aggirando la nozione di arte, e penetrando nei territori ancora inesplorati dell'Arte Estrema e Oltre (con il western spaghetti, l'horror e il fantasy tricolore, il celentanismo, etc...). Ma sono altri i nemici di Venezia.    
  
Chi l'aveva affossata irreversibilmente, la Mostra d'arte cinematografica, non erano certo stati i sessantottini e l'assemblearismo luddista (magari), o gli adepti della religione Cinema Bis, perché la crisi era precedente alla contestazione generale (che tanto aveva terrorizzato perfino Carmelo Bene, adoratore dell'intoccabile statuto fascista perché garantiva meglio, secondo mister Paradosso, che si tenessero fuori dai piedi ignoranti superbi,  clientele prepotenti e portaborse dei politici. Mah: in effetti nel direttivo artistico dell'ente mussoliniano c'era tutto l'establishmnet ebraico di Hollywood, da Warner a Mayer...e Carmelo divenne direttore proprio grazie a quello statuto) e la Biennale rischiava di essere ridimensionata nel calendario internazionale per cecità e ottusità congenita. Rischio che corre tutt'oggi.

Un esempio. Negli anni 50 la Mostra del cinema aveva rimesso nei posti di direzione selezionatori precedentemente epurati, cioé alcuni impenitenti alti fascisti prebellici. Non a caso alcune perle proiettate provenivano, per esempio, dagli archivi dei loro amici neonazisti di Pretoria. Vi ricordate quei ridenti documentari sugli animali con tanto di servitori neri schiavizzati allegramente? Passavano, prima che in tv, al Lido. Un altro esempio. I tanti yes che Ca' Giustinian spedì all'ambasciata americana ogni volta che Clare Booth Luce (ambasciatrice di Eisenhower dal 1953 al 1956) o altri mettevano il veto su un film anti americano. E che dire delle tante censure e dei tanti favori di partito che poi sarebbero ripresi con foga nell'era Craxi e Martelli e Biscione e Veltroni.

Fu davvero Enzo Ungari, che tra i cinefili responsabili dell'Estate romana e di Massenzio era il più radicale, eccentrico e estremo, a segnare quegli anni. E Lizzani lo utilizzò saggiamente - era un ex comunista uscito nel 56 dal partito - per smantellare i residui settarismi estetici e il decalogo aristarchiano (ormai baipassato dal neocapitalismo) che impedivano di rilanciare non solo la Mostra ma il nostro cinema, sempre asservito ai diktat dei partiti e dunque delle loro creature, Rai e, l'altra metà del Leviatano, Cinecittà.

La terza eresia di Lizzani fu quella, più tardi consolidatasi in dichiarazioni molto scandalose e opinabili, di 'aprire a Berlusconi', di non criminalizzarlo, di smetterla di farne una ossessione unica. Dando la colpa per la paralisi del nostro cinema più a se stessi, alla sinistra, inetta quando si entra nella stanza dei bottoni, che al nemico, commercialmente - in fondo - corretto, criminale per essenza, come ogni capitalista.

Ci fu chi vide in questa svolta senile (ma Lizzani è stato un eterno giovane fino a pochi mesi prima del tragico suicidio) una tecnica per giocare televisivamente su due tavoli utilizzando un 'pensiero' che si stava facendo sempre più unico e comune. Quello del trionfo dell'ideologia di mercato, della fine della speranza rivoluzionaria e della seduzione contagiante e rampante per un altro tipo di avidità senza scrupoli 'esotica' per noi, il conte di Cavour a parte: il liberalismo sfrenato.

Lizzani resta infatti uno dei nostri cineasti più prolifici (e guardiamo la lista infinita dei suoi progetti rimasti sulla carta...). Ma quel che più ossessionava il filmaker romano, anzi di piazza Navona, svezzato a Bernini, Borromini e Pietro da Cortona, era la salgariana avventura, il girare per il mondo alla caccia grossa delle storie che fanno la Storia. Fare cinema per girare il mondo, non viceversa, la sua massima. Munito di spirito critico innanzi tutto. Un Roger Corman senza factory (purtroppo), senza gusto per il genere pulp (western escluso) e di sguardo e cuore molto più moderato (Germania anno zero a parte), ma che si è costantemente interrogato, più esplicitamente rispetto al papà della New World, sui nodi chiave del grande secolo: le periferie (Ai margini della metropoli, un Sacro Gra 'ante litteram', la rivoluzione russa, la sua grandezza e le sue degenerazioni (Bucharin, Ignazio Silone), la questione meridionale, l'emigrazione, lo sport, i briganti, la mafia, i Savoia (Maria Jose), la rivoluzione napoletana del 1799, Roma antica, il fascismo (è stato balilla e frondista), la guerra partigiana (Achtung Banditi! e Cronache di poveri amanti, Il gobbo), le lotte contadine e operaie, il neofascismo (Torino nera, Roma bene) e la criminalità 'non politica', con un suo codice morale altrettanto spesso (Svegliati e uccidi), la prostituzione, le personalità carismatiche, lo star system (Edith Piaf, a teatro), il maoismo (che non ha mai troppo compreso, anche se realizzò La grande muraglia nel 1953, uno dei primi lavori sulla Cina liberata), il nazismo, l'Africa, il cinema (Celluloide...)...

Attenzione. Sempre guardando ai margini, ai lati dell'inquadratura, ai dettagli, al fuori fuoco, al 'secondo piano'. Non ai protagonisti, per quanto neorealisti fossero. Ma agli ultimi degli ultimi. Non per populismo. Ma con la stessa passione usata come radioamatore, curiosità per la voce fuori dal coro, per voglia di contact con l'umanità oppressa eppure in qualche modo più charmant degli oppressori.  




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