venerdì 12 gennaio 2018

Grazie cugginu. La guerra dei cafoni. E come distruggerli per sempre.

Lu cugginu. Il giustizie della notte del film 
Stasera e domani all'Apollo 11 di Roma da non perdere

Roberto Silvestri

La guerra dei bottoni, certo. I ragazzi della via Pal, pure. Chi non ha fatto parte di bande da piccolo? Mods e rokers, poveri drastici contro poveri in stato d’allarme. Straccioni fieri di esserlo contro straccioni ripuliti che non si compiacciono della loro degradazione. Le pink ladies di Grease… Raramente poveri contro ricchi. Ma di tanto in tanto si fanno incanti e tradimenti. Epici e poetici. La grande tradizione dei paladini e dei saraceni. Degli ariani e dei caucasici. Del cinema di prosa che si inquina con il cinema di poesia.


Prendete una spiaggia elegante del sud, tallone d’Italia. Immaginaria. Chiamata Torremata. Fatene uno spazio astratto formato dalla confluenza di Manduria / Cesarea Terme / Otranto / Torre Guaceto / Vernole / Torre Chianca / Melendugno / Grotta della Monaca. Perché la segnaletica turistica è vera e vegeta. Se ci fosse l’odorama, si sentirebbe il profumo nordico, in senso barese, di Nico Corasola, delle sue masserie, dei suoi olivi, dei suoi pozzi, del suo tufo, del suo mare, delle sue viti, delle sue barche (qui fotografati da Duccio Cimatti, con adorazione degna del governatore Emiliano).

Prendere la parola e riprendersi il desiderio di urlare 
Ci sono le torri spagnole del 500 lungo tutta la costa salentina. E ci sono i bunker nazisti sradicati, ma sopravvissuti alla seconda guerra mondiale. Come allora. Ma c’è gente, ancora oggi, che non ha problemi a pagare 50/100 euro al giorno per ombrelloni e lettini. Tutti gli altri si mettano attorno, al di lù del “muro”. Gratis. Appollaiati sulle rocce. A guardarci. Per esempio vicino a Otranto. Dove Ennio Capasa e Costume Nationale hanno la sua beach-chic. Si chiama sudore di classe. Tutto, però, viene affogato dalla musica sparata a oltre 90 decibel per la delizia dei bagnanti (borghesi o meno). Nessuno si lamenta… Le orecchie non hanno più coscienza di classe.



Si aggira nelle sale italiane di primavera uno strano e indecifrabile film-commedia, o film-fiaba, o film-lotta-di-classe, o film-Giffoni, o film-romanzo di formazione, o film-Romeo&Juliet, d’ambientazione balneare salentina da delirio di film commission, diretto nel 2015 da una coppia di registi molto amati negli ambienti underground e del cosiddetto cinema del reale, Lorenzo Conte e Davide Barletti, al loro secondo lungometraggio di finzione, 10 anni dopo Fine pena mai. E da tempo non leggevamo recensioni così libere e penetranti, poetiche e argute, capaci di risalire il corso del Mito, dell’acqua, del fuoco, della terra, su una nostra produzione (che ha già conquistato molti festival europei importanti, come Rotterdam).

La Mela della discordia 
Già questo è sintomo di un oggetto d’affezione che si colloca nel “fuori schema” e fa bollire le penne. Non è cinema carino. Non è commedia da prime time tv. Non è la scoperta di un nuovo comico. Niente di tutto quello che vediamo di solito.
La guerra dei cafoni, intanto, è il suo titolo. Fuorviante. Perché di cafoni ne abbiamo talmente fatto indigestione da oltre 20 anni in tv e sulle radio pubbliche e private, dove si sono arrampicati fino ai vertici creativi, e regnano a Sanremo, che l’idea di vederceli glorificati e addirittura romanzati sul grandissimo schermo turba non poco. E’ un promemoria per il pubblico, certo, ma potrebbe sembrare controproducente. Se.


Però qui si tratta di cafoni in senso stretto, “classico”, pre-pasoliniano catapultati quasi ai giorni nostri (c’è un flipper Williams, addirittura… un’Ape, un culto demodé per le bandiere rosse o nere … insomma siamo alla metà degli anni 70, della vil razza pagana, dell’operaio-massa che vuole tutto e subito, qui rappresentato dall’incursione feroce del Cugino (lu Cuggino è Angelo Pignatelli) operaio contro il lavoro, con la grana, che rompe, definitivamente, crudelmente, sadianamente, il balletto del consociativismo imperfetto tra le due società che si prendono a pietrate ma in fondo rispettano le rispettive collocazioni.

Davide Barletti (a destra) e Lorenzo Conte (a sinistra) 
E si tratta della versione cinematografica di un romanzo omonimo scritto da Carlo D’Amicis e pubblicato da Minimum Fax (13 euro), la casa editrice resa celebre per aver scodellato in Italia la narrativa americana contemporeanea minimalista e per alcuni magnifici saggi e interviste sul grande cinema hollywoodiano e non. La vendetta, o giustizia proletaria, nel film non viene vista con simpatia. Salvo essere responsabile (post hoc ergo propter hoc) di una serie di avvenimenti miracolosi e benemeriti (la resurrezione del cane, l’epifania del santo pescatore, l’esplosione dell’energia sessuale tra i giovani….), la definitiva messa in soffitto del rispetto tra le classi, ovvero della sottomissione di una all’altra.

Tonino e Scaleno
Minimum Fax, ormai attiva nel business audiovisivo (suo anche il bel doc Blow up su Blow up di Valentina Agostinis) più Rai Cinema, più Amedeo Pagani (prestigioso produttore salentino), più Apulia Film Commission, più una ritmica impostata dal montatore più punk che abbiamo, Jacopo Quadri, e una colonna sonora dalle suggestioni zingaresche e balcaniche di David Aaron Logan, espellono dall’inquadratura ogni arricchito mal ingioiellato, e regalano i primi piani ai soli ragazzi, ai teenager. In banda, da soli, in duetto, in terzetto… Rissosi o innamorati. Riflessivi o infuriati. Incorporati nel reciproco lignaggio o pronti all’esodo e alla fuga definitiva. Insomma. Come succede abitualmente nelle produzioni scandinave e del nord europa (ma qui sembra scandaloso) il film è in mano completamente ai  dodicenni e alle loro energie desideranti (in questo senso il grande attore dell’intero lotto, la rivelazione del film è sicuramente il piccolo Piero Dioniso nella parte di Tonino innamorato perso della solare Sabbrina, Alice Azzariti che come tutti gli altri ragazzi del film tranne Tonino ha accettato una postura brechtiana, rigidamente non espressiva).

Pasquale Patruno (Francisco Marinho) il capo dei ricchetti 
Insomma. E’ un apologo per adolescenti. E oltretutto per metà questi ragazzi sono figli di braccianti, pescatori e poveri. Che parlano una certa quantità di indecifrabili lingue e slang pugliesi, non solo salentino. Inaudito. Non ci fossero i sottotitoli. L’altra metà sono i borghesi del leccese. Altrettanto incomprensibili, per l’idioma. Non poco odiosi e razzisti, come i loro progenitori (in cameo Claudio Santamaria ci ricorda di che pasta etica criminale erano fatti i latifondisti della zona, che poi diventavano ministri come i Malfatti, i Codacci Pisanelli, i Reale…).  Quelli che abitano a Lecce. Quelli che non tifano Lecce (squadra amata dalla sola provincia, di cui porta i colori). Che sono cosmopoliti (e juvetini nei colori), che adorano Francisco Marinho, quel terzino del Botafogo e della nazionale brasiliana piuttosto indcile alle discipline, e molto attratto dalle sostanze proibite, che litigava con il suo portiere perché, troppo visionario e avveniristico, interpretava il suo ruolo, allora, come un tornante sempre all’attacco, come Stephan Lichsteiner oggi. Dunque Francisco Marinho (Pasquale Patruno) è il capobanda dei ricchi. Scaleno (Donato Paterno) il suo avversario, povero ma leale.

la banda dei poveri 
Letizia Pia Cartolaro (Mela) la donna che ha altri sistemi di una violenza più sottile e mediata, per scompaginare le carte sul tavolo. Ma mai così rosselliniano come il training de Lu Cuggino. Prendere la parola. Osare urlare al vostro nemico chi siete. Mai più prendere il cappello in mano, imbarazzati e sottomessi. Quella scena vale tutto il film. E popi, postilla. Il cinema italiano, per avere finanziamenti, era obbligato a inserire un cane e un prete. Se no via della Ferratella urlava. Adesso finalmente i cani si possono uccidere e i preti vengono tenuti ben controllati nel fuori campo. Giusto a dare qualche assoluzione off. Certo poi i cani risorgono. Ma non possiamo mica davvero essere ancori rivoluzionari drastici, no?







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