Roberto Silvestri (*)
“Dante no es unicamente severo è il migliore film spagnolo che abbia mai visto” (Jonas Mekas, a Pesaro nel 1967)
Ho conosciuto ‘dal vivo’ la
gentilezza, la cultura cinematografica radicale, l’umorismo e la passione politica
del cineasta catalano Joaquim Jordà nel 2000, a Bilbao, dove era, e
molto omaggiato, il perfetto presidente della giuria di Zinabi 43, festival
internazionale dei corti doc e fiction.
Tre anni dopo Il vangelo di Pasolini, nel 1967 Enrique Irazoqui interpreta "Dante no es unicamente severo" di Jordà |
La soddisfazione
professionale scavalcò d’un pelo, comunque, la sua proverbiale modestia per la
retrospettiva che Euskadi gli aveva organizzato, parallelamente al festival,
anticipando persino i più recenti omaggi di Madrid e Barcellona.
Abbiamo visto in 5 giorni,
tra indimenticabili libagioni basche, e anche una ‘Noche de vino tinto’
(parafrasando il titolo di un film del ‘66, del portoghese José Maria Nunes,
antesignano della Scuola di Barcellona), un’infinità di pellicole. E premiato,
grazie a un deviante gioco di squadra (complice il cineasta argentino Settimio
Presutto), che quando scatta sbaraglia qualunque architettato buon senso, un
poema hip-hop sulla rivoluzione messicana riletta in chiave Gianikian-Ricci
Lucchi (I sandali di Zapata, di Luciano Larobina), dando due menzioni, a un Bartleby lo scrivano della critica d'arte neozelandese Miro Bilbrough, capace di tramandare la tecnica del saper dire
di ‘no’ e a un audace e insostenibile ritratto di homeless messicana devastata, La virgen Lupita di Ivonne Fuentes.
Jorda amava particolarmente il cortometraggio su Zapata, costretto a fare i salti mortali per attenuare
l’esiguità dei materiali filmati e fotografici sopravvissuti, forse perché gli
ricordava il suo Lenin vivo, montato utilizzando, tra didascalie, molto
silenzio e suggestivi neri, solo tre reperti audio e 22 piccoli filmati, e tra
questi i funerali di Jacov Michajlovic Svertlov e Petr Alekseevic Kropotkin, le uniche registrazioni audiovisive in vita rimaste
dell’uomo (anche se progressivamente, stranamente, sempre più malato, a poco più
di 50 anni) che aveva sconvolto il mondo, creando un’alternativa bolscevica al
capitalismo nella sua fase monopolistica e imperialistica, ma che era morto
troppo presto per far riprendere il mondo da quello shock, e per fare
funzionare davvero l’economia (perché no, anche di mercato) dei soviet.
Lenin vivo era un corto prodotto
nel 1970, durante l'esilio di jorda in Italia, dall’Unitelefilm (grazie all’aiuto di Gianni Toti), ed è ora all’Archivio
del movimento operaio e democratico (aggiunta
imposta in epoca Craxi dalla necessità di accedere a finanziamenti pubblici) di
Roma, realizzato nel centenario della nascita dello stratega principale della
rivoluzione russa, senza alcuna traccia di retorica apologetica. E’
piuttosto una appassionata ed estrema lettera d’amore per sole immagini, un
canto visuale molto circostanziato (di ogni reperto Jordà spiega esattamente
senso politico e data) per quel pioniere dell’emancipazione internazionalista,
per quel viso ‘euroasiatico’, per quegli occhi acuti e concentrati, per la voce
che declama una rarissima poesia di sua composizione; per l’umiltà di un leader
politico che odia il culto della personalità e urla a Eduard Tissé, il gigantesco
operatore che si fa largo tra la folla esultante per riprenderlo: ‘non
inquadrare me, piuttosto registra i volti soldati che vanno al fronte’; per
quel nodo elegante alla cravatta, lungo e cilindrico, e per quei cappelli e
berretti, anche celtici, che Jordà utilizzerà identici (il colbacco, per esempio) per
combattere una calvizie simile. Ma anche
i segni di quelle terribili operazioni subite da ragazzo, dopo un infarto
cerebrale, anche attraverso la lobotomia
dopo la quale Jordà perse la facoltà di vedere a colori, accontentandosi
del bianco e nero.
Il documentarista Martì Rom e Joaquim Jorda (a destra) |
Sempre sul (e contro il) Portogallo della feroce dittatura Caetano e della estrema povertà nelle campagne, ‘paese coloniale ma colonizzato’, i cui interessi sono cioè legati a filo doppio a quelli delle multinazionali americane, tedesche e olandesi, Jorda girò un magnifico documentario, più che militante, prodotto nel 1969 sempre da Unitelefilm.
Un lavoro che analizza, pochi anni prima
della rivoluzione dei garofani, la possibilità e la legittimità della lotta
armata in un paese autoritario, ma sotto stretta tutela Nato, anche come aiuto alle
lotte per l’indipendenza nazionale delle colonie africane d’Angola, Mozambico, Guinea Bissau e
Capo Verde. Portogallo paese tranquillo comprende schede storiche, grafici,
materiali di repertorio anche televisivi, un titolo ironico che si riferisce
all’ipocrita slogan della campagna turistica di Lisbona ‘69, e una dura
requisitoria contro Paolo VI che aveva appena riempito di onorificenze i petti insanguinati dei torturatori capo della Pide,
la polizia segreta, gli squadroni della morte anticomunisti di Salazar e Caetano, in occasione di una vergognosa visita di supporto al regime fascista. Ma il pezzo forte del film sono le interviste al leader del movimento
di liberazione di Capo Verde e Sao Tomé,
Amilcare Cabral, a un Mario Soares dirigente socialista giovanissimo e già
grintoso che mai, a militanti rivoluzionari clandestini che teorizzano e
praticano l’esproprio proletario delle banche, a gruppi cattolici del dissenso,
a studenti protagonisti di clamorose azioni di disturbo e di sciopero, ai
coraggiosi disertori dell’esercito coloniale e a contadini poverissimi che
giustificano, con la sopravvivenza della famiglia, il loro sì all’invio dei
figli nella guerra d’antiguerriglia in Africa: “anche se non sappiamo nulla di quel
che fanno e vedono; di nuovo a casa, se tornano, non ci dicono nulla di eccidi
e torture, come se gli avessero messo un tappo in bocca”.
Tornando a Lenin, la cosa che
più colpisce in quelle immagini in bianco e nero di repertorio è che in campo,
vicino a Lenin, quando non parla al popolo, sgolandosi a destra e a sinistra
senza microfono, ci sono sempre ragazzini e donne: che, insomma, il comunismo
era ‘a portata di mano’, e ancora un movimento fortemente controllato dal
basso, non come durante il ‘machismo’ burocratico staliniano o brezhneviano.
E’ al cuore di quel film, super star assoluta, il comunismo, come
programma minimo, ribellione ovvia e quotidiana contro il capitalismo e lo
sfruttamento; come autogestione delle fabbrica da parte dei lavoratori, ipotesi
di controllo della intera società ‘dal basso’ e passaggio, in metamorfosi, da:
1. forza lavoro imprigionata, devitalizzata e ‘tonta’, a 2. classe operaia
sindacalizzata e consapevole, a 3. ‘soggettività desiderante’ rivoluzionaria ed egemonica che controlla danzando
la propria vita, guarisce l’abbrutimento della catena di montaggio e l’alienazione, e pratica la
riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento di quello del piacere.
Il comunismo è stato lo spettro, oggi demodé (perché l’Europa ha delocalizzato, con le fabbriche, anche le ‘lotte sociali concentrate’ nei tre mondi) che si è aggirato per tutto l’occidente durante il periodo ’68-‘77 ed oggi sta scavando sottoterra da vecchia talpa. E che domina un altro documentario obliquo di Jordà (se non altro per una messa in scena finzionale, più che spettacolare, clownesca, del punto di vista capitalistico), Numax presenta, una sorta di monumento, tuttora vivente alla lotta contro lo sfruttamento. Una fabbrica di elettrodomestici, ventilatori e aspiratori, chiusa dai padroni circa 30 anni fa è espropriata e gestita, dopo uno sciopero, dai lavoratori. E’ ancora in mano operaia (Jorda ne ha realizzato, recentemente, un secondo documentario ‘storto’), almeno nel 2004, non senza problemi, difficoltà di mercato e di rapporti esistenziali e sociali che in quasi due ore vengono analizzati e discussi dai più attivi tra i 120 occupanti. Ma l’esempio Numax ha anche dimostrato possibili, socializzabili (e discusse nel loro vero significato) pratiche come quelle della cooperazione, dell’egualitarismo, degli asili nido e delle scuole anti analfabetismo in fabbrica, e dell’autoresponsabilizzazione. In Francia, in Italia e nel Portogallo della rivoluzione deiu garofani, avvennero esperimenti simili, ma fallirono.
Il comunismo è stato lo spettro, oggi demodé (perché l’Europa ha delocalizzato, con le fabbriche, anche le ‘lotte sociali concentrate’ nei tre mondi) che si è aggirato per tutto l’occidente durante il periodo ’68-‘77 ed oggi sta scavando sottoterra da vecchia talpa. E che domina un altro documentario obliquo di Jordà (se non altro per una messa in scena finzionale, più che spettacolare, clownesca, del punto di vista capitalistico), Numax presenta, una sorta di monumento, tuttora vivente alla lotta contro lo sfruttamento. Una fabbrica di elettrodomestici, ventilatori e aspiratori, chiusa dai padroni circa 30 anni fa è espropriata e gestita, dopo uno sciopero, dai lavoratori. E’ ancora in mano operaia (Jorda ne ha realizzato, recentemente, un secondo documentario ‘storto’), almeno nel 2004, non senza problemi, difficoltà di mercato e di rapporti esistenziali e sociali che in quasi due ore vengono analizzati e discussi dai più attivi tra i 120 occupanti. Ma l’esempio Numax ha anche dimostrato possibili, socializzabili (e discusse nel loro vero significato) pratiche come quelle della cooperazione, dell’egualitarismo, degli asili nido e delle scuole anti analfabetismo in fabbrica, e dell’autoresponsabilizzazione. In Francia, in Italia e nel Portogallo della rivoluzione deiu garofani, avvennero esperimenti simili, ma fallirono.
Jordà, alto, robusto, leone, anche zoologicamente, e
‘sessontottino’ con la barba folta, conosceva molto bene l’Italia della dura
dominazione Dc e della sinistra antagonista (e Lino Micciché, Bruno Torri, Paolo
Brunatto, Gianni Toti, e molti leader di Potere Operaio come Nanni Balestrini),
avendovi vissuto e combattuto per alcuni anni, visto che era stato semiespulso
da una Spagna franchista, attorno al 68, particolarmente insopportabile e
decadente (‘Questo paese di tutti i diavoli’, come l’aveva definito il suo
amico cineasta Jacinto Esteva). Invece le lotte operaie e studentesche della
nostra penisola, erano diventate una magia - senza trucco - di livello
internazionale affascinante, anche se a volte era ‘magia nera’, per i cineasti
rivoluzionari come lui (Godard, Rocha, Polanski, Nelson Pereira dos Santos, Marc’O,
Jancso, Mekas e molti altri underground Usa, e perfino i niene affatto
militanti Morrissey e Warhol, frequentavano più o meno i suoi stessi suoi bar e
vinai romani di campo de' Fiori e dintorni).
Il concittadino Jorge Grau, che un decennio prima aveva frequentato il Centro Sperimentale di cinematografia di Roma, deve avergli passato almeno qualche buon indirizzo e qualche amicizia a Cinecittà (per Vittorio Cottafavi Jorda scriverà il Cristoforo Colombo televisivo), se non proprio la passione per il cinema-diretto zavattiniano o per la messa in scena barocca e per la ‘recitazione accurata’ tutti difetti che Jorda non ha mai voluto condividere, vista la sua famosa battuta che ne definisce la poetica: ‘se non possiamo fare Victor Hugo perché c’è la censura, allora facciamo Mallarmé”.
Certo la ‘scuola di
Barcellona’ era collegata all’ ‘insoddisfazione colta’ di Tàpies, al gruppo 63
conosciuto attraverso conferenze catalane di Umberto Eco e al movimento neodada
di Dau al Set, ma in sostanza era FilmsContacto, ovvero i soldi del papà di
Esteva, l'amico e sodale di Jordà. Però i 9 punti del manifesto Jorda (formalismo; sperimentalismo visuale
e narrativo; modo di produzione cooperativo e intercambiabilità dei ruoli
professionali; autofinanziamento; soggettività desiderante da dispiegare;
utilizzo di attori non professionisti; formazione non accademica né
professionale dei registi; disinteresse per il cinema neorealista di Madrid e
per i distributori ignoranti) bastarono per creare censure e grane. Il corto di
Jordà Día de muertos fu censurato perché si inquadrano le tombe di famosi
intellettuali di sinistra. L’attrice Serena Vergano fu arrestata durante il
festival di Sitges. 200 mila pesos di multa a Jordà furono imposti daò governo di Fraga
Iribarne perché alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro il cineasta non si era espresso in lingua castigliana ma catalana.
Dialoghi censurati in Dante, censure a due copioni di Jorda, El jardín de
los ángeles e Cosmos, da Gombrowicz, censure a Raimon, il corto di un allievo di Jordà, Carlos Durán, e anche a Liberxina 90 (1970)…
Il concittadino Jorge Grau, che un decennio prima aveva frequentato il Centro Sperimentale di cinematografia di Roma, deve avergli passato almeno qualche buon indirizzo e qualche amicizia a Cinecittà (per Vittorio Cottafavi Jorda scriverà il Cristoforo Colombo televisivo), se non proprio la passione per il cinema-diretto zavattiniano o per la messa in scena barocca e per la ‘recitazione accurata’ tutti difetti che Jorda non ha mai voluto condividere, vista la sua famosa battuta che ne definisce la poetica: ‘se non possiamo fare Victor Hugo perché c’è la censura, allora facciamo Mallarmé”.
El encargo del cazador |
El encargo del cazador |
Dante no es estremamente severo |
* L'articolo, pubblicato nel 2004 dal manifesto, è alla base di un intervento durante l'omaggio del Torino Film Festival 2006 a Joaquim Jorda, organizzato il 16 novembre da Nuria Vidal e Roberto Turigliatto, con interventi, nella sala Massimo 3,
di Nanni Balestrini, Jordi Balló, Edoardo Bruno, Daria Esteva, Isaki lacuesta, Laia Manresa, Marc Recha, Gloria Salvadó. Nel 2001 Martì Rom ha realizzato un documentario, Joaquin Jordà, dedicato al grande cineasta nato nel 1935 e morto dieci anni fa, nel 2006. Il film è stato prodotto dal Collegi d'Enginyers Industrial de Catalunya all'interno di un progetto volto a rendere omaggio alle grtandi personalità della cultura catalana dai musicisti Carles Santos e Josep Maria Mestres Quadreny al fotografo Catala-Roca, allo scrittore Joan Perucho, allo studioso di Picasso Josep Palau i Fabre, al musicista Riudoms Joan Guinjoan, alla scrittrice Marta Pessarodona, all'architetto e poeta Joan Margarit.
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