Mariuccia Ciotta
L'oca del Canada è un grande uccello elegante dalle piume bianche e nere, un migratore
che insidia i cieli americani e che il 15 gennaio 2009 s'infilò,
insieme al suo intero stormo, nei due motori dell'airbus A320, volo
1549, della Us Airways provocando il blocco dei reattori. In
sovrimpressione, Tom Hanks alias capitano Chesley “Sully”
Sullenberger vede sfilare tra i grattacieli dei Manhattan, nello
splendore dei cieli azzurro fluorescente dell'Imax, altri “stranieri”
alati, quelli dell'11 settembre 2001. Otto anni dopo, l'allarme
provocato dall'incidente gettò i newyorkesi nel terrore di un nuovo
attentato, tutti videro l'areo saettare a quota bassa sullo skyline,
la città piena di fumo e di sirene urlanti, le strade bloccate, il
delirio...
Sully diretto da
Clint Eastwood diverge dall'azione spericolata che celebrò il
capitano, e scarta il genere catastrofico - anche se le immagini del
disastro scorrono in un loop ipnotico - e si concentra sul suo
soggetto preferito, il non-eroe spezzato in due. Così in True
crime, Million Dollar Baby, Gran Torino, American Sniper... Il
Dirty Harry che viola il regolamento poliziesco o aeronautico e getta
via il distintivo.
Trentacinque secondi per
decidere se attraversare il fiume nel West Side di New York e
atterrare al Teterboro Airport o a Newark nel New Jersey, tornare
indietro all'aeroporto LaGuardia da dov'era partito o ammarare
nell'Hudson. Altezza 2800 piedi a sfiorare i tetti delle case, tre
minuti e mezzo dopo il decollo, Sully e il suo copilota Jeff Skiles
(Aaron Eckart) si lanciano sulla pista d'acqua e salvano i 155 passeggeri a bordo.
Sully non è un
film sull'uomo solo al comando, tanto meno sull'eroe - chi salva gli
altri a sprezzo della vita - ma è un film corale, sul potere
dell'umanità al lavoro, una massa in convergenza attiva, vigili,
sommozzatori, elicotteristi, 1.200 membri del squadre di primo
intervento, sette traghetti che trasportavano 130 pendolari e che
accorsero intorno all'aereo galleggiante e salvarono tutti in 24
minuti. Una sequenza alla Frank Capra.
Una folla solidale in un
film come It's a Wonderful Life si chiama popolo, mentre chi
interpreta le sue peggiori pulsioni si chiama populista. Quindi che
c'entra Clint Eastwood, si chiede Le Monde, con Trump? Forse,
sostiene il critico Jacques Mandelbaum, nella sua bella recensione,
si tratta di un “doloroso enigma”, il Clint regista di un
“sottile e luminoso Sully” e la sua adesione cieca al partito
repubblicano. Come se fosse ancora ai tempi di Lincoln.
Certo è che il suo 35mo
film, il primo girato in digitale, scavalca l'individualismo del
cavaliere solitario venuto dall'adilà, e orchestra il coro
dell'America che solo unita può salvare e salvarsi.
Tratto dal libro
autobiografico di Sullenberger Highest duty (sceneggiatura di
Todd Komarnicki) e illuminato da Tom Stern, direttore della
fotografia dei titoli più recenti di Eastwood, Sully ha in
più lo splendore della scenografia di James J. Murakami, autore tra
l'altro di Lettere da Iwo Jima. Un film dall'inedita
espansione visiva. L'impatto sull'Hudson e le panoramiche dall'alto
replicano la vertigine di The Walk di Robert Zemeckis,
moltiplicate dalle visioni di Tom Hanks, perduto nell'incubo di un
possibile errore che avrebbe spinto l'aereo a schiantarsi sui
grattacieli. Flash back del capitano coraggioso che nello
specchio si vede kamikaze, e si crede un-american. Sully subirà un “processo” in stile maccartista intorno al quale si
concentra il film che gira su un asse vero/falso, un dormiveglia
allucinatorio popolato di fantasmi, 2996 morti allora, 155 vivi oggi.
Il National Transportation
Safety Board chiamerà Sully a rispondere delle sue azioni, con una
schiera di foschi giudici seduti sugli scranni, inquadrati secondo
l'iconografia dell'inquisizione anni '50. L'aereo, valore 150
milioni di dollari, si poteva salvare, sostiene l'agenzia
investigativa, l'atterraggio in aeroporto era possibile. Ma la
simulazione digitale non calcola le emozioni. Il tempo per virare
pensieri e velivolo appartiene solo all'essere umano. Niente pilota
automatico. Gli automi alla guida sono freddi calcolatori inebriati
di manuale e di algoritmi.
Eastwood, umanista in
formato Arri Alexa 65mm, però, non tira colpi alla modernità, lui
ragazzo del secolo scorso, ma si interroga sull'”arte di
ricostruire la realtà”, il cinema, e si allinea agli
sperimentatori dell'immagine-tempo. I 35 secondi di Sully sono
necessari, così come le sue proiezioni mentali nella stanza
dall'albergo in dialogo telefonico con la moglie (la stupenda Laura
Linney, già con Clint in Absolute power e in Mystic River)
scandito da ossessivi “ti amo”. Sospensioni temporali. Giochi per
distrarre il tempo e aggirarlo. Non ci sarà un inizio, un centro e
una fine, il flusso circolare intreccia la storia e il suo riflesso.
E nel delirio di una tragedia probabile, scorre anche l'umorismo
negato al cinema-algoritmo-senza ritmo. “Cosa cambieresti se
dovessi rifarlo?” chiedono al copilota, e lui “Lo rifarei a
luglio”, gelido l'Hudson in gennaio, e ancora, “L'unico modo per
decollare in orario da LaGuardia e decollare dal JFK”, sorrisi ai
margini con una esilarante visita al David Letterman show.
Tom Hanks, “medaglia
della libertà” appena ricevuta da Obama, chiama nel film i 155
passeggeri, “non uno di meno”, e Eastwood, che lavora con lui per
la prima volta, lo alterna all'immagine del vero Chesley
Sullenberger, attorniato dai veri sopravvissuti, non solo numeri, ma
volti, ad evocarne altri senza nome sprofondati in acque lontane.
Sully suona il
requiem alla paura, e dopo il lungo shock delle Twin Towers, è
l'happy end collettivo di New York.
Aaron Eckart, il vero Sully, Clint Eastwood e Tom Hanks |
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