Nicola Garofalo in Freddy Hotel |
Roberto Silvestri
Freddy Hotel di
Massimiliano Amato, con Nicola Garofalo e Maria Cristina Blu. Italia 2014.
Al Filmstudio di Roma, alle 2030, questa sera lunedì 11
marzo, anteprima pubblica del secondo capitolo, Freddy Hotel, di una
‘trilogia dei sentimenti’ iniziata da Exit che Massimiliano Amato, 51 anni,
cineasta indipendente e autonomo quanti altri mai, che gira senza troupe
‘pesante’, e imponendosi, anche per necessità del basso costo, tempi lunghi di
riprese, ha scritto e diretto nel 2009 analizzando la relazione, soprattutto ‘subcutanea’,
tra due fratelli. Cinema di poesia, ellittico, metaforico che si affidava a una
linea narrativa non tradizionale e bisognosa di ricezione critica e
attiva.
L’esordio Exit, realizzato
dal cineasta romano dopo esperienze teatrali e di scrittura seriale televisiva e
due documentari, sul cinema indipendente anzi ‘clandestino’, il primo, e ‘A
dream’, corto sulle mine anti uomo, il secondo, vinse a Annecy il premio per
l’intepretazione maschile (Luca Guastini) e una menzione speciale della Cicae. Un’opera prima fortunata, vista la centralità
dell’appuntamento francese per dare ordine critico al nostro cinema emergente,
grazie a uno sguardo ‘distante ma
particolarmente esperto’ come quello di Jean Gili e, per tanti anni, del
compianto cofondatore Pierre Todeschini.
Freddy Hotel ai
svolge ai giorni nostri, tempo di
crisi finanziarie e di angoscia esistenziale, di vertigine per il maschio
latino, di tragedia incombente, perché al tracollo economico crescente, ai
debiti per tutti, non sa più rispondere con il tradizionale cinismo, con il
disincanto nazionale e lo sberleffo comico. Prevale l’individualismo celibe,
l’incapacità di mettere in discussione il solipsismo assoluto e di aprirsi a
soluzioni collettive o almeno partecipate o almeno ragionate. Tutto è vanità e
ci si crogiola nel nichilismo. I sintomi sono quelli dei probabili suicidi o
dei femminicidi che leggiamo ogni giorno….Oppure la fuga. Diserzione dalla
responsabilità. Nel film l’uomo, il Freddy Angi del titolo ( Nicola Garofalo), 43 anni, è
sposato, separato dalla moglie, ma la rivede spesso negli hotel, come se la
tradisse con lei…. Sempre più
disadattato, non fa più conversazione, al massimo veloci combattimenti verbali
con il prossimo. Sembra che disprezzi totalmente tutti e che abbia perduto
l’amor proprio e l’onore, imitando quelli che dovrebbero dare il buon esempio.
O ha finito le sue munizioni di sarcasmo e di derisione. Per esempio con
l’agente letterario, che dovrebbe strappargli un buon contratto per la vendita
di un romanzo in Francia e che invece lo manda a Parigi tutto solo e alla
ventura (ma non esistono i fax?)….L’italiano oggi è sempre più solo, e debole, beve,
ha mille avventure a istigazione tossica, ma l’unico dialogo tollerabile è
ancora per Freddy quello con Anna, la moglie (Maria Cristina Blu), non si capisce
se perché lui la domina o perché lei gli restituisce quell’illusione di
equilibrio e di identità…. O perché nella coppia, nel matrimonio, l’egoismo
reciproco arriva all’estasi…. Una musica da thriller, quasi un motivetto gelido
al piano, stile Dario Argento, sembrerebbe puntare sull’esito cruento, ma si
inseriscono altre piste musicali, più d’avanguardia, a raddoppiare il caos
esistenziale, o più consonanti, a offrire un barlume di speranza.
Maria Cristina Blu |
Cinema inquieto nel tempo e pulsante nello spazio, famelico
di set (Roma, la campagna italiana, Parigi, la periferia di Bucarest, dove
termina la paradossale e non stereotipata fuga), a flusso libero e montato a
mosaico dadaista, come un puzzle programmaticamente antirealista, con
imprevisti flash ‘fuori tempo’, cronologicamente ardui da collocare, anche
questa volta, e pieno di citazioni cinefile, come il Bergman iniziale da Scene da un matrimonio. E in particolare
quella stessa domanda ‘che ne diresti se tornassi a casa?’ che il marito innamorato,
ma in fuga da tempo, rivolge alla moglie, innamorata ma ormai decisa a non
permettere ulteriori sovrimpressioni dolorose alla sua autonomia routine
domestica. Lei concreta, lui sfuggente. Lei razionale, lui sognatore.
Mentre si cerca di fissare una storia liquida e complessa
che sfugge e scivola costantemente nel ‘fuori campo’, e nei sotto plot (una
figlia scopre che suo padre è un altro, come accadeva negli albi dell’Intrepido
del dopoguerra) inseguendo quell’ardua relazione, sempre sul punto di spezzarsi,
anche intimamente (perché inizialmente la coppia è separata, anche se in stato
d’allarme) tra un marito scrittore, errabondo per indole, e una moglie ‘cinematografara’,
girovaga per professione (seleziona gli esterni dei film). Noi tifiamo perché
si spezzi.
I due si vedono quasi clandestinamente negli hotel perché la
passione e l’amore, concordano, sono ancora forti, ma ci sono figli di mezzo,
una casa da portare avanti, e siccome l’artista uomo è tutto astratto, immerso
a tempo pieno in fantasticherie filosofico-esistenziali, l’artista donna non ne
può più. E’ fritta. Lui è un personaggio ispirato al Freddy di Heinrich Boell (E non disse nemmeno una parola) e a Emil
Cioran di Al culmine della disperazione’.
Ironicamente. Visto che lì è la Germania post bellica e in pratica in briciole
il paesaggio. Qui sono proprio i danni di quella Germania risolta, il set. Il
film è da scomporre e ricomporre, si richiede l’attenzione attiva del pubblico,
come se in una istallazione da video arte qualcuno ti portasse per mano,
rispondendo in ogni situazione, ma perché succede tutto questo?
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