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domenica 3 settembre 2023

MOSTRA DI VENEZIA 80. LEONARD BERNSTEIN NON E' PIU' RADICAL CHIC, MA NEANCHE RADICAL

Roberto Silvestri
Esterrefatto dalla reazione critica nazionale e internazionale di Venezia 80 a una Mostra invivibile come mai nella storia (indipendentemente dalla decina di film e oltre molto belli che vengono comunque scodellati, “classici” a parte, perché il comitato di selezione ha occhio e anima) e invece accolta da quotidiani poker di stelle come se gli stessi critici si rendessero ormai conto di non contare più nulla se non come gentili amplificatori pubblicitari di ogni visualità masticabile, registro che decenni di serie tv hanno cambiato il concetto di ricezione vispa, trasformando noie micidiali in capolavori assoluti (Poor Things, El Conde, Bastarden, Maestro, Killer...perfino Harmony Korine) e i film dotati di vita propria ed eccitanti in insopportabili polpettoni (i miei preferiti? Polanski, Ferrari, anche Besson, una commedia di Stephanie Rothman del 1974). Barbie e Oppenheimer non vengono forse trattati dal blob critico dominante come preistoria audiovisiva? Già. Tranne il divertimento acido di Costanzo (che pare il remake di Spqr, un film tedesco dei primi anni 70 sul cinema italiano, c'è anche l'hotel Plaza tra i protagonisti) i film italiani non reggono finora l'urto. Da cui la rabbia verso Ferrari, omaggio al Bertolucci di Strategia del ragno e al Bellocchio di I pugni in tasca perché è proprio quella Emilia del culatello che Michael Mann sa catturare magicamente. Infatti Adam Driver è stato qui perché il film è fuori norma, fuori schema, fuori Hollywood. Oltretutto Sergio Castellitto è già stato Enzo Ferrari in un film tv di 20 anni fa diretto da Carlo Carlei, non a caso discepolo di Michael Mann della prima ora. Già. Da decenni Hollywood è diventato un comparto secondario di giganteschi conglomerati che fanno profitti planetari vendendo poca arte e molto altro: armi, farmaci, prodotti chimici, sigarette (grande ritorno del tabacco, un tempo bandito, sul grande schermo), miniere, cliniche, acciaierie e carte di credito. Per questo i grandi Studios trattano il falso in bilancio da giocolieri (copiati dai governi democratici di tutto il mondo), le classifiche di incasso come momento marketing e gli attori e sceneggiatori che non sono super star come il diavolo trattava Faust (“volete vendermi per l'eternità la vostra voce e la vostra sagoma? Ecco a voi 30 mila dollari!”). Da cui lo sciopero di questi mesi. Impressionante anche il controllo politico censorio sulle pellicole, come dimostra Maestro, in concorso a Venezia 80. Dunque già il titolo è perfido. Maestro, e lascia più che perplessi quando si tratta del bio-pic Netflix sul grande musicista Leonard Bernstein, superstar intoccabile perché idolo della televisione anni 70 per i suoi corsi di successo sulla musica sinfonica e operistica. Quel retrogusto Mastercard, che di Maestro è gestore, non è simpatico. Ma ho l'impressione che il perfido titolista alluda anche a qualcos'altro. Bernstein è stato definito infatti nel 1970, in piena guerra contro la guerra in Vietnam, da un prezzolato geniaccio della destra statunitense, Tom Wolfe, il “maestro dei radical chic”. Definizione abietta che ha tuttora grande successo nei salotti devoti alla “Grande Bellezza”. E perfino tra gli sceneggiatori statunitensi più liberal. Josh Singer ha scritto The Post e Il caso Spotlight. Gliel'hanno fatta pagare? Non credo però che tutti ricordino i fatti. E il film, diretto e interpretato con lunga protesi nasale criticatissima da Bradley Cooper, 48 anni (e coprodotto anche da Scorsese e Spielberg) - ma la Mostra 80 sta esibendo un debole verso gli “uomini soli al comando”, dopo che Comandante ha aperto la kermesse nell'imbarazzo generale e sta per arrivare anche Io Capitano - ha la vigliaccheria di oscurarli del tutto, dietro un interminabile e insopportabile melodramma-fotocopia di A star is born (algoritmico esordio di Cooper alla regia) che proprio di Bernstein come “maestro di musica”, direttore d'orchestra mitico, si occupa pochissimo e si ostina invece (come una spia dell'Fbi pagata da Hoover) a rovistare nelle avventure coniugali (24 anni di matrimonio) ed extraconiugali, perché omosessuali, dell'artista di origini aschenazita. E' come raccontare Hitler tralasciando non dico la “soluzione finale” ma anche solo la “notte dei cristalli”. Peccato. Bradley Cooper dimostra di dirigere con stile radicale e chic le schermaglie d'amore tra Bernstein e l'amata Felicia Montealegre (nella prima parte del film, in bianco e nero stile “Life”-”Time” epoca più amata, anche se davvero di piombo, Corea, maccartismo...) e anche i duelli d'odio della storia (con i colori lisergici della contestazione generale, dunque un po' malati e avvelenati). Ma è come se ignorasse con ostinazione gli scontri aspri della Storia. Dopo un famoso party del 14 gennaio del 1970 il compositore dei celebri musical West Side Story e Un giorno a New York - nonché direttore d'orchestra della New York Philarmonic succedendo giovanissimo a Bruno Walter - e sua moglie Felicia, attrice di origine cilena molto impegnata politicamente a sinistra, sono stati infatti oggetto della madre di tutte le vergognose campagne mediatiche scatenate nell'ultimo mezzo secolo. All'epoca Bernstein preparava un epocale Fidelio. E la coppia ospitò nella propria villa (c'è chi riconosce il valore bancario dell'arte) circa 90 persone per raccogliere fondi (10 mila dollari) a sostegno delle famiglie dei "Panther 21", i militanti del partito delle Pantere nere newyorchesi arrestati il 2 aprile 1969 e accusati di aver progettato attentati dinamitardi contro sedi della polizia, grandi magazzini e altri edifici pubblici di Manhattan Dopo 9 mesi di carcere i “Panther 21” cauzione a 100 mila dollari, senza risorse per preparare una adeguata difesa, non solo sono stati tutti scagionati ma sono risultati vittime di infiltrati dell'Fbi che avrebbero organizzato il complotto con la complicità dei massmedia (anche liberal) e delle forze dell'ordine. Altro che radical chic. Altro che "la più grande minaccia alla sicurezza interna del paese" come il direttore dell'FBI Edgar Hoover definì il Black Panther Party per il suo dichiarato marxismo. Altro che “giusto processo”. Piuttosto una plateale violazione delle libertà civili che fu rintuzzata dall'opinione pubblica e dal Movement (si schierarono con le pantere nere anche Marlon Brando e Jean Seberg, altre divinità radical chic) e i Bernstein, perché non era più il tempo di maccartismi. Alla festa parteciparono tra gli altri Otto Preminger, Sidney e Gail Lumet, Barbara Walters, Bob Silvers, le mogli di Arthur Penn e Harry Belafonte, e i leader del Black Panther Party Robert Bay, Donald Cox e Henry Miller. Charlotte Curtis sul New York Times (15 gennaio) scrisse tra l'altro: "Eccoli lì, le Pantere Nere del ghetto e i liberali bianchi e neri delle classi medie, medio-alte e alte che si studiavano cautamente tra i mobili costosi, le elaborate composizioni floreali, i cocktail e i vassoi d'argento di tartine” mentre il giorno dopo un editoriale disgustoso aizzava al linciaggio morale: "L'emergere delle Pantere Nere come beniamini romantici del jet set politico-culturale è un affronto alla maggioranza dei neri americani... La terapia di gruppo più la serata di raccolta fondi a casa di Leonard Bernstein... rappresenta il tipo di elegante baraccopoli che degrada sia i clienti che i patrocinati. Potrebbe essere liquidata come un divertimento che allevia i sensi di colpa arricchito di coscienza sociale, tranne per il suo impatto su quei bianchi e neri che lavorano seriamente per la completa uguaglianza e la giustizia sociale. Ha deriso la memoria di Martin Luther King Jr. ..." (The New York Times, 16 gennaio 1970). La risposta della signora Bernstein fu pubblicata, ovviamente molti giorni dopo: "Come donna impegnata nella tutela dello stato di diritto ho invitato un certo numero di persone a casa mia il 14 gennaio per ascoltare l'avvocato e altri coinvolti nel processo ai “Panther 21”, discutere il problema delle libertà civili applicabili agli uomini ora in attesa di processo, e per aiutare a raccogliere fondi per le loro spese legali... È stato per questo scopo profondamente serio che è stato convocato il nostro incontro. Il modo frivolo in cui è stato riportato come un evento "di moda" è indegno del Times è offensivo per tutte le persone impegnati a far rispettare la giustizia." (New York Times, 21 gennaio 1970). Nei mesi successivi i Bernstein ricevettero lettere minatorie, furono oggetto di innumerevoli attacchi stampa e vessati per tutta la primavera davanti al loro edificio da manifestanti dell'associazione ebraica “Defense League” che protestò a gran voce contro il presunto "appoggio" di Bernstein alle Pantere nere antisioniste. Cinque mesi dopo la raccolta fondi fu immortalata in un lungo saggio di Tom Wolfe sul New York Magazine intitolato "Radical Chic: That Party at Lenny's" (8 giugno 1970). Nel film si fa una vaga allusione alla invidia e alla gelosia che motivavano gli attacchi durissimi ricevuti da Lenny Bernstein, senza chiarire che si allude a Tom Wolfe e al party “hollywoodiano”. Come i reazionari di casa nostra di destra e di sinistra appresero bisogna essere livorosi contro gli artisti liberi, milionari per il loro maggiore talento, e dunque da aggredire “squadristicamente” a parole meglio se prezzolati dai “diversamente miliardari”

venerdì 18 marzo 2022

Licorice Pizza, C'era una volta nella San Fernando Valley. Paul Thomas Anderson e il suo American Graffiti

 






Roberto Silvestri 

 

 

“Se il costo della benzina aumenterà di nuovo troppo, l’America si potrebbe davvero portare a termine la Rivoluzione”. Mi diceva Robert Aldrich nel 1979. Con Nixon anni prima il sistema nervoso dell’Impero aveva già iniziato a dare i numeri quando, per reagire alle continue annessioni di territorio palestinese, i paesi arabi razionarono la vendita di greggio…

Questo lo sfondo storico-politico di Licorice Pizza, girato in pellicola 70mm DTS. “La benzina è finita, usate la bicicletta!” scrivevano ai distributori. Ma sono le interiora non le superfici di un paese in movimento turbolento a essere fotografate qui. I flussi di coscienza, il danzare tra ricordi casuali. Una foschia di racconti selvaggiamente abbelliti e di ricordi semidimenticati. Le feste in cui si rischiava di morire e le peripezia rischiose che facevano morire dal ridere. Le splendide carrellate iniziali sui primi incontri e i primi dialoghi audaci dei protagonisti (Anderson condivide il merito della fotografia con Michael Bauman) sono  seducenti quanti deprimente quell’incalzare continuo di uomini che si comportano irrimediabilmente male. 

 


Siamo in un epoca prima dei mall center, delle carte di credito, dei telefoni cellulari. Quando i dischi in vinile si compravano al “Licorice Pizza” (o in templi simili ormai estinti) se si viveva a Encino, nella San Ferdinando Valley, urbanizzata estensione della contea di Los Angeles. 

Licorice Pizza è un period movie arredato alla 1973, anno di grazia, quello della prima crisi energetica. Che musica però in quei giorni: Doors, Sonny & Cher, The Four Tops, Still, Donovan, Bowie… per adornare una commedia teenager esilarante e fuori schema come poche. Siamo quasi al livello di Rock’n’roll high school o, per quanto riguarda i materassi ad acqua, che hanno un loro peso specifico speciale nel film, agli orrori da ridere di Nightare on Elm street 1 e 4 o sublimi di Edward mani di forbici. Giù fioccano sul film i premi della critica americana, per la sceneggiature, soprattutto, per Bradley Cooper (nella parte di Jon Peters, il parrucchiere delle dive che ispirò Shampoo con Warren Beatty) ricco demente libidinoso, da eccesso di coca e lsd, che a secco di benzina mancherà l’appuntamento con Barbra Streisand. E per Alana Haim….la protagonista, l’incarnazione perfetta della ragazza della Valle, “Alana Kane”. Già.

Le ragazze della San Fernando Valley, nei primi anni Settanta, erano proprio speciali, avevano inventato un loro modo di parlare eccentrico, senza che gli adulti capissero un acca e interferissero. Come in ogni altra parte del mondo. 

Ma quello che succede dietro le colline di Hollywood, nella gigantesca periferia piatta e desertica della metropoli dei sogni, dove in estate si muore di caldo e le piscine sono d’obbligo, e non c’è molto da fare (anche perché dal 1939 al 1973 in California i flipper erano fuori legge perché producevano ludopatici, un piacere ossessivo e irrefrenabile come con le slot machines) se non correre alla disperata imitando Carax, parlare come Alana Haim o inventare di tutto, ha un’eco differente. Contagia il mondo. Anche se i cinefili non californiani ma francofoni non colgono.  Tutti parlarono allora della figlia di Frank Zappa e del suo idioma da lettrista pazza. Nel 1983 Martha Coolidge girò Valley Girl (mal tradotto in Italia come La ragazza di San Diego, comunque poco visto) per raccontare l’impossibile storia impossibile d’ amore tra la periferica Julie e il fico di città, Randy il punk. 

E Paul Thomas Anderson che non fa più cinema da una vita ma solo musica post-rock in immagini, dalla Valle viene e vi ha ambientato lì anche Boogie Nights, Magnolia e Punch Drunk Love

Dopo l’autobiografica rapsodia beat di Vizio di forma si dedica a un’altra forse autobiografica sinfonia d’amore impossibile. Per la vita, che ti spinge a inventarsi qualcosa e ad esserne padrone. Far l’attore o il rocker o il cineasta ma non sottostare alle regolette di agenti e produttori e genitori e mercato e star, fosse pure Lucy Ball (Christine Ebersole). Far la quasi fidanzata, ma non sottostare alle regole e agli stereotipi di un copione standard, “come si deve” per essere prodotto. Dunque la love story è tra Alana e Gary Valentine. Come un doppio slalom parallelo e imprevedibile nel quale gareggiano una ragazza di 25 anni invaghita di un minorenne  - casa poco raccomandabile e dunque tenuta a bada il più possibile, finché è possibile – e un quindicenne un po’ in carne e brufoloso che ha una cotta per lei ed è molto intraprendente perché attor giovane (Cooper Hoffman, il figlio di Philip Seymour, e non meno bravo di Alana). Alana è innamorata perfino degli amici di Gary, anche se sono tutti scatenati ma senza patente. Tanto per ricordare un po’ Wendy, Peter Pan e il loro codazzo di moccioso.

Tra questo film, bertolucciano come sempre - che è un po’ La luna delocalizzato nella perversione, basta mamme invadenti, anche Lacan sarebbe d’accordo, e meno eroina e come droga pesante il liberismo edonista - e il Filo nascosto, che era una irresistibile commedia british ben vestita da melò nero, troviamo una dozzina di video clip girati da P.T. Anderson con e sulla band rock femminista Haim, oltre che con i Radiohead. 

E proprio Alana Haim è un membro del trio new rock con le sorelle Danielle e Este, canta, suona la chitarra (qui ne spacca una) ed è la protagonista maggiorenne (con dietro tutta la sua famiglia) di questa rapsodia teenager, di narrazione fluttuante che non si sta mai ferma, come se dovessimo vederla dallo skateboard. 


Dedicato al cineasta Robert Downey sr., il papà di Robert jr. scomparso il 7 luglio scorso, attore in Boogie Nights e Magnolia,  e membro nobile dei cineasti indipendenti non indecifrabili di New York, che ci ha regalato 18 film mai visti in Italia, nei titoli di coda troviamo anche un ringraziamento speciale per chi ha ispirato il personaggio e le avventure adolescenziali di Gary. Si tratta dell'amico di infanzia Gary Goetzman, l’ex attore bambino che partecipò davvero in pigiama al tv show Under One Roof (cioè a Yours, Mine and Ours del 1968), ora stimato co- produttore di Tom Hanks ed ex mirabile orecchio musicale di Jonathan Demme: anche qui Goetzman monta una sequenza di hit mozzafiato, a cominciare da due pezzi di Chico Hamilton e uno di Roland Kirk, per dare un tocco jazz, latino e squilibrante, tra Paul McCartney e Taj Mahal. 

Abbondano nel cast le celebrità (John C. Reilly, Tom Waits), i figli di celebrità (Dexter Demme, figlio di Ted; Sasha Spielberg…), i papà di celebrità (George Di Caprio) e i colleghi registi come Sean Penn, altro cameo super il suo, nella parte di un divo del cinema old fashion tra William Holden e Steve McQueen o Benny Safdie nel ruolo del candidato a sindaco democratico della sinistra ecologica ma che non può ancora dirsi gay. 



Nella seconda parte della commedia d’amore ma mai sentimentale, infatti,  si apre uno squarcio micropolitico per adulti che rischia di portare fuori pista il teen-movie e Alana che dalla piccola imprenditoria svitata e dal romanticismo tenero, dal calore e dall’umanità della prima parte si avvia verso un’impassibilità e un distacco pungente imprevisto, mettendo in difficoltà le altre attrici protagoniste candidate all’Academy Awards, a corto di esercizi obbligatori altrettanto difficili (si è parlato non a caso di rediviva Barbra Streisand, anche per la comune origine canora). 

Ma non crolla la sicurezza di Gary, l’ex attore fatto fuori dal giro degli show tv per le sue scurrili impertinenze televisive che dopo il business dei materassi d’acqua e dei flipper Gottlieb e Wiliams (da Forrest Gump di periferia) marcia dritto verso la meta: “Io Alana me la sposerò. Sono più cool di lei”.  C’è dell’Altman o del Tarantino, oltre alle musiche originali di Jonny Greenwood e al cameo perfetto di Harriet Sansom Harris (l’agente di attori) a tenere insieme un film di oltre due ore su goffi adolescenti alle prese con donne fuori dalla loro portata e soprattutto dai loro seni? 

C'era una volta a Hollywood ovvio, ma con dentro Anche gli uccelli uccidono Harold e Maude di Ashby e Convoy di Peckinpah (la scena del camion a marcia indietro sulle colline) però, sia per Bud Cort che è un perfetto anti-Gary nel suo essere perfettamente fuori posto e fuori norma, e la nostra coppia lo è,  sia perché gli occhiali rosa che sembrerebbero sovrapporsi alla Los Angeles dei Simbionesi, delle Pantere nere e del Movement da Anderson sono piuttosto causati dalla cascata di immaginario odierno (gli sforzi imprenditoriali compulsivi di Gary puzzano di millennial) che travolge la nostalgia per la new e la old Hollywood. Prendiamo la scena iniziale, potrebbe essere James Cagney o Mickey Rooney con quel suo: "Sono uno showman. È la mia vocazione!" per abbordare Alana, impiegata annoiata della compagnia che scatta foto agli studenti per l’annuario del liceo di Tarzana. E lei gli risponde: “Cosa sei? Un piccolo Robert Goulet? Un Dean Martin o qualcosa del genere?”. Ma è conquistata. Lui lo diverte, nonostante il respiro affannoso da piccolo arrapato. Lui la strappa a quel lavoro. Se la porta dietro. Nel suo ristorante di fiducia, per iniziare a maneggiare cucina giapponese (le scene più farsesche del film) o cocktail seri (non sarà mai il suo forte). Perfino a New York, accompagnatrice maggiorenne personale per uno show tv. La perde più volte. La riacchiappa. Come socia. Come compagna d’avventure pazze nella notte. Ma mai come fidanzata. O quasi, se il leggero tocco di polpastrelli o di ginocchi sotto i tavoli significano ancora qualcosa. L’amico attor giovane Lance (Skyler Gisondo) più convenzionalmente bello, maturo e ebreo, per esempio, gliela soffia a un tratto. Per fortuna è troppo ateo per il papà osservante di Alana, che lo caccia di casa. La scena in famiglia ha una leggerezza di tocco particolarmente buffa se si pensa che il papa’ ha addestrato le figlie alla lotta marziale israeliana, ovvero a come cavare un occhio al nemico usando una penna stilografica… 


Gary la mette in contatto perfino con il suo agente, interpretato da Harriet Sansom Harris per una audizione al Penn's Holden (qui chiamato Jack). Finiscono per bere un martini (“gin o vodka? E lei, esagerata: ‘gin e vodka!’) al Tail o' the Cock a Studio City, dove l'amico di Jack Rex (Tom Waits) fa uscire tutti sul campo da golf per mettere in scena l'audace salto in moto di Jack nel fuoco in uno dei suoi film. Alla fine, Alana perde la pazienza per l'apatia di Gary per tutto ciò che accade nel mondo, e fa volontariato per la campagna elettorale di Joel Wachs (Benny Safdie) ingelosendolo a morte. Però…

Di Mark Bridges (Il filo nascosto) sono le minigonne svolazzanti e i gloriosi costumi retrò, dentro i quali P.T.Anderson rende la bruna Alana arguta e intelligente fino all’indignazione, aspra e spesso irascibile, ma anche tenera e premurosa, una presenza incandescente da nuova star dello schermo: “Sono più figa di te, e non dimenticarlo,”  urla a Gary, così immaturo, così egocentrico, così intelligente, in un momento di esasperazione. Ma saprò dire anche "Sei dolce, Gary", una frase che Haim pronuncia con un piccolo tremito adorabile. 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

sabato 9 febbraio 2019

Il cacciatore solitario. The Mule di Clint Eastwood







 di Roberto Silvestri 




40 acri e un mulo. La promessa non mantenuta dopo la vittoria nordista nella guerra civile. Ai combattenti neri non fu data né la terra né il mulo.  Spike Lee ne ha fatto il nome della sua casa di produzione. 
Clint Eastwood, che non legge “il corriere”, ne ha fatto il titolo americano del suo quarantesimo film, il più bello tra i suoi profondi blues sulla storia d’America (ogni nuovo film di Clint è migliore del precedente), scegliendo, tra i due doni scippati, il mezzo di locomozione più umile, il mulo. E aggirandosi “On the Road Again” come canta Willie Nelson, nel profondo sud e nel middle del paese di dio e degli sniffatori di coca.
Questa volta, come in Gunny, come in Gran Torino e come in Sniper o nel primo Rocky, siamo dentro l’elegia di una sconfitta con onore (o di una vittoria con disonore). Si può vedere il film anche come il contributo di Clint alla “cellula tematica” di moda in questo momento e che la notte degli Oscar scopriremo se ha prodotto forme migliori di “The Mule”. E’ infatti la stessa di Green Book, di RomaLa Favorita… viaggiare fisicamente o mentalmente, con un “diverso” accanto e uscire dal viaggio modificato radicalmente. Puoi essere una regina stanca di aristocratici redditieri; un pianista jazz afroamericano della (noiosa) corrente “third stream”  che scopre i piaceri proletari bianchi;  un padre anaffettivo  che per pensare ha bisogno dei ritmi latini di Arturo Sandoval; o una donna di servizio india distrutta dalla metropoli e dal quartiere Roma… questi incontri ravvicinati con il diverso sarà molto più utile, eccitante, creativo del bazzicare sempre lo stesso ambiente natio e con la propria comunità. Bisogna far scattare l’odio per il sovranismo, ci dice quel grande "conservatore" (ma solo nell'urna elettorale) di Eastwood.   
Il mulo racconta in maniera romanzata un vero fatto di cronaca che il New York Times per mano del giornalista Sam Dolnick svelò all’opinione pubblica statunitense qualche anno fa. Lo racconta in confezione Eastwood. Con la sua solita band. Ovvero con Joel Cox al montaggio, Deborah Hopper ai costumi (il migliore è il vestito bianco da floricultore del protagonista, che è fotocopiato dal guardaroba di Clifton Webb) e Kevin Ishioka alla scenografia. Il canadese Yves Bélanger  di Wild e Dallas Buyers Club sostituisce invece il solito Tom Stern nella coreografia delle luci. Forse invece di un genio del buio che si illumina qui c’è bisogno di luce che si rabbui.
Il “mulo”, soprannome di gergo, è Earl Stone, detto El Tata, un novantenne bianco reduce della Corea con la sua scassata Lincoln pick-up che ama guidare ascoltando country, old hit, Dean Martin e Willie Nelson all’autoradio, ed è talmente imprevedibile nei tempi e nei modi di guida e di sosta, così anarchico e libertino, da sfuggire a qualunque algoritmo della Dea o di qualunque nervoso Escobar alle calcagna. Anche se alle sue costole gli piazzano un pedante controllore latino. Che è l’attore Ignazio Serricchio, argentino di evidente origine italiana, ma tifoso della nazionale di Messi (durante la lavorazione del film c’erano i mondiali di calcio) a tal punto che Clint, per farlo infuriare e incupire di più in una scena, prima di girarla gli si avvicinò è disse: “Ma come cavolo avete fatto a perdere 3-0 con la Croazia?”. 
El Tata diventa a poco a poco, in dieci anni, nel periodo che va dalla presidenza Bush jr. a quella Obama, il numero uno nel trasporto interno della droga. Dal sud, dal Texas, dalla Georgia, dal New Mexico fino a Chicago, Illinois, dove il consumo scalpita. Un’eccellenza si direbbe al tg1.
L’idolo dei narcotrafficanti, ma invisibile ai poliziotti che lo braccano (Larry Fishburne, a proposito di Spike Lee, e perfino lo sniper Bradley Cooper). E lavora con una organizzazione così potente che i cartelli di Medellin o di Juarez sembrano (e saranno) inguaribili perdenti. 
Se El Tata fosse incappato nelle ire delle leggi d’emergenza italiane che attribuivano a tutti  i componenti di una banda armata qualunque crimine commesso - in nome della lotta al terrorismo lo stato di diritto si stravolge ed è per questo che Mitterrand proteggeva gli esuli e resisteva alle improbabili richieste di estradizione - invece di rischiare tre anni di carcere avrebbe passato sicuramente tre bei secoli in galera ….
Invece Earl Stone (il suo vero nome era Leo Sharp) aiuterà nel corso di questo road movie a spirale, e presto con pick up nuovo fiammante, e grazie ai suoi guadagni: 1. la nipote a pagare le spese di nozze (è l’unica in famiglia che lo capisce, né l’ex moglie né la figlia); 2. un locale per reduci di guerra a non morire; 3. un campo da gioco a rifiorire, 4. la sua azienda da floricultore leader a non scomparire; 5. un poliziotto razzista a darsi una calmata; 6. Andy Garcia a sembrare simpatico; 7. il suo polso a divertirsi con un bracciale d’oro; 8. un po’ tutti quelli che incontra a fare i conti con i propri sensi di colpa famigliari e 9. perfino un imbranato di “negro” (non l’offende, non dice nigger, ma usa un’espressione accademicamente corretta che è parecchio desueta) a cambiare una gomma. Come avrebbe fatto in Gran Torino con i suoi vicini etnicamente scorretti …. 
Poi dicono “firma contro la droga”.
Anche quando sta fermo ed è preso da malinconie senza nome che fanno un effetto dada rimbalzando sul suo corpo scolpito ruvidamente nel legno, Clint evade, si muove, non conosce stasi. Né casa. Né famiglia. Né paternità, né regole o leggi da ripetere a vanvera. Come i cowboy di una volta, o Charlot, che arrivavano dall’orizzonte e alla fine dell’avventura si allontanavano soli nel nulla. Un fuori norma. Come un violinista d’esplorazione (c’è Paganini nel soundtrack), come un pianista jazz dalla velocità supersonica, come Earl      Hines. Improvvisare. Inventare nuove strutture e armonie. Perché? Le cose cambiano. La tua famiglia è là dove operi. Se fai cinema è l’ambiente del cinema. Se sei floricultore è l’ambiente dei coltivatori e ‘innestatori’ di Daylily. Se hai uno spirito domestico come Craig’s Wife l’opera d’arte sarà la casa (e non è detto che lo sia anche il contenuto: figli, suoceri, domestici, marito). 
Se la globalizzazione e internet, le politiche economiche devastanti e delocalizzanti di Bush jr. che favoriscono i mega conglomerati e annientano i piccoli e medi imprenditori ti costringono a globalizzarti o a morire di fame, allora sarà il cartello di Sinaloa (con ramificazioni anche in Italia, un membro modenese della mafia messicana fu ucciso proprio qui) la tua nuova famiglia. Non quella dei compleanni, delle feste di laurea, dei funerali o dei tacchini del ringraziamento… anche se la presenza di Dianne Wiest (come moglie abbandonata) è un arguto omaggio al mondo vertiginoso e metropolitano di Woody Allen. Chissà se Clint un giorno riuscirà a fare una divertente commedia sofisticata a Manhattan….
Il ritmo del film? Movimento fluido, swing, o movimento spezzato, bebop.  I ponti di Madison County più Bird…  Il cinema è emozione dinamica, o non è. Tutti penseranno  giustamente che in questo film (come in Honktonk man Million Dollar Baby) Eastwood faccia i conti con autobiografici rimorsi familiari di un artista che tra Malpaso e famiglia ha scelto sempre il set. Piuttosto burrascosi i suoi matrimoni. La presenza tra gli attori della figlia attrice-regista Alison Eastwood nella parte di chi lo odia di più ne è un sintomo. Come Clint ha vinto tre Oscar, anche Earl/Leo Shark ha creato una specie unica di daylily, la Ojo Poco, dai colori arancioni/rossi che oggi porta il suo nome. E fu ricevuto da Bush padre alla Casa bianca. E ama essere al centro dell’attenzione più fuori casa che dentro. Donne, amici, feste. Essere l’idolo delle compagnie.    
C’è un giornale di Chicago che è l’equivalente del Corsera in Illinois, ebbene The Chicago Tribune stronca il film. In nome della rispettabilità di una metropoli che Clint ci addita come inguaribilmente addicted? Non ha il coraggio di dirlo. La critica è da sinistra: “è inopportuno e falso ad ogni svolta narrativa e poi ci fa ridere assieme a un bigotto”. Come se ci divertissimo, vedendo il film, in compagnia di Trump.  Ma nel film si irridono, in nome dell’individualismo democratico inteso in maniera estremamente radicale, molti stereotipi e parole d’ordine visive e verbali spacciate come droga pesante dai media. Ci sono, per esempio, gangster ispanici e armati molto simpatici. Altro che muro per contenerli. Lo stesso protagonista del film ha trasportato oltre 3 milioni di dollari. Giro molto pesante. Quel che infastidisce moltissimo anche la nostra stampa mainstream è sempre la stessa cosa, Clint sa mettere in luce il lato negativo del lato positivo dei suoi personaggi, e viceversa, sbilanciando e mettendo in discussione la nostra stabilità emotiva. E poi qui non ritaglia più i bei cieli azzurri del middle per dare un contorno concreto e materico all’eroe di un drugs-thriller, o tonalità plastiche o dolci e manierati effetti allusivi, citazioni e rimandi al genere Soldado, ma chiede al direttore della fotografia di Jean Marc Vallée di costruire un pacato viaggio verso la morte con la lentezza di un rito beat (dove si rovescia il rapporto Burroughs/moglie, non meno conflittuale). Le valli che attraversa El Tata sono ricche di echi, di memorie mute, di trasalimenti silenziosi. Se l’attimo è fuggente come lo sbocciare del lilyday, che ci mette moltissimo tempo e cura per raggiungere il suo brevissimo exploit, come l’artista, come l’uomo consapevole capace di coniugare intelletto e sensibilità umana verso tutti, sembra proprio di ascoltare Yukio Mishima quando ricorda di aspettare pazientemente che il seme della soluzione germini a poco a poco finché il fiore della soluzione non sbocci”.   


E’ un film beat.

Un classico di Billie Holiday. La cinepresa inquadra un cespuglio di fiori colorati forse di rose, da destra a sinistra e s’innalza lentamente verso la fine. Un piccolissimo road movie. Tre minuti. Come una canzone. Il “cinema verticale” è una song, spiegava Jonas Mekas a chi prendeva in giro le teorie underground della pioniera “no Hollywood” Maya Deren. Introduzione, strofa, ritornello, uno sull’altro, fino alla fine…. Non c’è storia consolatoria o avventura posticcia o compassione sentimentalistica fatta format. Non c’è sviluppo orizzontale che segue scrupolosamente il dogma che obbliga all’happy end. 
Non so se fosse di Piero Heliczer o di Bruce Baillie quel piccolo capolavoro zen del New American Cinema, l’intuizione di collegare l’effimero splendore di un fiore con il senso del cinema libero che è esplosione di emozioni laconiche, come una canzone che salta in alto, non in lungo e mai in triplo, e più che al corpo è interessato allo spazio, al paesaggio, al cielo, alla natura non indifferente…“che vibra, palpita, si fa colore, suono, valenza cromatica, pur gestualità” come scriveva Giuseppe Turroni del troppo esplicitamente autobiografico Honky Tonky Man
The Mule, il nuovo Eastwood, regista e attore contemporaneamente, a dieci anni dall’ultima performance doppia (Gran Torino, sceneggiato dallo stesso Nick Shenk), conferma un ennesimo salto stilistico di regia e di performance. Una discontinuità nel senso della sintesi sempre più astratta e fremente.  Il saper incorporare, come attore, sia il ragazzo della porta accanto della classicità James Stewart (a cui il suo personaggio viene costantemente paragonato) che Clifton Webb, lo snob metropolitano che maltrattava quella classicità con fastidioso distacco camp. Il passo misurato, cauto, minuzioso e rigoroso, la geometria dei gesti e degli sguardi qui diventa saggezza presuntuosa e estroversa alla Elia Belvedere, saperne più di tutti. E come regista,  sulla base di un classicismo formale etico e ritmico hollywoodiano (Ford-Wellman-Siegel) riuscire a liberare anche il senso profondo della lezione “negativa” underground degli anni 60 e dotarsi di un occhio di ghiaccio e di un cuore di vetro alla Lynch, cui fa ribrezzo ogni minimo contatto realistico.  Non è forse questo il film più vicino e più lontano a Una storia vera? Lì un vecchio mosso dal più naturale sentimento familiare. Qui un vecchio mosso dal più innaturale sentimento familiare. Il cacciatore solitario (che qui fa finta di essere più vecchio e acciaccato di quanto l’88enne Clint non sia) che si è avventurato dentro la più pericolosa delle giungle - il Middle che ha votato Trump; il cartello della droga più criminale della storia; i sensi di colpa di chi ha anteposto la propria carriera a tutti gli appuntamenti che richiedono la tua presenza perché danno forma alla vita - e che ne è uscito sia ricco che povero, sia morto che vivo, sia macchiato dalla colpa più indelebile che immacolato, sia condannato che assolto, sia super star che infame. 
The unforgiven.  Un morto vivente.    



Il cinema utile
Due film nordamericani hanno strappato al braccio della morte le vittime di clamorosi errori giudiziari. Il primo è un documentario, The People vs. Paul Cramp, l’esordio in 16mm. di William Friedkin nel 1962. Il secondo è The Blue Tine Linedi Errol Morris, 1988, un altro “non fiction movie”.  Serve il cinema. E’ un’arma contundente. Già. Spara, shoot.
Quando si ridusse, grazie alle tecnologie leggere e poco costose delle “nouvelle vagues”, il gap tra vita e arte, molti ‘guerriglieri del cinema’ hanno inciso sui cambiamento (in meglio) della società. E molti film maker sono stati anche vittime dei loro coraggio politico. Il documentarista gallese James Miller, ucciso a Gaza nel 2003 dai soldati israeliani; l’olandese Theo Van Gogh, accoltellato da un fondamentalista islamista nel 2004, proprio come il danese Finn Nørgaard;  lo statunitense Charles Edmund Lazar Horman,  assassinato per ordine di Pinochet in Cile nel 1973 (la sua storia è raccontata in Missing); i palestinesi Juliano Mer-Khamis, giustiziato a Jenin da un commando deviato di Hamas, e Hany Jawhariyya ucciso in combattimento, telecamera in mano, nel 1976 in Libano; il siriano Moustapha Akkad, saltato in aria per un attentato terrorista ad Amman nel 2005. Per non parlare dei tanti cineasti  sequestrati e uccisi durante le dittature militari in Argentina e Brasile. A chi spara oggi Clint? Make my day.  Da buon repubblicano lincolniano ai razzisti, a chi crede che il Muro tra Stati Uniti e Messico vada eretto per non contaminare sangue wasp con la cultura latina che sta diventando maggioritaria nel paese. Agli ipocriti di ogni risma, visto che il traffico di droga sta diventando un pezzo importante dell’economia e andrebbe controllato-legalizzato-nazionalizzato per strapparlo dalle mani di chi non pagando tasse può permettersi, come Andy Garcia, di tirare al bersaglio (piattelli non volatili) con un fucile tutto d’oro (e per far crescere l'economia tutta di Colombia, Messico, Venezuela...). Come il buon vecchietto che non dà nell’occhio anche il cineasta, avanti con gli anni come Manoel de Oliveira può permettersi di dire cose proibite ai giovani rampanti che vogliono scalare le vette del successo. L’amarezza per gli anni bui spesi male. Era un attore pressoché finito prima del successo catturato lontano da casa, con Sergio Leone. Ancora Turroni. “Di Siegel, Eastwood ha il gusto di certa commedia amara, una commedia di sentimenti il cui dono della sintesi condensa in termini astratti tematiche letterarie in altri inerti”. Qui memoria, astrazione, biografia e senso della storia sono in perfetto equilibrio. Quel che conta è ancora il rapporto tra i colori, i nessi, i flussi, le vibrazioni cromatiche e ritmiche. Il cinema.   

  

lunedì 5 gennaio 2015

American Sniper, la guerra nel mirino di Clint Eastwood


Shoot! Clint Eastwood

Mariuccia Ciotta


L'occhio inquadra l'obiettivo, sceglie distanza, posizione e luce giusta... shoot. Solo che Chris Kyle non è un regista. E' un cecchino, il migliore. Dietro l'obiettivo, Clint Eastwood sovrappone l'effetto del ciak, la danza fantasmatica del cinema, con l'”action” che dà la morte. Si inserisce là dove sfuma l'assoluta certezza del texano, tiratore scelto del corpo speciale dei Seals, e lo demolisce dentro. Lo sgretolamento del giustiziere - sceriffo, ispettore, tenente - da parte di se stesso è il leit motiv del cineasta dai tempi di Dirty Harry che ritorna, sempre più declamato, in Le bandiere dei nostri padri, Lettere da Iwo Jima, Gran Torino, quando l'ex marine cinico e disilluso confessa l'assassinio di un soldato inerme, nemico in terra di Corea, senza che nessun superiore glielo avesse ordinato. Dall'allora quel ragazzo ritorna notte dopo notte a tormentarlo... e finisce nel corpo minuto di un bambino iracheno in American Sniper.
Bradley Cooper in American Sniper
Il film ha un primo impatto devastante, non si può volgere lo sguardo, siamo tutti Chris Kyle sul tetto di un edificio a Sadr City, costretti a decidere all'istante se premere il grilletto sul piccolo, carico di un ordigno esplosivo, o mandare all'inferno un'intera squadra di marines. Questa è la guerra, questo è il “my job” contro i terroristi delle Twin Towers, la valorosa spedizione per salvare dai “selvaggi” i compagni.
Il vero protagonista, autore dell'autobiografia best-seller da cui è tratto il film, non si è chiesto se la coppia Bush/Blair mentiva sulle armi di distruzione di massa. E’ andato a combattere per il “paese più bello del mondo” e ne ha fatti fuori 160 o forse 255 tra Falluja e Ramadi, tanti da meritarsi il titolo di Leggenda. Patriota, texano, macho, quasi identico all'attore che l'interpreta, Bradley Cooper, ma delicato nell'animo, voglioso di casa e d'amore, una moglie adorante e trepidante, due figli, trascurati per un ideale più alto, il bene collettivo. Lui è un “cane da pastore”, difende il gregge, né un lupo né un agnello, come gli ha insegnato un padre roccioso, fucile imbracciato e colpo in canna per stendere un cervo regale, alter ego dell'elefante di Cacciatore bianco, cuore nero.
Bradley Cooper
Eastwood taglia le immagini con lame affilate, scarta la dimensione emotiva, si cita nelle scene grottesche di addestramento, non cede al romanticismo. Di eroi non c'è traccia. Chris Kyle è un uomo privato dalla facoltà umana di scegliere - così è la guerra - e il film ne mostra le conseguenze. Per la seconda volta un bambino-soldato gli passa nel mirino, “non prendere il fucile, non prenderlo!” implora il cecchino. Soltanto il cinema può accontentarlo, e va in dolce dissolvenza.
American Sniper è una radiografia radicale dello sport ammazza-uomini - attualmente preferito alla via diplomatica - che il regista accosta con gusto beffardo alla disciplina del tiro a segno: il rivale di Kyle è un sensuale, bellissimo siriano in trasferta, ex campione olimpionico. Al disinnescatore di mine, quindi dalla parte dei vivi, di The Hurt Locker, film Oscar di Kathryn Bigelow, Clint preferisce il killer nascosto tra le fenditure dei muri, essenza estrema della morte in agguato, lo stesso personaggio che in Gli spietati colpiva dall'alto di una roccia un cow-boy ferito e invocante un sorso d'acqua. L'angoscia gelida dell'uccidere, la malattia mentale che penetra nella parte nascosta dai muscoli d'acciaio, il disfacimento dell'umano, tutto sintetizzato nell’immagine ossessiva degli occhiali scuri che Kyle non abbandona mai, marca Wiley X, product placement del classicismo tragico di Nick mano fredda e dello “spietato senza occhi” interpretato da Morgan Woodward.
Chris Kyle, il cecchino
Il cecchino impegnato nella “missione per conto di dio”, e in particolare nell’eliminazione di uno djadista di tarantiniana efficacia, “il macellaio” (che sembra uscito da Driller Killer di Abel Ferrara) sentirà smuovere dentro di sé qualcosa che assomiglia alle deformità psico-fisiche dei reduci, di cui, tornato dopo quattro “turni” dall'Iraq, si prenderà cura, anche lui catatonico, immerso in un delirio di visioni e rimbombi, assente dal giardino fiorito del Texas dove frigge il barbecue familiare.
Fine di ogni pulsione vitale, nemmeno la lotta contro il “male” darà più la carica al “Diavolo di Ramadi” che voleva fare il cow-boy da rodeo, e che vaga ancora nella nebbia dei campi di battaglia. Una coltre di polvere offusca lo schermo, rinuncia all'atto di vedere, messa fuori fuoco definitiva. E come nella tragedia greca non c'è risposta, non c'è soluzione, tutto resta in sospeso, se non l'idea che ognuno è responsabile delle proprie azioni, tema caro a Eastwood l'individualista. 
 

American Sniper lascia inquietudine, scandalo e disorientamento per questo suo innocente assassino, il “narratore” disturbante che non concede vie d'uscita. Chris Kyle aveva scelto di combattere la morte con la morte, e finirà ucciso, a coronamento simbolico, proprio in un poligono di tiro da uno come lui, un reduce affetto da disturbo post-traumatico.
Eastwood lo accompagna nella processione funebre, lungo l'interstate 35, tra Midlothian, la cittadina di Kyle, e il cimitero militare di Austin, lungo 250 km di folla assiepata e silenziosa, un'immagine desolante che ricorda le bandierine meste sventolate al ritorno degli eroi fasulli dell'invasione di Grenada in Gunny.
Clint Eastwood cita la scena finale di Gran Torino


lunedì 24 marzo 2014

Irv, fuori legge e me ne vanto. Due o tre cose su 'American Hustle', qualche mese dopo

Jennifer Lawrence, Jeremy Renner, Amy Adams, Bradley Cooper e Christian Bale in "American Hustle"


Roberto Silvestri 

Salutiamo con interessa il ritorno ossessivo agli anni 70 e al suo cinema sex drugs and rock'n'roll. Dopo Booglie Nights, di Paul Thomas Anderson, Blow di Ted Demme e Almost famous di Cameron Crowe e Paura e delirio a Las Vegas di Terry Gilliam... ecco American Hustle. Ma qui siamo verso il punto di rottura, all'orlo del declino di quei formidabili frangenti. Se il più gentile e charming dei rapinatori di banche anni settanta, Charlie Varrick, l'ultimo degli indipendenti, ritratto da Walter Matthau in un celebre capolavoro di Don Siegel del 1973, era il Dottor Jeckyll, questo truffatore febbrile e isolato che si chiama Irving "Irv" Rosenfeld (Christian Bale) è infatti il suo (ritardatario) Mister Hyde. Narcisismo, opportunismo e cinismo. Questi lo sfondo sentimentale del suo nuovo modus operandi, della performance, dell'assolo. La band non c'è più.

Truffatore nel senso tragico, passivo, non comicamente, egemonicamente attivo, del termine. Pura sopravvivenza nel sistema, non più antitesi al sistema. "L'arte della sopravvivenza è una storia che non finisce mai", nel senso che Irv - sue quelle parole -  proprio come la sua compare Sydney, è costretto solo alla legittima difesa più strenua, sotto padrone Fbi addirittura, in una società capitalisticamente corretta, dove il più forte truffatore mangia perennemente il più debole, deformazione borghese delle nobili intuizioni evoluzioniste e mistificazione ideologica di una distopia, il libero mercato. Nascondere la calvizie, aprire tutte le fessure necessarie nei vestiti, uno spreco industriale di bigodini, per contrastare le onde del destino nei capelli. Ogni marchingegno seduttivo di superfice va utilizzata per deviare lo sguardo dalla vera posta in palio.

Insomma non di simpatici giochi d'astuzia individualistici si parla in questo film, come nella Stangata o in Paper moon, o in Bonnie and Clyde, ma del senso stesso, piuttosto immondo, della società capitalistica finanziaria 'pura', senza stato sociale rooseveltiano a correggerne le iniquità macroscopiche, senza rete di protezione pubblica, che dai ruggenti anni venti riemerge, d'un tratto sul suolo americano, per spazzare via tutto ciò che intralcia il big business, i grandi interessi. Già si sente nell'aria gialla e maleodorante di questo film la puzza del neoliberismo, di Reagan, del doppio Bush, dei subprimes...E dell'oggi si tratta, come in ogni film in costume.   Come se Obama, negli Usa di oggi, contasse come Kathami nell'Iran degli ayatollah. Quasi niente.

Christian Bale come Irv Rosenfeld
Togli dunque la coscienza politica di Varrick, perché nel 2014 è ormai un patetico reperto preistorico, e cosa rimane? Malinconia. Un mostriciattolo, più o meno simpatico, che cerca di sopravvivere tra i ripugnanti Veri Mostri Affamati. L'ennesimo mito diffuso nell'ottocento nelle dime-novel di Horatio Alger, riproposto. Sei povero? Sei caduto nel fango? Solo se sei abbastanza cattivo e ce la metti tutta ce la farai. Gli immondi, come Horatio Alger, risorgono....

Amy and Duke
Il compositore Danny Elfman rivestirà dunque le sue gesta di resistenza di armonie sufficientemente sardoniche (sarcastiche e tristi, a volute introverse e estroverse, come i capelli posticci di Irv). Sono proprio le musiche del film - altro che commento, altro che sfondo altro che raddoppiamento sentimentale - il punto di vista etico da assumere, per inquadrare e giudicare meglio i fatti, le intenzioni e le melodie, spesso nefaste, della vita di Irv & Co.

Bradley Cooper
Ben confezionato allora questo personaggio dell'anti-eroe, ben truccato, nonostante la pancetta, ben mascherato, soprattutto nei capelli, ben simulato nel paesaggio dell'America di Jimmy Carter che ritrova l'onore dopo l'orrore dalle presidenze Nixon-Ford. Meglio di niente. Come era stato orrendamente mascherato, invece, quel criminale di Richard Nixon, il massacratore clandestino di cambogiani e laotiani... Il vero americano.  Il nostro film si ambienta, infatti, nel dopo-Watergate, nel dopo-Vietnam... Negli Stati Uniti d'America dove nella lotta alla corruzione si metabolizza la sconfitta bruciante in estremo oriente. E' guerra seria, a forza di napalm, tra un tipo di politici corrotti, i vincenti, contro un altro tipo di politici-corrotti, i perdenti.

Christian Bale e Jeremy Renner
Ed è ancora nelle sale, forse, American Hustle. O speriamo che la Eagle lo riproponga. E' un'opera complessa, da rivedere, recuperare e ridiscutere. Il titolo, poi, è bellissimo visto che ha a che fare con la frenetica aggressività americana del fondatore, nel 1974, di Hustler, rivista porno per 'soli uomini non ipocriti', il combattente Larry Flynt, che certamente - lo abbiamo apprezzato nel film di Milos Forman, Nixon non lo ha mai votato.

Siamo nel 1978, allora. Due piccoli truffatori niente male, che adorano all'unisono il Duke Ellington di epoca 'Bubber Miley e Tricky Sam Nenton', perché vivono nella new jungle metropolitana, costretti a far troppo male dunque anche ai poveracci incauti e alle loro tasche, cioé l'imbolsito Irving Rosenfeld e la seducente, forse nobil donna inglese, Sydney Prosser (Amy Adams), eternamente quasi amanti, sono smascherati e utilizzati dall'Fbi per eliminare un sindaco italo-americano del partito democratico del New Jersey, scomodo perché troppo populista, e alcuni senatori da rottamare e affidare il business di Atlantic City e dei suoi casinò in ben altre mani (non meno mafiose)... 

Jennifer Lawrence e Amy Adams
Sbuca fuori perfino un agente Fbi che sembra onesto anche se ambizioso, Richie DiMaso (Bradley Cooper) e quel sindaco ambizioso, malandrino, ruspante ma simpatico perché 'di parte operaia', come Carmine Polito (un travolgente Jeremy Renner, lo voterei anche io). Le cose per fortuna non andranno proprio come tutti gli scagnozzi di Edgar J. Hoover, in attrito tra di loro, c'è Jimmy Carter che rompe, hanno previsto... 

Bradley Cooper, Amy Adams, Christian Bale, Jennifer Lawrence e Jeremy Renner
Sullo sfondo (ma preme parecchio) un fatto di cronaca vera, lo "scandalo Abscam" (o Arab Scam o Adbul Scam), sei congressisti, un senatore e un sindaco arrestati, uno dei tanti ripulisti di politici corrotti che accomunano la storia del New Jersey a quella del comune di Brindisi, con tanto di finto miliardario saudita però, qui sguinzagliato. Il che, coinvolgendo Robert De Niro in un cameo da mafioso politicamente corretto, precursore del manager moderno che parla fluentemente l'arabo, trasforma una smagliante screwball comedy della migliore tradizione Howard Hawks-Cary Grant-Rosalind Russell in una aggiornata, cupa farsa all'italiana, quasi ridipinta alla Martin Scorsese. Uno stranissimo mix.  
Il regista David O. Russell sul set

Ma di questo denso e disincantato 'dramma metropolitano' veloce e pieno d'humor sulla corruzione municipale e senatoriale Usa, un crime drama che al culmine del suo potenziale comico, mirerebbe, sotto sotto, al risarcimento morale dell'Fbi, insomma di American Hustle, ci ricorderemo allora tra qualche anno solo per il virtuosismo recitativo, tr Jean Harlow e Judy Holliday come scrisse il New York Times nel dicembre scorso, di Jennifer Lawrence


Jennifer Lawrence e Bradley Cooper
Lei è una futura 'married with the mob' che tanto deve a Michelle Pfeiffer e a Mercedes Ruehl. Ma per dare vita alla sua illegally blonde Rosalyn - la moglie indocile e inquieta di Irving Rosenfeld - ha incorporato una sensualità diversamente perturbante, istintivamente intellettuale, perché gironzola nel film per conto suo, del tutto avulsa da testo e contesto, come Marilyn in Niagara. Sempre al suo fianco un libro di Wayne Dyer, "Power of Intention", che, scritto nel 2004, ma Rosalyn precorre i tempi, sembra il manuale del giovane attore emergente, da Sean Penn in poi. Anticipare le mosse del nemico per abbatterlo. mai più i manuali kennediani, ormai inservibili, quelli del tenore: come conquistare gli amici, come avere successo ispirando simpatia...E Rosalyn divora e metabolizza quel libro, peggio che Anna Karina Brecht in un film-saggio di Godard.

Jennifeer Lawrence
Insomma è l'incrinatura, l'anarchico detour rispetto a una sceneggiatura dagli incastri fluidi e dai dialoghi consequenziali e ferrei (particolarmente spettacolare data la presenza, ben intrecciata e coordinata, degli altri ben 167 attori!) - che sembra ispirata a una 'sensazionale inchiesta' del Village Voice - a fare la forza strana e un po' malata di American Hustle? O siamo in pieno 'laboratorio attoriale' dove solo i personaggi e quel che da dentro trasmettono 'elettricamente' all'ambiente circostante, contano e il copione è solo un canovaccio di cui non tenere alcun conto? 

Christian Bale
No. Attenzione. L'apparenza inganna. Come ci ricorda il sottotitolo italiano di questo strano oggetto, analogo, anche per l'atmosfera malinconica, ad Atlantic City (1980) di Louis Malle (i colori inaciditi di allora, le luci fantasmatiche del belga Richard Ciupka, che strano, redivivo oggi dopo 30 anni di inattività, sono quelli glaciali dello svedese Linus Sandgren), anzi quasi il fuori campo  di quel film sulla mafia dei casinò nascenti della costa east, a cui il copione di David O. Russell (anche regista) e di Eric Warren Singer aggiunge due o tre cose autentiche sul malaffare locale precedente. Speculazioni edilizie, mazzette, inquinamenti mafiosi al Congresso, misteriosi traffici Fbi...

Jennifer Lawrence e Amy Adams
Dunque di American Hustle è bene scrivere con cautela. Anzi è proprio stato difficile scrivere. Lunga la pausa di riflessione. Da quando, molti mesi fa, il film è uscito. Da quando apparve quel parrucchino imbizzarrito ma trattato con le mani da gourmet sulla testa semicalva di Irving Rosenfeld (un Christian Bale ingrassato, imbruttito, deturpato, perché così vanno di moda le star maschili di oggi o estremamente scarnificati, o frustati a morte o imbolsiti). Da quando il film ha partecipato alla notte dei Golden Globe (3 premi: Jennifer Lawrence, Amy Adams e migliore commedia), dei Bafta (3 premi: trucco, sceneggiatura originale e Jennifer Lawrence) e degli Oscar, 10 candidature (non alla fotografia...) e nessun premio. Da quando iniziò quella storia, il 26 o il 28 aprile (dalle scritte del film non è chiaro) del 1978. Da noi la Cia si interessava, con malignità, al rapimento Moro.

Amy Adams sente Duke Ellington, periodo anni 50-60
Infatti ci sono contenuti importanti incastonati in questo omaggio alle forme del cinema che fu, alla 'new Hollywood', al cinema di personaggi indocili e 'contro', non di copioni embedded. E al clima politico post-sessantottino che dalle grandi battaglie ideali generali più o meno vinte (Vietnam, pacifismo, sessualità libera, droga che dilata la coscienza, femminismo, agricoltura biodinamica contro fast food....) intraprendeva da allora la 'lunga marcia dentro le istituzioni', cercando di conquistare potere politico, anche locale, e uscendono sempre, più o meno, sconfitto, da Eugene McCarthy a McGovern a Harvey Milk in poi.  Ma aprì quel sentiero imprenditoriale, legale e illegale, per la 'soggettività desiderante' che avrebbe trasformato il compagno in ristoratore alternativo, il supermercato in Farmers Market, soprattutto nei dintorni di Berkeley; l'individuo americano in lotta contro tutti in lottatore specifico: da beat a broker, da studente a barone (rosso); da hippy felice a yuppy feroce, da hobo a bobo, da rivoluzionario materiale riempito di botte in ribelle immateriale riempito di bot. Chissà se migliorando. Look a parte. 

Jennifer Lawrence
Conosciamo l'antipatia generazionale di oggi per la moda maschile fine anni settanta, pantaloni a zampa d'elefante, stivaletti Beatles, collettoni sulla giacca stretta e maglioni norvegesi bianchi a tessitura larga, in primis.Però, a un certo punto, si entra allo Studio 54, usciamo da Casino e Godfellas e siamo già dalle parti di Badham e nel bel mezzo della Febbre del sabato sera. Ci si trasforma, come Sydney in Lady Edith Greensley. Una frase vittoriana come: "Tu non sei niente per me finché non sei tutto", dopo quel decennio così promiscuo, spersonalizzato, de-individualizzato, zen e in trance da acid-test, ha il sapore geniale di una invenzione romantica. Quasi di un recupero di Fitzgerald dopo tanto Hemingway-Kesey. Perché il sogno di una generazione vincente è essere qualcosa di diverso da ciò che si è. Perché nuovi compiti esigono corpi differenti. Protesi nuove. Tecnologie incorporate. Altri romanticismi. La mutazione è in corso da trent'anni. Attenzione.
American Hustle