domenica 3 settembre 2023
MOSTRA DI VENEZIA 80. LEONARD BERNSTEIN NON E' PIU' RADICAL CHIC, MA NEANCHE RADICAL
venerdì 18 marzo 2022
Licorice Pizza, C'era una volta nella San Fernando Valley. Paul Thomas Anderson e il suo American Graffiti
“Se il costo della benzina aumenterà di nuovo troppo, l’America si potrebbe davvero portare a termine la Rivoluzione”. Mi diceva Robert Aldrich nel 1979. Con Nixon anni prima il sistema nervoso dell’Impero aveva già iniziato a dare i numeri quando, per reagire alle continue annessioni di territorio palestinese, i paesi arabi razionarono la vendita di greggio…
Questo lo sfondo storico-politico di Licorice Pizza, girato in pellicola 70mm DTS. “La benzina è finita, usate la bicicletta!” scrivevano ai distributori. Ma sono le interiora non le superfici di un paese in movimento turbolento a essere fotografate qui. I flussi di coscienza, il danzare tra ricordi casuali. Una foschia di racconti selvaggiamente abbelliti e di ricordi semidimenticati. Le feste in cui si rischiava di morire e le peripezia rischiose che facevano morire dal ridere. Le splendide carrellate iniziali sui primi incontri e i primi dialoghi audaci dei protagonisti (Anderson condivide il merito della fotografia con Michael Bauman) sono seducenti quanti deprimente quell’incalzare continuo di uomini che si comportano irrimediabilmente male.
Siamo in un epoca prima dei mall center, delle carte di credito, dei telefoni cellulari. Quando i dischi in vinile si compravano al “Licorice Pizza” (o in templi simili ormai estinti) se si viveva a Encino, nella San Ferdinando Valley, urbanizzata estensione della contea di Los Angeles.
Licorice Pizza è un period movie arredato alla 1973, anno di grazia, quello della prima crisi energetica. Che musica però in quei giorni: Doors, Sonny & Cher, The Four Tops, Still, Donovan, Bowie… per adornare una commedia teenager esilarante e fuori schema come poche. Siamo quasi al livello di Rock’n’roll high school o, per quanto riguarda i materassi ad acqua, che hanno un loro peso specifico speciale nel film, agli orrori da ridere di Nightare on Elm street 1 e 4 o sublimi di Edward mani di forbici. Giù fioccano sul film i premi della critica americana, per la sceneggiature, soprattutto, per Bradley Cooper (nella parte di Jon Peters, il parrucchiere delle dive che ispirò Shampoo con Warren Beatty) ricco demente libidinoso, da eccesso di coca e lsd, che a secco di benzina mancherà l’appuntamento con Barbra Streisand. E per Alana Haim….la protagonista, l’incarnazione perfetta della ragazza della Valle, “Alana Kane”. Già.
Le ragazze della San Fernando Valley, nei primi anni Settanta, erano proprio speciali, avevano inventato un loro modo di parlare eccentrico, senza che gli adulti capissero un acca e interferissero. Come in ogni altra parte del mondo.
Ma quello che succede dietro le colline di Hollywood, nella gigantesca periferia piatta e desertica della metropoli dei sogni, dove in estate si muore di caldo e le piscine sono d’obbligo, e non c’è molto da fare (anche perché dal 1939 al 1973 in California i flipper erano fuori legge perché producevano ludopatici, un piacere ossessivo e irrefrenabile come con le slot machines) se non correre alla disperata imitando Carax, parlare come Alana Haim o inventare di tutto, ha un’eco differente. Contagia il mondo. Anche se i cinefili non californiani ma francofoni non colgono. Tutti parlarono allora della figlia di Frank Zappa e del suo idioma da lettrista pazza. Nel 1983 Martha Coolidge girò Valley Girl (mal tradotto in Italia come La ragazza di San Diego, comunque poco visto) per raccontare l’impossibile storia impossibile d’ amore tra la periferica Julie e il fico di città, Randy il punk.
E Paul Thomas Anderson che non fa più cinema da una vita ma solo musica post-rock in immagini, dalla Valle viene e vi ha ambientato lì anche Boogie Nights, Magnolia e Punch Drunk Love.
Dopo l’autobiografica rapsodia beat di Vizio di forma si dedica a un’altra forse autobiografica sinfonia d’amore impossibile. Per la vita, che ti spinge a inventarsi qualcosa e ad esserne padrone. Far l’attore o il rocker o il cineasta ma non sottostare alle regolette di agenti e produttori e genitori e mercato e star, fosse pure Lucy Ball (Christine Ebersole). Far la quasi fidanzata, ma non sottostare alle regole e agli stereotipi di un copione standard, “come si deve” per essere prodotto. Dunque la love story è tra Alana e Gary Valentine. Come un doppio slalom parallelo e imprevedibile nel quale gareggiano una ragazza di 25 anni invaghita di un minorenne - casa poco raccomandabile e dunque tenuta a bada il più possibile, finché è possibile – e un quindicenne un po’ in carne e brufoloso che ha una cotta per lei ed è molto intraprendente perché attor giovane (Cooper Hoffman, il figlio di Philip Seymour, e non meno bravo di Alana). Alana è innamorata perfino degli amici di Gary, anche se sono tutti scatenati ma senza patente. Tanto per ricordare un po’ Wendy, Peter Pan e il loro codazzo di moccioso.
Tra questo film, bertolucciano come sempre - che è un po’ La luna delocalizzato nella perversione, basta mamme invadenti, anche Lacan sarebbe d’accordo, e meno eroina e come droga pesante il liberismo edonista - e il Filo nascosto, che era una irresistibile commedia british ben vestita da melò nero, troviamo una dozzina di video clip girati da P.T. Anderson con e sulla band rock femminista Haim, oltre che con i Radiohead.
E proprio Alana Haim è un membro del trio new rock con le sorelle Danielle e Este, canta, suona la chitarra (qui ne spacca una) ed è la protagonista maggiorenne (con dietro tutta la sua famiglia) di questa rapsodia teenager, di narrazione fluttuante che non si sta mai ferma, come se dovessimo vederla dallo skateboard.
Dedicato al cineasta Robert Downey sr., il papà di Robert jr. scomparso il 7 luglio scorso, attore in Boogie Nights e Magnolia, e membro nobile dei cineasti indipendenti non indecifrabili di New York, che ci ha regalato 18 film mai visti in Italia, nei titoli di coda troviamo anche un ringraziamento speciale per chi ha ispirato il personaggio e le avventure adolescenziali di Gary. Si tratta dell'amico di infanzia Gary Goetzman, l’ex attore bambino che partecipò davvero in pigiama al tv show Under One Roof (cioè a Yours, Mine and Ours del 1968), ora stimato co- produttore di Tom Hanks ed ex mirabile orecchio musicale di Jonathan Demme: anche qui Goetzman monta una sequenza di hit mozzafiato, a cominciare da due pezzi di Chico Hamilton e uno di Roland Kirk, per dare un tocco jazz, latino e squilibrante, tra Paul McCartney e Taj Mahal.
Abbondano nel cast le celebrità (John C. Reilly, Tom Waits), i figli di celebrità (Dexter Demme, figlio di Ted; Sasha Spielberg…), i papà di celebrità (George Di Caprio) e i colleghi registi come Sean Penn, altro cameo super il suo, nella parte di un divo del cinema old fashion tra William Holden e Steve McQueen o Benny Safdie nel ruolo del candidato a sindaco democratico della sinistra ecologica ma che non può ancora dirsi gay.
Nella seconda parte della commedia d’amore ma mai sentimentale, infatti, si apre uno squarcio micropolitico per adulti che rischia di portare fuori pista il teen-movie e Alana che dalla piccola imprenditoria svitata e dal romanticismo tenero, dal calore e dall’umanità della prima parte si avvia verso un’impassibilità e un distacco pungente imprevisto, mettendo in difficoltà le altre attrici protagoniste candidate all’Academy Awards, a corto di esercizi obbligatori altrettanto difficili (si è parlato non a caso di rediviva Barbra Streisand, anche per la comune origine canora).
Ma non crolla la sicurezza di Gary, l’ex attore fatto fuori dal giro degli show tv per le sue scurrili impertinenze televisive che dopo il business dei materassi d’acqua e dei flipper Gottlieb e Wiliams (da Forrest Gump di periferia) marcia dritto verso la meta: “Io Alana me la sposerò. Sono più cool di lei”. C’è dell’Altman o del Tarantino, oltre alle musiche originali di Jonny Greenwood e al cameo perfetto di Harriet Sansom Harris (l’agente di attori) a tenere insieme un film di oltre due ore su goffi adolescenti alle prese con donne fuori dalla loro portata e soprattutto dai loro seni?
C'era una volta a Hollywood ovvio, ma con dentro Anche gli uccelli uccidono o Harold e Maude di Ashby e Convoy di Peckinpah (la scena del camion a marcia indietro sulle colline) però, sia per Bud Cort che è un perfetto anti-Gary nel suo essere perfettamente fuori posto e fuori norma, e la nostra coppia lo è, sia perché gli occhiali rosa che sembrerebbero sovrapporsi alla Los Angeles dei Simbionesi, delle Pantere nere e del Movement da Anderson sono piuttosto causati dalla cascata di immaginario odierno (gli sforzi imprenditoriali compulsivi di Gary puzzano di millennial) che travolge la nostalgia per la new e la old Hollywood. Prendiamo la scena iniziale, potrebbe essere James Cagney o Mickey Rooney con quel suo: "Sono uno showman. È la mia vocazione!" per abbordare Alana, impiegata annoiata della compagnia che scatta foto agli studenti per l’annuario del liceo di Tarzana. E lei gli risponde: “Cosa sei? Un piccolo Robert Goulet? Un Dean Martin o qualcosa del genere?”. Ma è conquistata. Lui lo diverte, nonostante il respiro affannoso da piccolo arrapato. Lui la strappa a quel lavoro. Se la porta dietro. Nel suo ristorante di fiducia, per iniziare a maneggiare cucina giapponese (le scene più farsesche del film) o cocktail seri (non sarà mai il suo forte). Perfino a New York, accompagnatrice maggiorenne personale per uno show tv. La perde più volte. La riacchiappa. Come socia. Come compagna d’avventure pazze nella notte. Ma mai come fidanzata. O quasi, se il leggero tocco di polpastrelli o di ginocchi sotto i tavoli significano ancora qualcosa. L’amico attor giovane Lance (Skyler Gisondo) più convenzionalmente bello, maturo e ebreo, per esempio, gliela soffia a un tratto. Per fortuna è troppo ateo per il papà osservante di Alana, che lo caccia di casa. La scena in famiglia ha una leggerezza di tocco particolarmente buffa se si pensa che il papa’ ha addestrato le figlie alla lotta marziale israeliana, ovvero a come cavare un occhio al nemico usando una penna stilografica…
Gary la mette in contatto perfino con il suo agente, interpretato da Harriet Sansom Harris per una audizione al Penn's Holden (qui chiamato Jack). Finiscono per bere un martini (“gin o vodka? E lei, esagerata: ‘gin e vodka!’) al Tail o' the Cock a Studio City, dove l'amico di Jack Rex (Tom Waits) fa uscire tutti sul campo da golf per mettere in scena l'audace salto in moto di Jack nel fuoco in uno dei suoi film. Alla fine, Alana perde la pazienza per l'apatia di Gary per tutto ciò che accade nel mondo, e fa volontariato per la campagna elettorale di Joel Wachs (Benny Safdie) ingelosendolo a morte. Però…
Di Mark Bridges (Il filo nascosto) sono le minigonne svolazzanti e i gloriosi costumi retrò, dentro i quali P.T.Anderson rende la bruna Alana arguta e intelligente fino all’indignazione, aspra e spesso irascibile, ma anche tenera e premurosa, una presenza incandescente da nuova star dello schermo: “Sono più figa di te, e non dimenticarlo,” urla a Gary, così immaturo, così egocentrico, così intelligente, in un momento di esasperazione. Ma saprò dire anche "Sei dolce, Gary", una frase che Haim pronuncia con un piccolo tremito adorabile.
sabato 9 febbraio 2019
Il cacciatore solitario. The Mule di Clint Eastwood
Poi dicono “firma contro la droga”.
lunedì 5 gennaio 2015
American Sniper, la guerra nel mirino di Clint Eastwood
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Shoot! Clint Eastwood |
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Bradley Cooper in American Sniper |
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Bradley Cooper |
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Chris Kyle, il cecchino |
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Clint Eastwood cita la scena finale di Gran Torino |
lunedì 24 marzo 2014
Irv, fuori legge e me ne vanto. Due o tre cose su 'American Hustle', qualche mese dopo
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Jennifer Lawrence, Jeremy Renner, Amy Adams, Bradley Cooper e Christian Bale in "American Hustle" |
Roberto Silvestri
Salutiamo con interessa il ritorno ossessivo agli anni 70 e al suo cinema sex drugs and rock'n'roll. Dopo Booglie Nights, di Paul Thomas Anderson, Blow di Ted Demme e Almost famous di Cameron Crowe e Paura e delirio a Las Vegas di Terry Gilliam... ecco American Hustle. Ma qui siamo verso il punto di rottura, all'orlo del declino di quei formidabili frangenti. Se il più gentile e charming dei rapinatori di banche anni settanta, Charlie Varrick, l'ultimo degli indipendenti, ritratto da Walter Matthau in un celebre capolavoro di Don Siegel del 1973, era il Dottor Jeckyll, questo truffatore febbrile e isolato che si chiama Irving "Irv" Rosenfeld (Christian Bale) è infatti il suo (ritardatario) Mister Hyde. Narcisismo, opportunismo e cinismo. Questi lo sfondo sentimentale del suo nuovo modus operandi, della performance, dell'assolo. La band non c'è più.
Truffatore nel senso tragico, passivo, non comicamente, egemonicamente attivo, del termine. Pura sopravvivenza nel sistema, non più antitesi al sistema. "L'arte della sopravvivenza è una storia che non finisce mai", nel senso che Irv - sue quelle parole - proprio come la sua compare Sydney, è costretto solo alla legittima difesa più strenua, sotto padrone Fbi addirittura, in una società capitalisticamente corretta, dove il più forte truffatore mangia perennemente il più debole, deformazione borghese delle nobili intuizioni evoluzioniste e mistificazione ideologica di una distopia, il libero mercato. Nascondere la calvizie, aprire tutte le fessure necessarie nei vestiti, uno spreco industriale di bigodini, per contrastare le onde del destino nei capelli. Ogni marchingegno seduttivo di superfice va utilizzata per deviare lo sguardo dalla vera posta in palio.
Insomma non di simpatici giochi d'astuzia individualistici si parla in questo film, come nella Stangata o in Paper moon, o in Bonnie and Clyde, ma del senso stesso, piuttosto immondo, della società capitalistica finanziaria 'pura', senza stato sociale rooseveltiano a correggerne le iniquità macroscopiche, senza rete di protezione pubblica, che dai ruggenti anni venti riemerge, d'un tratto sul suolo americano, per spazzare via tutto ciò che intralcia il big business, i grandi interessi. Già si sente nell'aria gialla e maleodorante di questo film la puzza del neoliberismo, di Reagan, del doppio Bush, dei subprimes...E dell'oggi si tratta, come in ogni film in costume. Come se Obama, negli Usa di oggi, contasse come Kathami nell'Iran degli ayatollah. Quasi niente.
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Christian Bale come Irv Rosenfeld |
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Amy and Duke |
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Bradley Cooper |
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Christian Bale e Jeremy Renner |
Siamo nel 1978, allora. Due piccoli truffatori niente male, che adorano all'unisono il Duke Ellington di epoca 'Bubber Miley e Tricky Sam Nenton', perché vivono nella new jungle metropolitana, costretti a far troppo male dunque anche ai poveracci incauti e alle loro tasche, cioé l'imbolsito Irving Rosenfeld e la seducente, forse nobil donna inglese, Sydney Prosser (Amy Adams), eternamente quasi amanti, sono smascherati e utilizzati dall'Fbi per eliminare un sindaco italo-americano del partito democratico del New Jersey, scomodo perché troppo populista, e alcuni senatori da rottamare e affidare il business di Atlantic City e dei suoi casinò in ben altre mani (non meno mafiose)...
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Jennifer Lawrence e Amy Adams |
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Bradley Cooper, Amy Adams, Christian Bale, Jennifer Lawrence e Jeremy Renner |
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Il regista David O. Russell sul set |
Ma di questo denso e disincantato 'dramma metropolitano' veloce e pieno d'humor sulla corruzione municipale e senatoriale Usa, un crime drama che al culmine del suo potenziale comico, mirerebbe, sotto sotto, al risarcimento morale dell'Fbi, insomma di American Hustle, ci ricorderemo allora tra qualche anno solo per il virtuosismo recitativo, tr Jean Harlow e Judy Holliday come scrisse il New York Times nel dicembre scorso, di Jennifer Lawrence?
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Jennifer Lawrence e Bradley Cooper |
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Jennifeer Lawrence |
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Christian Bale |
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Jennifer Lawrence e Amy Adams |
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Amy Adams sente Duke Ellington, periodo anni 50-60 |
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Jennifer Lawrence |
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American Hustle |