venerdì 8 gennaio 2016

Finalmente è arrivata Carol

Mariuccia Ciotta
In prima fila nelle classifiche dei “dieci miglior film dell'anno”,  Carol di Todd Haynes, proveniente da Cannes e dal festival di Roma, finalmente ha raggiunto gli schermi martedì 5 gennaio, in ritardo sulla data ideale, Natale, del quale indossa i luccichii dorati, la luce soprannaturale e un clima di beato languore.
In duetto con Lontano dal Paradiso, melodramma nell'eco di Douglas Sirk, il regista torna agli anni '50, al clima repressivo del dopoguerra, inizio della presidenza Eisenhower, ma di quell'epoca si percepisce appena il terrore maccartista, tranne che per una battuta colta per le strade di Manhattan - “Vi sentite più liberi con il comitato per le attività anti-americane?”. Non è la sovversione dei rossi a sconvolgere gli scenari imbiancati di New York, questa volta le “streghe” sono reali, Carol (Cate Blanchett) e Therese (Rooney Mara), protagoniste del romanzo The Price of Salt di Patricia Highsmith, che applica il genere giallo alla relazione “immorale”. La sua. Il libro è autobiografico e la scrittrice si firmò Claire Morgan, prima della nuova edizione inglese del 1990 a Londra.
Otto anni dopo il suo ultimo film (e quattro dalla stupenda miniserie Mildred Pierce), Haynes volge lo sguardo alle sequenze oniriche di Un posto al sole (George Stevens) e alla luce accecante anni '70 di Sugarland Express (Spielberg) con le sue fughe on the road. Un film sbalzato oltre il suo tempo, denso di richiami intrecciati, allusioni, sovrapposizioni, non certo estranei al regista di Io non sono qui, ritratto di Bob Dylan interpretato da una Cate Blanchett androgina tanto quanto qui è soffice e profumata.
Rimasto dodici anni in attesa, e prodotto non senza difficoltà e passaggi di mano dal duetto britannico Film 4 -Number 9 Films e dalla newyokese super indipendente Killer Film di Christine Vachon e Pamela Koffler, Carol ci riporta a un altro dopoguerra, agli anni Venti, e al silent-movie It (1927) con Clara Bow nella parte di una commessa dei grandi magazzini, proprio come Therese, ventenne addetta al reparto giocattoli dei department stores Frankenberg, attratta alla vigilia di Natale da una lady quarantenne di lusso, Carol.
Al suo posto, nel film di Clarence G. Badger c'era il latin lover Antonio Moreno nella parte del seducente e ricco ricco proprietario dei grandi magazzini per cui spasimava la commessa Clara Bow: “Caro Babbo Natale - pregava – portami lui come regalo”. Il dono perfetto qui invece è Carol, avvolta nella carta da regali di soffice pelliccia. Ma in campo c'è sempre la differenza di classe. La “It-girl” era una maschietta smaliziata, tutto pepe, intraprendente e pronta a sbeffeggiare l'aristocrazia vittoriana, mentre la Therese di Todd Haynes è soggiogata dal rossetto brillante e dal profumo inebriante della signora, composta in una rigida etichetta. Inversione di ruoli. E' Carol, la ricca, a caccia della commessa dal visetto appuntito, vestita sempre con abiti a quadretti (tipico delle ingenue del muto), spinta dal desiderio di disertare le noiose cene mondane a base di ostriche e champagne. Ancora repertorio da cinema muto dove la signorina vittoriana è stanca di trine e merletti, e invidia l'intraprendenza della funny girl, la proletaria lavoratrice, la maschietta.
La scintilla tra le due, insomma, sembra guizzare dalla voglia di invertire le parti (accadrà) più che da un impulso sensuale, affidato invece alla macchina da presa, carezzevole nella luce calda (la fotografia è di Ed Lachman, lo stesso di Lontano dal paradiso) sui volti e nei movimenti fluidi alla ricerca di dettagli, una tazza di tè, una spazzola, un guanto (i costumi sono di Sandy Powell, Lontano dal Paradiso, Hugo Cabret)). Todd Haynes sa come trattare le donne e anche le queer (Velvet Goldmine), ma qui la sceneggiatura di Phyllis Nagy leviga troppo i caratteri, aiutata dalla musica al miele dell'americano Carter Burwell (Twilight, Fargo, Big Lebowsky ed Essere John Makovich).
Eppure l'avvolgente e aspro tocco di Haynes prevale su tutto e viola la pretesa di perfezione, così nel film s'insinua il detour, l'immagine se ne va per vie traverse... i vetri appannati della macchina argentata, le fotografie scattate da Therese, principiante fotografa e futura fotoreporter per il New York Times con Cate Blanchett spettrale, i capelli biondissimi stinti nel bianco e nero, la suspense in attesa della scena clou, il sesso. Quasi una madre che porge il seno alla figlia, la ragazzina che si concede ai baci in un letto di motel.
Le fotografie scattate da Therese sono firmate, e non dalla commessa dei grandi magazzini, ma idealmente da Vivian Maier, una Mary Poppins di grande talento rimasta sconosciuta fino a pochi anni fa e alla quale è dedicato il documentario Alla ricerca di Vivian Maier di John Maloof (colui che la scoprì) e Charlie Siskel, (2014). Todd Haynes sovrappone la sua Therese all'artista-bambinaia, mentre nel romanzo autobiografico di Highsmith l'”altra” è un'apprendista scenografa, impiegata provvisoriamente ai grandi magazzini. Salti mortali e “travestimenti”.
Il film prende più di una strada verso Chicago, obiettivo delle due donne estasiate e sospese nel tempo, perseguitate da un detective privato che registra la notte di sesso. Colpa, punizione, espiazione. Ma l'indecifrabile legame tra le due donne finalmente deflagra quando nella bellissima sequenza finale Therese avanza nel décor prezioso del salone, gli occhi fissi sulla signora dell'alta società, circondata da damerini e calici di cristallo, e la pretende con un solo sguardo.



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