mercoledì 20 gennaio 2016

Il figlio di Saul



Roberto Silvestri

Il film d’esordio dell’ ungherese Laszlo Nemes, 38 anni,  Son of Saul, Il figlio di Saul, in questi giorni nelle nostre sale distribuito da Teodora, era l'unica “opera prima” del concorso di Cannes numero 68 e ha vinto sorprendentemente il gran premio della giuria. E’ tra i favoriti della notte degli Oscar 2016. Il set e l'argomento del film (diretto dall'allievo prediletto di Bela Tarr) è Auschwitz nell' ottobre del 1944. I russi stanno per arrivare e per liberare i prigionieri ebrei (e anche comunisti, dissidenti, rom e omosessuali) sopravvissuti alle camere a gas, agli stenti e al superlavoro. La “soluzione finale” richiede un surplus di efficienza e velocità burocratica. Il Fuhrer forza la macchina dello sterminio ai ritmi altissimi di cui parlerà Adolf Eichman, con una certa soddisfazione professionale, al processo in Israele (avvenuto troppi anni dopo, grazie a un virtuosistico rapimento in Argentina) prima di essere impiccato. Il nervosismo dlele SS rende attuabile la resistenza interna e si prepara un’insurrezione nel Lager... Alto il quoziente di difficoltà per un cineasta esordiente, anche perché il cinema civile occidentale ma soprattutto dell'est Europa ha scodellato, soprattutto a caldo, nell'immediato dopo guerra, talmente tante opere folgoranti, “per non dimenticare” l'orrore, dai capolavori di Jakubisko e Wajda, Resnais e Munk, Grifi e Marker, Pontecorvo e Lanzmann fino a Benigni e Spielberg, da costringere i cineasti di oggi a un necessario spostamento di sguardo o salto di ingegno per non essere controproducenti, retorici o ripetitivi e per non colpire a vuoto un immaginario che non sopporta il gioco facile con i sentimenti forti e netti. Ed ecco l'originalità dell'operazione di Nemes (coadiuvato alla sceneggiatura da Clara Royer). Intanto lo sguardo su Auschwitz è quello di un prigioniero ebreo, Saul Auslander, ungherese, membro del Sonderkommando, squadra speciale isolata e apparentemente “privilegiata”, perché destinate a essere giustiziate dopo, solo poco prima dei kapò e dei “Murmelstein” (da notare che al Biografilm Festival 2015 è stato presentato il nuovo lavoro di Giovanni Cioni, Del Ritorno sulle memorie di Silvano Lippi, vittima del perfido gioco dei nazi e sbattuto nel Sonderkommando, di Mathausen, questa volta).
Saul (Géza Röhrig) è dunque un prigioniero speciale, ha una grossa croce rossa ben visibile sul retro della giacca, non è scarnificato come gli altri, mangia qualche patata in più, può giare con meno controlli e può far traffici agevolmente, perché deve fare lavori molto faticosi: è obbligato a trasportare i prigionieri nelle camere a gas travestite da docce, e non tutti sono inconsapevoli, a raccattare e dividere vestiti e beni personali (trafugando quel che serve, a volte, per la sopravvivenza spiccia), a pulire dai cadaveri nudi i locali sporchi di sangue e avvelenati, a spalare e gettare al fiume la montagna di cenere dopo ogni cremazione dei corpi… 
Tra “i gasati” dal Ziklon B, un giorno, trova un ragazzo miracolosamente ancora vivo, che crede di riconoscere come suo figlio. Un medico delle SS lo giustizia, soffocandolo con fastidio. Ma Saul riesce a sottrarre il corpo alla cremazione e si impegna a trovare un rabbino, a rischio di morire, pur di dare a quel corpo una sepoltura ebraica dignitosa, sottoterra, con tanto di Kaddish declamato. Come un simbolo di resistenza e di rivolta. Come un sintomo di follia vendicatrice. La rivolta scoppia davvero, ma... Non è tanto importante il racconto degli avvenimenti posteriori (anche il film sembra disinteressarsene). Quanto il lavoro con gli attori e con la cinepresa di Nemes. Un estremo micronaturalismo provoca un effetto astratto, secondo la lezione di Pina Baush o di Peter Stein, perché Nemes utilizza implacabilmente e claustrofobicamente il primo piano e il “primo piano rovesciato” (cioé il protagonista è spesso inseguito in piano sequenza, ad altezza di nuca semovente)  lasciando sfocati gli sfondi più insostenibili. L’effetto è potente, un po’ alla Raffaello Sanzio. Vediamo la violenza nella sua astrazione pura come messa in scena di un dolore concettuale, più inquietante. Notevole. Lo stesso effetto di perdita totale dell'identità provocato dalla situazione di un prigioniero nel lager nazi. Ancora di più sull’orlo della follia, se privilegiato anche solo un po’. Spossessati del corpo e del nome, numeri deambulanti, i prigionieri sono pura resistenza vitale, potrebbero diventare altro, qualunque cosa, trasformarsi perfino in “rabbino” pur di sopravvivere una mezzora di più all’esecuzione, e lo stesso sguardo può opacizzarsi sui morti (sono tutti inquadrati a distanza, obliquamente, fuori fuoco o in flou perché non si devono, non si possono “vedere” più) o metamorfizzare gli spazi e i corpi, come accade al cadavere di quel ragazzo trasfigurato in altro (probabilmente Saul non ha mai avuto un figlio, probabilmente se lo ha avuto non è quello, ma la prospettiva di un David in più, da consacrare, è l'unica che forse permette di ipotizzare una via di fuga dalla shoa, almeno fantasmatica). Questo gioco formale tra naturalismo e sacralità e quello sostanziale tra realtà storica e immaginazione psicotica, molto ben controllato, è quel che fa il film differente e interessante e di Nemes un sicuro talento capace di deformare la nostra segnaletica rassicurante. Nonostante un finale che perde la tensione “teatrale e documentaristica assieme” tenuta fin dall'inizio, sciogliendosi nell’azione liberatoria da film di genere, nella narrazione standard fatta di scenari più prevedibili e meno ossessivi: il piano segreto, lo scontro nel lager, la fuga nei boschi dei prigionieri, l’inseguimento coi cani drogati e la capanna dove più che altro è la macchina da presa a riposarsi per un attimo. Di cui. Prima del finale indecente e atroce che conosciamo. 

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