Sì
alla libertà d'espressione, sì al diritto di satira, ma... dopo
l'ondata emotiva seguita al massacro parigino, è il tempo del “non”.
“Io non sono Charlie”. Il contrordine dilaga sul web scritto con
la matita rossa e con quella nera perché non si possono offendere i
sentimenti religiosi e l'identità di un intero popolo, o perché
oltre all'Islam la rivista francese mette alla berlina anche
l'Occidente, il cristianesimo, in un calderone di irriverenze,
cattivo gusto, abuso di parola e di vignetta. Da una parte, si accusa
Charlie Hebdo
di islamofobia, cosa che invece piace alle oriane fallaci di oggi, di
aggressività machista (“meglio vivere un giorno da leone che cento
da pecora”, più o meno) e dall'altra si spara contro il foglio
anachico-trotzkista, sessantottardo, nichilista, che più volte ha
chiesto lo scioglimento del Front National.
“Io
non sono Charlie”. Ci sono limiti alla satira. Quali? Rispondono
sui media intellettuali, storici, scrittori, artisti, politici.
Nessuno, dice chi non vede differenze tra una vignetta e la Cappella
Sistina, l'arte non ha limiti. Sì, invece, affermano altri, ed è la
mancanza di rispetto per i “diversi”.
A
questo punto, Terminator, il cyborg venuto dal futuro, chiederebbe:
“definire il concetto di satira”. E' semplice, la satira se la
prende solo con il potere.
Ed
è quel che ha fatto Charlie
Hebdo. Il suo
Maometto non è affatto la caricatura sprezzante del profeta, ma lo
specchio di come l'hanno sfigurato gli islamisti, è il “loro”
Maometto, nel nome del quale si tagliano teste, si giustiziano in
piazza i tifosi bambini, si rapiscono e schiavizzano le bambine, si
insanguina la scrivania di Wolinski e company, e si ammazzano gli
ostaggi ebrei del negozio Kosher. Se tornasse Muhammad, recita un
disegno apparso sul giornale, l'incappucciato dell'Isis lo
sgozzerebbe al grido di “Infedele!”.
Che
c'è da ridere ad offendere Allah? Ma sì, a colpire chi lo sventola
per bruciare le chiese, i barbuti che si sono dati appuntamento nel
“grande califfato”, gli uomini di ogni latitudine che odiano le
donne e temono di perdere la supremazia materiale e immateriale. Non
a caso, la furia fondamentalista (di ogni tipo) tocca l'apice di
fronte alle immagini del sesso, quei didietro al vento sfoderati
impudicamente. Che c'è da ridere se si fa “pornografia” con la
Trinità? Ma sì, se in nome di Cristo si discriminano gli
omosessuali. Stessa cosa vale per la vignetta con Ratzinger
abbracciato a una guardia svizzera, “Enfin libre!”.
Charlie
Hebdo sa bene che a
offendere i musulmani francesi e stranieri non sono i ritratti
blasfemi apparsi
sulla rivista, ma l'ingiustizia sociale, le guerre “democratiche”
occidentali e quelle intestine, sciiti contro sunniti, per il
controllo geo-politico, la strage di esseri umani. Ed è proprio
Maometto a disperarsi: “E' duro essere amati da dei coglioni”
dice il fumetto del profeta con le mani sugli occhi e sopra la
scritta “Mahomet débordé par le integristes”.
Insomma,
da cosa dovremmo prendere le distanze? Dalla retorica dello slogan
che qualcuno adesso vorrebbe commercializzare? Ma “Je suis Charlie”
non si tocca, grida Joachim Roncin, critico musicale, che lo ha
coniato. Dalla commozione di massa per cui vale la pena distinguersi?
Ci sono simboli potenti che aggregano l'umanità, e anche su questo
non c'è niente da ridere e da ridire, né sulla manifestazione per
le strade di Parigi né sugli ideali in frantumi Liberté, Egalité,
Fraternité.
Non
ci resta che piangere, Charlie, insieme a Maometto.
Wolinski |
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