venerdì 23 gennaio 2015

Tu non sei Charlie? Io sì



Mariuccia Ciotta

Sì alla libertà d'espressione, sì al diritto di satira, ma... dopo l'ondata emotiva seguita al massacro parigino, è il tempo del “non”. “Io non sono Charlie”. Il contrordine dilaga sul web scritto con la matita rossa e con quella nera perché non si possono offendere i sentimenti religiosi e l'identità di un intero popolo, o perché oltre all'Islam la rivista francese mette alla berlina anche l'Occidente, il cristianesimo, in un calderone di irriverenze, cattivo gusto, abuso di parola e di vignetta. Da una parte, si accusa Charlie Hebdo di islamofobia, cosa che invece piace alle oriane fallaci di oggi, di aggressività machista (“meglio vivere un giorno da leone che cento da pecora”, più o meno) e dall'altra si spara contro il foglio anachico-trotzkista, sessantottardo, nichilista, che più volte ha chiesto lo scioglimento del Front National.
Io non sono Charlie”. Ci sono limiti alla satira. Quali? Rispondono sui media intellettuali, storici, scrittori, artisti, politici. Nessuno, dice chi non vede differenze tra una vignetta e la Cappella Sistina, l'arte non ha limiti. Sì, invece, affermano altri, ed è la mancanza di rispetto per i “diversi”. 
 
A questo punto, Terminator, il cyborg venuto dal futuro, chiederebbe: “definire il concetto di satira”. E' semplice, la satira se la prende solo con il potere.
Ed è quel che ha fatto Charlie Hebdo. Il suo Maometto non è affatto la caricatura sprezzante del profeta, ma lo specchio di come l'hanno sfigurato gli islamisti, è il “loro” Maometto, nel nome del quale si tagliano teste, si giustiziano in piazza i tifosi bambini, si rapiscono e schiavizzano le bambine, si insanguina la scrivania di Wolinski e company, e si ammazzano gli ostaggi ebrei del negozio Kosher. Se tornasse Muhammad, recita un disegno apparso sul giornale, l'incappucciato dell'Isis lo sgozzerebbe al grido di “Infedele!”.
Che c'è da ridere ad offendere Allah? Ma sì, a colpire chi lo sventola per bruciare le chiese, i barbuti che si sono dati appuntamento nel “grande califfato”, gli uomini di ogni latitudine che odiano le donne e temono di perdere la supremazia materiale e immateriale. Non a caso, la furia fondamentalista (di ogni tipo) tocca l'apice di fronte alle immagini del sesso, quei didietro al vento sfoderati impudicamente. Che c'è da ridere se si fa “pornografia” con la Trinità? Ma sì, se in nome di Cristo si discriminano gli omosessuali. Stessa cosa vale per la vignetta con Ratzinger abbracciato a una guardia svizzera, “Enfin libre!”. 
 
Charlie Hebdo sa bene che a offendere i musulmani francesi e stranieri non sono i ritratti blasfemi apparsi sulla rivista, ma l'ingiustizia sociale, le guerre “democratiche” occidentali e quelle intestine, sciiti contro sunniti, per il controllo geo-politico, la strage di esseri umani. Ed è proprio Maometto a disperarsi: “E' duro essere amati da dei coglioni” dice il fumetto del profeta con le mani sugli occhi e sopra la scritta “Mahomet débordé par le integristes”.
Insomma, da cosa dovremmo prendere le distanze? Dalla retorica dello slogan che qualcuno adesso vorrebbe commercializzare? Ma “Je suis Charlie” non si tocca, grida Joachim Roncin, critico musicale, che lo ha coniato. Dalla commozione di massa per cui vale la pena distinguersi? Ci sono simboli potenti che aggregano l'umanità, e anche su questo non c'è niente da ridere e da ridire, né sulla manifestazione per le strade di Parigi né sugli ideali in frantumi Liberté, Egalité, Fraternité.
Non ci resta che piangere, Charlie, insieme a Maometto. 
Wolinski
 

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