Barbara Sukova è Hannah Arendt |
Mariuccia
Ciotta
Giovedì 29 gennaio su Rai 3 alle ore 21,05
La
dimensione di un tempo interiore nelle stanze dell'appartamento così
poco newyorkese di Hannah Arendt – austerità berlinese - ombre
avvolgenti e sagomate da luce calda, il dentro e il fuori, il luogo
del pensiero di sé e, lontano, oltre i vetri delle finestre, la scia
d'acqua dell'Hudson, o chissà di quale fiume (il film è stato
girato in Westfalia, Lussemburgo e Israele).
Immagini
alternate di una coscienza che tenta sempre di scappare e che
Margarethe von Trotta rende visibile nel travolgente film che porta
il nome della filosofa tedesca.
Hanna Arendt |
Barbara
Sukova abbandonata sul divano, sigaretta accesa, pensa, mentre il
telefono squilla, grido del caporedattore del New
Yorker in attesa del
reportage sul processo al nazista Adolf Eichmann (dovrà aspettare
quasi due anni!), che Hannah ha seguito, inviata speciale a
Gerusalemme tra le ironie dei giornalisti. Ma come una filosofa in
sala stampa!
Già,
più che articoli di cronaca giudiziaria, verrà fuori un trattato
sul Male, un testo “oltraggioso”, ancora oggi travisato. E' di
qualche giorno fa la dichiarazione, a Parigi, di Claude Lanzmann,
direttore di Les
Temps Modernes,
cineasta, amico di Sartre, sostenitore del governo israeliano, “La
Banalità del Male è
una delle più gigantesche idiozie mai concepite”.
Sukova-Hannah nella sala stampa del processo Eichmann |
Von
Trotta ci condurrà a scoprire il perché di tanto accanimento che da
allora, 1961, data del processo Eichmann, a oggi colpisce Hannah
Arendt, l'ebrea che “non ama il suo popolo”. Risposta: “Io amo
solo i miei amici”, sentimento al di là dell'appartenenza e
dell'identità perché “la politica non è occuparsi degli uomini
ma occuparsi insieme agli altri delle cose del mondo”. E allora
eccola Arendt a scrutare la faccia accartocciata di Eichmann nelle
riprese già rimontate da Eyal Sivan, regista israeliano eretico, in
Lo specialista (1999),
storia per immagini della requisitoria contro il nazista, rapito da
agenti del Mossad in Argentina, dove si era rifugiato dopo la fuga
dall'Europa (imbarcato a Genova), con l'aiuto di molti tra i quali il
papa Pio XII.
Von
Trotta alterna i fotogrammi in bianco e nero del processo con la
fiction (fotografia di Caroline Champetier) in un duetto campo
contro-campo che sbalza la memoria e pone lo spettatore di fronte
allo stesso interrogativo di Hannah.
Chi
era Adolf Eichmann?
Adolf Eichmann durante il processo |
Un
ometto mediocre, uno zelante burocrate, un inconsapevole o un
demonio? Ed è qui che si innesta la banalità interpretativa della
Banalità del Male,
o meglio la strumentalità colpevole di molti nomi autorevoli.
Arendt
non diminuì le responsabilità di Eichmann ma rivelò i meccanismi
del “disumano” annidato in uomini “normali”, e presenti non
solo nei regimi totalitari.
Quando
il dialogo con la propria coscienza si interrompe, quando si smette
di “pensare”, quando, come dice lo stesso Eichmann, si produce
una “scissione consapevole” tra la realtà esterna - e, direbbe
Henri Bergson, la durata, il tempo interiore - l'umanità si perde.
La
“banalità” sta qui ed ora nei tanti che ubbidiscono, in tempi di
pace, a un ordine sociale, politico, emozionale ingiusto e criminale
che premia i sudditi devoti.
Eichmann
era spinto dalla volontà di piacere alla Germania di Hitler, di
conformarsi alle regole, di farsi pedina indispensabile al piano di
sterminio. Senza mai alzare una mano contro gli ebrei, ma
ottimizzando i viaggi in treno verso Auschwitz.
Margarethe von Trotta |
Hanna
Arendt racconta
questo nella suspense di un film concentrato dal movimento “lento
non troppo”, dialoghi scintillanti e precipitazione nell'impasse di
fronte alla macchina da scrivere, alle spirali di fumo, ai flash-back
con l'amante Martin Heidegger, il maestro affascinato dall'“uomo
divino”.
Scene
di relazione complice con l'amica scrittrice Mary McCarthy (Janet
McTeer) e amorosa con il secondo marito Heinrich Blucher (Axel
Milberg), comunista, ebreo e filosofo, con cui fuggì a New York nel
'41, dopo il lungo soggiorno a Parigi dove approda nel '33, l'anno di
Hitler, per poi ritrovarsi nella Francia occupata e nel campo di
detenzione di Gurs.
L'America?
“un paradiso”. Insomma. Arendt dopo la pubblicazione dei suoi
scritti sul New Yorker
sarà espulsa dalla comunità ebraica, respinta da colleghi
universitari, additata come arrogante e senza cuore per aver osato
accusare i capi ebrei di gravi responsabilità nel corso della Shoah.
Molti si sarebbero salvati se non fosse stato per loro, interfaccia
dei nazisti, intenzionati a “minimizzare il danno”, come fece,
per esempio, Benjamin Murmelstein, "capo" di Terenzin, il campo di
“lusso” per ebrei benestanti voluto da Eichmann, un luogo di
accoglienza dalla facciata armoniosa, belle case, lavoro, allegria
filmati a beneficio dell'opinione pubblica mondiale. In realtà,
Eichmann in accordo con Murmelstein stilava regolarmente le liste dei
destinati ai campi di sterminio.
Lanzmann e Murmelstein nel '75 a Roma |
E
qui torniamo a Claude Lanzmann e al suo documentario L'ultimo
degli ingiusti,
apparso per un attimo nelle sale italiane dopo il passaggio a Cannes.
Film “invisibile” come quello di Margarethe von Trotta, uscito
nel giorno della memoria, il 27 gennaio, e rimasto in programmazione
per due giorni soltanto, nonostante il grande successo
internazionale, folla pressante alle porte del cinema Farnese di
Roma, molti rimasti fuori. Un caso di imperdonabile censura più che
mercantile intellettuale.
Un
film importante L'ultimo
degli ingiusti,
ovvero Benjamin Murmelstein, intervistato da Lanzmann nel 1975 nella
sua dimora
romana, ritenuto responsabile di intelligenza con il nemico, isolato
da una parte della comunità ebraica e all'epoca ritenuto
indesiderabile da Israele.
Lanzmann
dopo la settimana di colloquio con il capo del consiglio ebraico di
Terezin, campo di concentramento cecoslovacco, ritenne opportuno
chiudere a chiave il filmato dove emergevano chiaramente le
responsabilità di Murmelstein, che si giudicò innocente in quanto
costretto a scendere a patti con Eichmann. Ma nel 2012, il regista di
Shoah
(1985), riprese in mano il materiale girato e in un intervento
conclusivo assolse Murmelstein dalle accuse di collaborazionismo.
Sta
di fatto che il disprezzo per La
banalità del Male dichiarato
nei giorni scorsi da Lanzmann ha radici proprio lì, nel racconto di
Hannah Arendt sul processo ad Adolf Eichmann, spogliato della figura
di Demone, e ridotto a un “uomo che non sapeva pensare”.
L'idea
del nazismo diabolico
era fondamentale per lo stato neonato, contro l'ostilità pressante
dei paesi arabi, e a favore dell' “unico baluardo contro il Male
assoluto”, Israele, l'unico luogo sicuro per gli ebrei di tutto il
mondo.
Ben
Gurion, primo ministro, orchestrò il “processo al Mostro”, e
mise in ombra i crimini contro l'umanità da parte di un uomo
qualunque ubbidiente al Furher, il folle pianificatore di morte,
sostenuto dai tanti, sottomessi, Eichmann.
Impensabili
di conseguenza le accuse ai capi ebraici, impotenti di fronte
all'”incarnazione del diavolo”. Quel “diavolo” di Eichmann,
come si vede nel film di Sivan, avrà la sua condanna a morte (fu
impiccato nel maggio del '62) solo quando scoprirà la sua coscienza
negata. “Ho visto fontane di sangue” dirà davanti al giudice, e
la sua faccia contorta in una maschera aliena si distenderà nel
volto sofferente dell'uomo.
Eichmann
sapeva, le SS sapevano, i tedeschi sapevano. Ma scelsero di
congelarsi l'anima e di eseguire gli ordini.
Von
Trotta, che firma la sceneggiatura insieme a Pam Katz, illumina nel
suo film il pensiero di Arendt, grandissima filosofa dei nostri
tempi, passata nella divulgata storica come insensibile agli orrori
del nazismo, intrappolata nel suo essere tedesco, e invece massima
indagatrice delle perversioni umane, passate e presenti.
Hannah,
nel film, si autocritica per una sola cosa, aver definito “radicale”
il male. “Solo il bene è davvero radicale”.
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