Robert Redford in "All is Lost" di J.C. Chandor |
Mariuccia
Ciotta
Certi
film si attirano un odio o un amore misteriosi. Ed è pericoloso
rompere l'incanto, si rischia di farsi espellere dalla comunità
cinephila, e non solo virtualmente, come è successo al critico black
Armond White espulso dal cenacolo newyorkese perché ha osato toccare
il pluricandidato all'Oscar 12
anni schiavo, diretto
da un altro black, il regista-artista inglese Steve McQueen.
E'
il caso di All is lost
diretto dal quarantenne del New Jersey J.C. Chandor.
L'amore
è scoppiato sulla Croisette, dove il film (da domani sui nostri
schermi) è passato fuori concorso. Imperdibile prova d'attore di
Robert Redford, di cui molti lamentano l'esclusione dalle nominations
dell'Academy Awards.
Redford
è il film, 106 minuti in primo piano, naufrago nelle acque degli
Bajas Studios messicani, l'immenso bacino costruito da James Cameron
per Titanic,
claustrofobico set in cui ti aspetti di vedere le sponde di plastica
e la cabina di regia come in Truman
show. E dove la barca
naviga da ferma mossa da un congegno che la fa dondolare su e giù.
Il basso budget, però, non ha mai fermato nessuno. Capolavori tutti
in una stanza. E qui in uno scafo pieno di falle. Un film che
pretende una sceneggiatura affilata e un personaggio dalle profondità
interiori mentre nelle 30 pagine di copione, scritte dal regista,
all'opera seconda, di Margin
Call, l'uomo in mare
resta sconosciuto (“our man”), niente nome, niente passato,
niente dialoghi e niente tigre (La vita di Pi).
Un
film affidato al grande fascino di Redford che finalmente ha un film
indipendente tutto per sé. Nessuno dei tanti esordienti promossi al
suo Sundance lo hanno mai chiamato, questa è la prima volta,
racconta ironico il cineasta, che definisce il lavoro di Chandor
(debutto a Park City) “coraggioso”.
Robert Redford e il regista J.C. Chandor |
Oceano
indiano, il solitario navigante dorme sottocoperta mentre la barca si
schianta su un container cinese pieno di scarpette sportive, il
“nostro uomo” cerca di rimediare, sega, incolla, salva viveri e
oggetti indispensabili, ammaina la vele, accende invano la radio di
bordo, e finisce in una tempesta. Cala il canotto, il canotto si
rovescia (ma quel che c'è dentro rimane al suo posto), il sole
picchia, le petroliere giganti che passano non vedono la luce dei
razzi sparati in cielo. Tutto è perduto.
La
suspense cerca di lievitare nella disperazione del naufrago in preda
alle forze di una natura così indulgente da lasciarlo vivo per otto
giorni, e spera nell'eco del macho Hemingway che non si incontra più.
Il vecchio Santiago e la sfortuna di quell'enorme marlin di cinque
metri rosicchiato dai pescecani, orgoglioso e impavido pescatore...
Ma l'uomo senza nome
sembra più che altro uno skipper della domenica, un turista dal
cellulare scarico. Perché evocare lo Spencer Tracy di John Sturges
o il Tom Hanks di Cast
Away che
dialoga, sublime, con il pallone di nome Wilson?
Il
minimalismo del film si diluisce nel nulla, e All
is lost va alla
deriva, nonostante la performance in solitario di Robert Redford, che
lui, sì, evoca qualcosa, se stesso.
Basta
guardare la sua faccia segnata dalle storie di Sundance Kid (Butch
Cassidy), Johnny
Hooker (La stangata),
Bob Woodward (Tutti
gli uomini del presidente)
e molti altri “anti-eroi” fino a Jim Grant (La
regola del silenzio),
dove l'”our man” era un Weatherman.
Lasciamo
fuori Jack London, All
is lost non è un
action movie sulle onde o un testo senza virgole di Joyce, è una
partitura jazz suonata sul corpo-cinema di Robert Redford.
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