Avevi visto molti western prima di girare, dal 1964 al 1967,
Gli Eroi di Fort Worth, 100 mila dollari per Ringo e Django spara per primo?
Alberto De Martino: No, solo Ombre rosse, Shane Il
cavaliere della valle solitaria…Ma nessuno era un esperto, neanche Sergio
Leone. Comunque fare western, così come girare pepla, horror, thriller, polizieschi,
non significa imitare i grandi maestri del genere, ma seguire lo loro orme per
cercare il consenso del pubblico. Se così non fosse tutti i registi, tranne
Fellini, Pasolini e Antonioni, e quei pochi che hanno fatto un cinema personal,
o di poesia, dovrebbero essere definiti degli imitatori. Il che è assurdo, no?
Arthur Kennedy e Carla Gravina in L'anticristo (1974) |
“Il mio desiderio, ora che ho lasciato il cinema, sarebbe
quello di tornare a suonare del buon jazz freddo con i miei amici, Lucio Fulci
alla tromba e Antonio Margheriti alla batteria. Io al pianoforte, anche se le
dita ormai non sono quelle di una volta” (da Spaghetti Nightmares, un’intervista di Luca M. Palmerini e Gaetano
Mistretta, cito a memoria) .
A destra Eli Roth, a sinistra Alberto De Martino e in mezzo credo Enzo G. Castellari e Ruggero Deodato |
Che grande trio old fashion avremmo ascoltato! Bisognerebbe
proprio rifare la storia del cinema italiano partendo dai registi spuri che, come Carmelo Bene, Luchino Visconti
o Mario Martone, o i “pittori” Fellini e Grifi e molti della cooperativa cinema
indipendente o della “scuola romana”, e gli scrittori come Soldati e Pasolini,
e i jazzisti come Centazzo… sono stati capaci di creare “immagini” di ogni
tipo, attraversando le arti e non fossilizzandosi mai in una sola
“professionalità”. In questa storia di artisti polistrumentisti avrebbe certamente un posto importante un cineasta
che è morto poco prima di compiere 86 anni e che passò gli anni di studi
(giurisprudenza, tesi Il concetto di
lavoro nella filosofia del diritto) suonando gli standard deformati della swing era nei night, negli ospedali
americani, nelle sezioni di partito (di sinistra, visto gli amici) ma non alla
radio pubblica, perché allora il jazz era off limits. E che probabilmente proprio da quel jazz
strutturato, tra be-bop e free jazz, in “tema, improvvisazione di differenti
strumenti sul tema, e ripresa arricchita
del tema nel finale” aveva preso l’ispirazione di partire, sul set, proprio
dalla fine, nel piano sequenza, per disegnarne a ritroso tragitto e disegno.
Che è quello che un suo esegeta e allievo Luca Rea ricorda oggi su facebook tra
i tanti insegnamenti di regia di questo Maestro, colto, lettore onnivoro e
persona modesta e riservata.
Alberto De Martino con Marco Giusti al cinema Trevi di Roma nel giugno del 2014 |
Stiamo parlando di Antonio
De Martino, romano di via Po, figlio d’arte, suo padre è stato un pioniere
del make-up, il truccatore Romolo De Martino (che sarà il braccio destro del
regista in Horror, Holocaust 2000,
Extrasensorial, La casa maledetta, Alien Killer…; a sei anni è attore
bambino (“ero uno dei tre figli di Scipione
l’Africano di Carmine Gallone, girato a Cinecittà nel 1935, appena nata”), poi
assistente al montaggio di Otello Colangeli, montatore, documentarista, assieme
all’amico Sergio Sollima dal 1949 (Turismo
col pollice e Intervista al cervello),
aiuto regista, dopo aver abbandonato i quintetti cool, nei primi anni 50,
“perché di jazz non si viveva”, e ancora sceneggiatore, direttore di
produzione, direttore della seconda unità (Giù
la testa, per l’amico Sergio Leone, nel 1971) ma soprattutto regista,
esperto scienziato del cinema commerciale
italiano, all’attivo 29 regie, con star del calibro di Kirk Douglas, John Cassavetes (“si
impasticcava con stimolanti per tenere alto quel registro sopra le righe che ha
fatto la sua fortuna di performer”), Telly Savalas, Michael Moriarty, Donald
Pleasence (“squisito uomo di cultura che amava declamare poesie”), Martin
Balsam, Tomas Milian, Rossano Brazzi e tanti altri, punto di riferimento
fidato, dal 1962 al 1986, dell’industria italiana, specialista in ogni filone
di punta, pepla, western, thriller, horror, poliziottesco, iperviolento… capace
di portare il pubblico al cinema, non farsi mai acciuffare da un festival "normale" e incassare magari un miliardo di lire spendendo 100 milioni di budget.
Alberto Lupo in Django spara per primo |
Negli anni 70
e 80 il cinema italiano di genere è quello che ha salvato i livelli di
occupazione del settore solo attraverso coproduzioni vincenti “estero-estero”
cioè attraverso filiali straniere di
società italiane che giravano thriller e polizieschi o horror e sexy movie
annusando e riproponendo in set nordamericani e in lingua inglese quel che i
giovani cineasti delle major Usa (la
generazione di Joe Dante e James Cameron) avevano più o meno “rubato” ai Mario
Bava, Vittorio Cottafavi, Lucio Fulci e Riccardo Freda di qualche lustro prima.
Opere come L'uomo dagli occhi di ghiaccio, Blazing Magnum, per il mercato internazionale concorrenziali per ritmo, trovate, design e
professionalità, al prodotto medio hollywoodiano grazie a regie sempre
fantasiose (e non a caso adorate da Tarantino, che presentò a Venezia 100.000 dollari per Ringo, finalmente in un festival, e Eli Roth) firmate Enzo G. Castellari,
Romolo Guerreri, Ruggero Deodato, Luigi Cozzi, Lamberto Bava, Alberto De Martino (spesso al suo
fianco come direttore della fotografia Joe D’Amato, alias Aristide Massaccesi)
e altri. A proposito di Massaccesi fu proprio la visione casuale, assieme a De
Martino, di Gola profonda a San Francisco, tra una pausa e l’altra di
lavorazione di Il consigliori a far
deviare Joe D’Amato verso il soft porno e l’hard fantasiosamente rivisitato.
Genere che invece sembrava del tutto disinteressante a De Martino: “Ma mi sa
che aveva ragione lui”….
Il compositore della neoavanguardia e re della musica
applicata, Ennio Morricone, ha lavorato ben 8 volte con lui (anche se la bella
partitura dell’Anticristo va divisa
con Bruno Nicolai) più che con Sergio Leone (5 soundtrack), ma in nessuno dei
suoi film – e questo lo ha sempre contrariato, è riuscito a raggiungere i
livelli artistici, le forme melodiche e armoniche indimenticabili e
inarrivabili, del sodalizio con Leone.
Registi preferiti? Sergio Leone, Federico Fellini e Steven
Spielberg, “un genio” (mentre Coppola è stato miracolato grazie all’incontro
con Mario Puzo). Pseudonimo? Martin Herbert (nome con il quale è firmato il
film che più detestava tra i suoi, Gli
eroi di Fort Worth). De Martino è stato lanciato dal produttore-regista
Italo Zingarelli, e, come molti cineasti della sua generazione (pensiamo a
Vivarelli, Deodato, Aristide Massaccesi…) quando girava, primo film Il gladiatore invincibile, del 1962, si
dedicava anima e corpo al progetto, in una sorta di possessione…invincibile. Escogitando
anche geniali idee produttive come quella di girare il peplum Gli invincibili sette nel 1964
rilanciando (primo di una interminabile serie) proprio quel numeretto aureo, 7,
rubato a Sean Connery e a Steve McQueen, e arrangiandosi con sette attori
semisconosciuti in mancanza di una vera star body builder, utilizzata invece in
Perseo l’invincibile, con il culturista
Richard Harrison. Fu lui a dare a un genere per lo più straniero, e che fino al
1963 veniva definito in Italia “gotico”, un nome nuovo di zecca, Horror, dal titolo di un suo film del
1963. Intanto era diventato anche produttore, non
proprio felice (“solo i napoletani con il loro cinema locale e musicarello si
sono arricchiti con il cinema, nessun altro”) e si sarebbe occupato sempre più spesso di più direzione del doppiaggio (da La Dolce Vita, solo per ricordare un
titolo dell’epoca d’oro del cinema a Dallas
e Kojac), polemizzando con la nuova
generazione dei doppiatori che mancando di eleganza e fantasia utilizzano in modo sempre più noioso
parolacce e gerghi dialettiali. E’ stato inoltre presidente di una cooperativa
di attori, “perché con la Siae non si vive, e senza quel lavoro non avrei mai
potuto sopravvivere, da quando il cinema in televisione nei primi anni 80 ha
ucciso il nostro cinema popolare”.
A Marco Giusti, in una bella intervista registrata al cinema
Trevi di Roma, in occasione dell’omaggio che la Cineteca Nazionale dedicò
l’anno scorso al regista di L’anticristo
e L’assassino è… al telefono (con una
strepitosa Rossella Falk “la migliore attrice italiana in assoluto”), dopo aver
chiarito che è sua e non di Castellari la paternità del celebre detto
filosofico “al cinema un titolo funziona quando lo ascolti e pensi me cojoni, e non funziona se invece
reagisci con sti cazzi” (il suo
titolo più me cojoni? Il
sessantottino Dalle Ardenne all’inferno)
e aver svelato che il suo nomignolo sul set era “pisello” perché amava vestirsi
di verde, confessò: “Mi ricordo la traumatica risposta dell’esercente alla
domanda come aveva reagito il pubblico in occasione della prima di L’uomo puma nel febbraio del 1980: ‘quale
pubblico!? in sala non c’era nessuno”. Era un certo tipo di cinema ad essere
finito.
Il tironfo di Ercole (1964) |
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