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Emily Blunt, la giovane e spaesata agente Fbi di Sicario |
Ancora due film dal concorso di Cannes su cui scrivere. Intanto
una pensata teorica su cos’è il realismo estremista, quando non si vuol descrive
la realtà, non la si può cambiare con un film ma almeno si vuole creare
qualcosa che provochi una ricezione attiva e emozionalmente
reale. Parliamo di un esempi odi cinema
della prassi,
Chronic, del messicano
Michel Franco (un talento scoperto da
Cinefondation come Nemes, che ha completato tutto il tragitto richiestogli:
Quinzaine, Un certain regard, che ha vinto, Panorama di Berlino…).
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Tim Roth in Chronic di michel Franco |
Un primo
piano implacabile e inquietante su un infermiere specializzato in malati
terminali: la fenomenologia del lavoro
impossibile,
penoso e spesso umiliante di chi, estraneo e spesso straniero, ha a che fare
con pazienti che non possono mangiare da soli, non possono cambiarsi d’abito,
non possono muoversi, non possono andare in bagno, e spesso neppure parlare, diventando
rispetto a quei corpi qualcosa di più di un badante, un doppio, un alter ego,
un super angelo custode più vicino, fisicamente e emozionalmente, di chiunque
altro, parenti e amici compresi. E’ un’esperienza che crea anche gelosia e
conflitti in famiglia.
Il regista e sceneggiatore
del film lo sa bene per aver vissuto in prima persona l’agonia della nonna rimasta
paralizzata per un ictus e diventata dipendente, completamente, da un’infermiera
che ne ha seguito l’epilogo con straordinaria sensibilità.
Insomma siamo in
territori ancor più ultrà di
Mare dentro
di Alejandro Amenabar che affidava al solo ciglio sinistro il peso del racconto,
visto che Xavier Bardem
era stato
totalmente paralizzato da un icuts. Le immagini di
Chronic sono di bellezza
cariata
e le luci gin tonic livide, come mai ne ho viste di simili, sono dosate da Yves
Capé in maniera da impedire
allo
spettatore di distrarsi un solo attimo. Sadico, dunque, questo soggetto dal
quoziente di difficoltà altino. Ambientato in California,
Chronic sposta il ruolo di protagonista dal paziente malato
terminale da accompagnare alla morte, all’infermiere specializzato.
Ci si aggira così nella zona
inquietante tra tecnica specializzata, narcosi obbligatoria, affetto come optional
ed eutanasia non sempre evitabile. Il film, che è davvero
insostenibile, come Straub per un iperattivo, ha vinto, tra lo stupore
di tutti, il premio della giuria per la migliore sceneggiatura. Eppure non
sfoggia dialoghi prepotenti né sofisticati, come si usa nelle serie tv, né
snodi narrativi rococò e cult, come si usa nelle serie tv, tranne un finale che
ti arriva in faccia come un Tir, criticato a torto da molti perché confonde per
un puerile escamotage narrativo una liberatoria esperienza fisica traumatica,
simile ad altri “happy end” classici che mandano in frantumi il nostro sistema
di sicurezza e di prevedibili attese, come il finale, quasi
trance, di
Apocalipse Now . Anche lo shakeraggio tra attori professionisti e
non professionisti è procedimento abusato, ma qui l’attore principale, gigante
della immedesimazione psicofisica, non ci risparmia un solo dettaglio deontologico.
La via crucis, sua e nostra, è necessaria, perché deve rovesciare, a proposito
di realismo drastico, il fatto di sostituire il modello ammirato e studiato da
Michel Franco in famiglia.
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Tim Roth in Chronic |
L’infermiera diventa infermiere. Il cambio di sesso
chissà se è stato provocato dal carattere fragile, lavoro a parte, del
protagonista, oppure dall’epilogo del film che non è punitivo né moralistico,
ma avrebbe potuto assumere questa caratteristica.
Il secondo film di cui parlare è
Sicario di un nordamericano che va per la maggiore negli uffici di
produzione delle major, il canadese francofono
Denis Villeneuve, che firma
questa volta un estetizzante film di genere (d’azione, un narco-thrille
r)
ambientato in Messico, e già acquistato per la distribuzione italiana. Esce in
autunno.
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Benicio del Toro |
Questo tex-mex movie, zeppo di difetti perché si aiuta con
orpelli luministici e iconografici quando maneggia i picchi forti di tutti i luoghi
comuni del filone (non furono esenti neppure da solarizzazioni, estetismi gore
e cinismi alla moda,
Il procuratore
di Ridley Scott, 2013, e prima ancora Steven Soderbergh di Traffic), come la
solita ricognizione sulla efferata ferocia messicana, ereditata dall’epoca di
Pancho Villa, è più che reticente sugli interessi statunitensi nell’area più
martoriata del mondo, lo stato di Tamaulipas, nel nord-est, lo stato di di Ciudad de Juarez, ed è un pretenzioso tentativo di fare
la satira ai thriller di Kathy Bigelow,
affidando all’attrice
Emily Blunt che interpreta
una giovane agente dell’Fbi di nome Kate e al
suo make up smunto e pallido il compito di caricaturizzare, fino a renderle
inutile, accessorie e inerti, le donne forti delle istituzioni, dall’agente
federale Jodie Foster al gioiellino della Cia Jessica Chastain. Roba da mandare
in sollucchero
Il Foglio. Vecchia e
nuova gestione. In realtà lo avevo recensito, quasi stroncato, questo
risarcimento immaginario al macho scomparso, proprio nelle giornate febbrili di
Cannes 68, subito dopo la prima proiezione per la stampa, ma il computer si è
mangiato per sempre un lungo pezzo senza sapermelo restituire. Ingerenza
pesante della Dea, la sezione Cia specializzata in mercato della droga? Forse
ho scritto cose che non dovevo? Niente di tutto questo. Semplicemente non lo
avevo memorizzato in tempo e zac, annichilito dalle divinità dell’Olimpo
digitale.
Chronic è invece uno
strano arty-movie d’attore/mattatore. Un “one man show”, ma a levare, non ad
aggiungere. Set Los Angeles. Tim Roth è David (il figlio di Saul?) e assiste i
malati terminali, assegnatigli dall’agenzia, cercando di addolcirne l’agonia.
Se ci fosse la possibilità di chiedere ai morti come si è comportato con loro
da vivo, rispettandoli giocando con loro permettendogli cose che la famiglia
avrebbe proibito, David riceverebbe da tutti il punteggio di dieci con lode. E’
minuzioso, efficace, appassionato soprattutto perché istaura con i pazienti un
rapporto più che professionale, intimo. Ma l’esagerato investimento emotivo che
mette nel suo lavoro insospettisce tutti. Che ci sia qualcosa di losco? Di
morboso e di necrofilo nel suo agire? Sospetti e denunce fioccano. Come se tutti avessero visto Gerontophilia (2013) di Bruce La Bruce,
tra i migliori film gay degli ultimi anni. La cosa sconvolge infatti alcuni
parenti del malato che, chissà perché, hanno con il loro padre o figlio o
fratello un rapporto più distaccato, impacciato, formale e perfino infastidito.
E che non vedono l’ora che l’intruso finisca il suo lavoro troppo ben fatto e
si arrivi al funerale liberatorio. Oltretutto anche David, in famiglia, entra
in metamorfosi e incorpora gli stessi gesti formali, freddi, maldestri e
inefficaci. Il contrario delle sue performance di lavoro. La biopolitica che
trasforma la ricca sostanza umano in profitto infatti
aliena la nostra vita principale e risucchia tutte le nostre qualità più
preziose solo nel lavoro salariato. Forse uno shock, anche esagerato, perfino
fatale, può liberarci di questo incantesimo da incantesimo maligno.
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Il regista di Chronic Michel Franco |
Nel thriller "intimo", dove le ombre contano almeno quanto le luci,
Sicario (con
un titolo simile,
El Sicario,
Gianfranco Rosi ha certamente fatto un film più inquietante e di drastico realismo
documentaristico su quel che succede al confine tra Messico e Usa: paradosalmnte il film non è mai uscito in nord America), Kate (l'idealista coriacea e molto fortunata, costretta a fare i conti con il realismo, cioé ad arrendersi, a giocare più sporco del nemico o almeno ad ammirare chi ci riesce) non
viene sostituita da un attore uomo, come in realtà avrebbero preteso la
produzione, ma diventa lo zimbello del copione (del texano
Taylor Sheridan), del rude e misterioso signore delle tenebre Alejandro (il portoricano
Benicio Del Toro,
ormai messicano honoris causa), del
saggio patriottico e feroce agente speciale Matt Graver (
Josh Brolin) - per il quale il mondo si divide solo tra i buoni, gli americani del nord, e i cattivi, il resto del mondo non nordamericanizzabile - e degli altri vecchi marpioni della Cia che chissà per
quale motivo, se non l’umiliazione, il ritorno a casa delle donne a far la
calzetta, vogliono che prenda parte, giovane, inesperta e fragile, e ligia alle regole, alla più
rude e confusa e ambigua delle missioni di guerra.
Annientare in terra straniera, e in missione
segreta, un feroce boss della droga, questa è la missione segretissima Fbi-Cia-Dea, utilizzando contro quell'imperatore del male un ancora più
feroce serial killer messicano, un ex procuratore che vuole distruggere le cosche non perché è il suo lavoro, ma solo perché gli hanno sterminato la famiglia. Grande la lezione etica di Villeneuve! Rodateci Clint. A Roma si usa
un’espressione un po’ forte per dire che non è più tollerabile che non si
spieghi in un film d’azione sul conflitto di coca e eroina che gli Usa
distrussero all’inizio del secolo scorso l’economia allora florida del Messico,
inventandosi l’assurdo della marijuana e dell’hascisc come droghe
pericolosissime da criminalizzare e proibire, anticamera delle droghe pesanti, etc. Lo ha spiegato in
Grass anni fa proprio un cineasta
canadese, Ron Mann. C'è una risposta molto semplice a questo groviglio di questioni geopolitiche. La liberalizzazione. Ma non si fa cenno alcuno ai politici e ai giornalisti assassinati perchè portavano avanti questa strategia che tocca interessi economici giganteschi.
Questo è il punto che il film, e molti altri film del
genere non spiegano. Con le immagini che pure Villeneuve utilizza da prestidigitatore provetto (tanto che gli daranno da fare il remake di
Blade Runner perché (an)estetizza anche troppo qualunque cosa) e da esperto investigatore delle intenzionalità morali degli esseri umani (specialmente wasp o succedanei). Insomma il film finge di porre tutte le domande. Ma in realtà sfrutta solo il quoziente spettacolare regalato dal corpo e dal volto di Benicio del toro che ormai somatizza in se tutto il drug world (non solo grazie a
Traffic). E sì che stanno morendo decine di migliaia di persone lì
attorno. Tra droga, sfruttamento schiavistico della manodopera a basso costo nelle fabbriche Usa della globalizzazione, immigrazione clandestina, machismo, corruzione, in un intreccio inestricabile di interessi che coinvolgono corpi separati o riunificati dei servizi segreti messicani e statunitensi, polizie dei due paesi, politici dei due paesi, uomini d'affari dei due paesi. Cambiata la struttura monopolistica e piramidale del traffico (che faceva capo alla gang colombiana di
Escobar) e diventata policentrica la criminalità neoliberista (insomma siamo nel dopo
Traffic, c'è il cartello super militarizzato del Golfo che combatte contro la gang altrettanto militarizzata dei Zetas, e così via) che ruolo gioca il governo Usa oggi per influenzare, controllare e sfruttare questo groviglio di
mercato? Con chi si allea?
Quale il
suo disegno strategico? Non c’è niente di questo, solo rullio e becheggio da video
gioco. Come quella collezione grottesca a macabra di dozzine di cadaveri appesi nelle intercapedini di una casa-covo a far da tappezzeria spettacolare alla scena d'apertura. Che muoia Mexico!
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Alejandro, il procuratore vendicativo. Benicio del Toro in Sicario |
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