Cannes
Posti in piedi alla prima di Mediterranea nella sala della Semaine de la critique, dove il regista Jonas Carpignano, trentenne italo-african-american, madre originaria delle Barbados e padre ex pot op, tra i più lucidi teorici marxisti dell'ultima generazione, è stato accolto, insieme ai due protagonisti, da un'ovazione preventiva. I suoi cortometraggi hanno raccolto premi a Venezia e a Cannes, e ora l'esordio nel formato lungo, sempre sullo stesso tema, l'emigrazione. Al centro, Rosarno in Calabria, già indagato in Chjàna, il corto sviluppato in questa narrazione della realtà, l'altra faccia delle immagini tg con le masse stipate in quei barconi che troppi in Italia vorrebbero affondare a cannonate. Gente senza nome, finalmente persone nel film ad alta tensione, ritmo serrato, niente pietismo nella storia di due amici provenienti dal “paese di uomini liberi e fieri” , il Burkina Faso, laboratorio di democrazia nell'epoca Sankara, e ora tornato vivibile dopo la recente rivoluzione che ha cacciato il dittatore (e assassino) Compaoré. Strano a dirsi, ma proprio adesso la Hollywood Foreign Press (i potenti corrispondenti stranieri che assegnano i Golden Globes) ha intenzione di cancellare dal suo carnet di festival “indispensabili” proprio il Fespaco, preziosa rassegna di cinema africano a Ouagadougu. Qualcuno li informi che quell'Africa non è solo ebola e Boko Haram,
L'Inter come Mito africano |
Brucia Rosarno brucia |
A Rosarno invece sì. Siamo dentro Distretto 13, le brigate della morte, la tensione lievita intorno alla comunità nera, auto di grossa cilindrata tentano di investire il gruppo che torna dal lavoro, i giovani del paese si presentano minacciosi alle loro feste danzanti, infastidiscono le donne... L'unica è “mamma Africa”, una signora anziana della Caritas che li accoglie, ma la 'ndrangheta scatenerà la “caccia l'immigrato”, fuoco ai rifugi, pestaggi, pallottole ad aria compressa. Due moriranno, accadde nel 2010. E ci voleva uno sguardo newyorkese per inquadrare la rivolta di Rosarno, la ribellione degli immigrati, la furia di Ayiva che vede il suo compagno a terra sanguinante. Auto incendiate, vetrine infrante, Jonas racconta in un flusso d'immagini essenziali, avvolgenti il suo “documentario” emozionale. Mediterranea promette un cinema italiano oltre i confini, tempestato di linguaggi incrociati, un cinema ibrido e internazionale.
Jia Zhang-Ke in Mountains May Depart |
Jia Zhang-Ke ha affilato la sua poetica
nel documentario, tema dominante la Cina in via di trasformazione.
Addio al sapore di un'antica cultura (e dei ravioli al vapore),
all'infanzia che ha radici nella piccola città di Fenyang,
nella provincia centrale di Shanxi, dov'è nato e vissuto il
regista. Il film si apre nel 1999 con il vortice chiassoso di un
balletto di ragazzi a ritmo di Go West dei Pop Shop Boys, cult
da discoteca in quegli anni, ed esibisce il formato stretto della
prima cinepresa digitale di Jia Zhank-Ke, una serie di “appunti”
che col passare del tempo, non solo cinematografico, si allargano nel
cinemascope, fino al fantamondo del 2025, ripreso con l'Arriflex
Alexa. Un percorso spazio-temporale che stringe il presente tra
memoria e preveggenza e si materializza nel corpo di Tao (Zhao Tao,
moglie del regista e attrice in molti suoi film) divisa tra due amici
di sempre, il presuntuoso e rampante Zhang, padrone di una stazione
di servizio e deciso a far soldi, e Lianzi, gentile e dimesso
minatore. Sceglierà il peggiore, perché “i nostri
modi di vivere sono stati sconvolti con l'irruzione del denaro al
centro di tutto”. Tanto che Zhang chiamerà il suo bambino
Dollar, e lo spedirà appena possibile, dopo il divorzio con
Tao, in Australia, più lontano geo-emotivamente possibile
dalla Cina, un luogo simbolo dell'emigrante incapace di parlare
l'inglese e di dialogare con i figli.
Materiali misti, reali e immaginari,
che viaggiano metaforicamente su auto (lussuosa e rossa quella di
Zhang), treni, aerei, e oggetti domestici primitivi accanto a schermi
e cellulari ultrapiatti, trasparenti... il passaggio da “com'eravamo”
a come “come saremo”, Mountain May Depart già nel
titolo indica il traguardo. Quello originale vuol dire “i vecchi
amici sono come le montagne e i fiumi, immutabili”, paesaggi di
riferimento. Traduzione dall'inglese, “le montagne possono
andarsene”, e si vede. In ogni inquadratura, sullo sfondo,
campeggiano gru monumentali sospese su grattacieli in costruzione,
note allarmanti nello skyline cinese, giganti che incombono sulle
casette malferme, le botteghe di artigianato, i mercati, i prati di
Fenyang.
Se con Touch of Sin (in gara a
Cannes 2013) il regista ha scritto un diario in nero del paese, film
a episodi di vita spietata, qui lievita l'angoscia, un sommesso,
crescente malessere che fa svaporare l'allegria di fine Novecento e
si dispiega nella storia di Tao, sempre più disillusa. Perderà
il padre, scrigno di memoria, e anche il figlio se ne andrà
così lontano da dimenticare il nome della madre.
Il film divaga all'inizio, concentrato
sugli “appunti” storici di Jia Zhang-Ke, quasi un prologo, un
memorandum, ma poi le immagini si incollano virando dal caldo dei
ricordi all'azzurro cristallino dell'oceano e dei monitor. Esistenza
rarefatta per Dollar che tiene appese al collo le chiavi di casa,
dono di Tao quand'era bambino. “Sono un figlio della provetta”
dirà alla maestra cinese cinquantenne che gli insegna la
lingua d'origine, anche lei apolide, risvegliata bruscamente dal
sogno occidentale, causa ex marito australiano gretto e insensibile,
e con la quale avrà un'esperienza “incestuosa”. Insieme
proveranno a tornare indietro. Ma la casa di Jia Zhang-Ke non ha un
indirizzo solo cinese, è la casa dentro, lo spazio
interiore di ognuno, è quella montagna e quel fiume che non
dovrebbero andarsene.
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