CANNES. Woody Allen ormai è Mozart. Uno sceneggiatore così perfetto, un direttore di attori così adorato da poter far indossare qualunque cosa a tutti i più superbi performer. Qui Joaquin Phoenix e Emma Stone, Parker Posey e Jamie Blackley. Per cui il suo nuovo lavoro, la commedia acida con delitto L'uomo irrazionale, che sta tra The rope di Hitchcock (l'estremismo esistenzialista in filosofia se male interpretato, soprattutto dagli accademici americani che semplificano Derrida, può provocare sfracelli) e la parodia del film di Margarete von Trotta su Hannah Arendt (non credo che Woody condivida la teoria della banalità del male), pur non essendo tra i suoi incastri umoristico-seriosi più riusciti merita un certo interesse, soprattutto grazie ai suoi sunti filosofici che perfezionano i bignami, al set, un campus universitario dove non volano soltanto coltelli teorici affilati ma anche lame contundenti autentiche e alla scelta musicale di supporto, non più swing ma "moderna", finalmente un jazz più complesso e cool, il Ramsey Lewis Trio, il Modern Jazz Quartet. L'arrangiamento visuale se ne avvantaggia e le immagini vengono avvolte da una atmosfera sofisticata, brillante, cool che rende l'oggetto particolarmente chic. E non è la prima volta che Woody fa furiosamente i conti con Heidegger fingendo di interessarsi di altro.
Joaquin Phoenix e Parker Posey in Irrational Man |
Emma Stone, Woody Allen e Parker Posey a Cannes |
Il figlio di Saul di Laszlo Nemes |
Alto il quoziente di difficoltà per un cineasta esordiente, anche perché il cinema civile occidentale ma soprattutto dell'est Europa ha scodellato, soprattutto a caldo, nell'immediato dopo guerra, talmente tante opere folgoranti, “per non dimenticare” l'orrore, dai capolavori di Jakubisko e Pontecorvo, Wajda e Munk, Grifi, Lanzmann fino a Benigni e Spielberg, da costringere i cineasti di oggi a un necessario spostamento di sguardo o salto di fantasia per non essere retorici o ripetitivi e per non colpire a vuoto un immaginario che non sopporta il gioco facile con i sentimenti. Ed ecco l'originalità dell'operazione di Nemes (coadiuvato alla sceneggiatura da Clara Royer). Intanto lo sguardo su Auschwitz è quello di un prigioniero ebreo, Saul Auslander, ungherese, membro del Sonderkommando, squadra speciale isolate e apparentemente “privilegiata”, perché destinate a essere giustiziate dopo, poco prima dei kapò e dei “Murmelstein”. Saul è dunque un prigioniero speciale, ha una grossa croce rossa ben visibile sul retro della giacca, e non è scarnificato come gli altri, perché deve fare lavori molto faticosi: è obbligato a trasportare i prigionieri nelle camere a gas travestite da docce, e non tutti sono inconsapevoli, a raccattare e dividere vestiti e beni personali (trafugando quel che serve, a volte, per la sopravvivenza spiccia), a pulire dai cadaveri nudi i locali avvelenati, a spalare e gettare al fiume la montagna di cenere dopo ogni cremazione dei corpi. Tra i morti, un giorno, trova un ragazzo miracolosamente ancora vivo, che crede di riconoscere come suo figlio. Un medico delle SS lo giustizia, soffocandolo. Ma Saul riesce a sottrarre il corpo alla cremazione e si impegna a trovare un rabbino, a rischio di morire, pur di per dare a quel corpo sepoltura ebraica, con tanto di Kaddish. Come un simbolo di resistenza e di rivolta. La rivolta scoppia davvero, ma...
Non è tanto importante il racconto degli avvenimenti. Quanto il lavoro con gli attori e con la cinepresa di Nemes. Un estremo naturalismo provoca, secondo la lezione di Pina Baush o di Peter Stein, e utilizzando implacabilmente e claustrofobicamente il primo piano e il “primo piano rovesciato” (cioé il protagonista è spesso inseguito in piano sequenza ad altezza di nuca semovente) un effetto astratto. Da Raffaello Sanzio. Vediamo la violenza nella sua astrazione pura e non una messa in scena. Notevole. Lo stesso effetto di perdita totale dell'identità provocato dalla situazione di un prigioniero nel lager nazi. Spossessati del corpo e del nome, numeri deambulanti, i prigionieri possono diventare qualunque cosa, trasformarsi anche in “rabbino”, per esempio, pur di sopravvivere una mezzora di più, e lo stesso sguardo può opacizzarsi sui morti (sono tutti inquadrati a distanza o in flou perché non si “vedono” più) o metamorfizzare gli spazi e i corpi, come accade al ragazzo trasfigurato in altro (probabilmente Saul non ha mai avuto un figlio, ma la prospettiva di un altro David possibile è l'unica che permette di accettare un altro, più immane, sterminio). Questo gioco tra naturalismo e sacralità è quel che fa il film molto interessante e di Nemes un sicuro talento. Nonostante un finale che perde la tensione “teatrale e documentaristica assieme” dell'inizio rifugiandosi nel narrare standard dello scontro, della fuga e dell'inseguimento. Di cui conosciamo già l'esito atroce.
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