di Roberto Silvestri
Laszlo Nemes, sul set di "Son of Saul" |
Film d’esordio dell’ ungherese
Laszlo Nemes, 38 anni, Son of
Saul, Il figlio di Saul, unica “opera prima” del concorso numero
68. Il set e l'argomento del film
(diretto dall'allievo prediletto di Bela Tarr) è Auschwitz, nell' ottobre del
1944. I russi stanno per arrivare e per liberare i prigionieri ebrei (e anche
comunisti, dissidenti, rom e omosessuali) sopravvissuti alle camere a gas, agli
stenti e al superlavoro. La “soluzione finale” richiede un surplus di
efficienza e velocità burocratica. Il Fuhrer forza la macchina dello sterminio
ai ritmi altissimi di cui parlerà Adolf Eichman, con una certa soddisfazione
professionale, al processo in Israele, avvenuto troppi anni dopo, che lo
condannerà a morte. Intanto anche la resistenza interna si avvicina e si
prepara una rivolta nel Lager... Alto il quoziente di difficoltà per un
cineasta esordiente, anche perché il cinema civile occidentale ma soprattutto dell'est
Europa ha scodellato, soprattutto a caldo, nell'immediato dopo guerra, talmente
tante opere folgoranti, “per non dimenticare” l'orrore, dai capolavori di
Jakubisko e Wajda, Resnais e Munk, Grifi e Marker, Pontecorvo e Lanzmann fino a
Benigni e Spielberg, da costringere i cineasti di oggi a un necessario
spostamento di sguardo o salto di ingegno per non essere controproducenti, retorici
o ripetitivi e per non colpire a vuoto un immaginario che non sopporta il gioco
facile con i sentimenti. Ed ecco l'originalità dell'operazione di Nemes
(coadiuvato alla sceneggiatura da Clara Royer). Intanto lo sguardo su Auschwitz
è quello di un prigioniero ebreo, Saul Auslander, ungherese, membro del
Sonderkommando, squadra speciale isolate e apparentemente “privilegiata”,
perché destinate a essere giustiziate dopo, solo poco prima dei kapò e dei
“Murmelstein” (da notare che al Biografilm Festival è stato presentato il nuovo
lavoro di Giovanni Cioni, Del Ritorno
sulle memorie di Silvano Lippi, vittima del perfido gioco dei nazi e sbattuto
nel Sonderkommando, di Mathausen, questa volta).
Saul
è dunque un prigioniero speciale, ha una grossa croce rossa ben visibile sul
retro della giacca, e non è scarnificato come gli altri, mangia qualcjhe patata
in più, e può trafficare agevolmente, perché deve fare lavori molto faticosi: è
obbligato a trasportare i prigionieri nelle camere a gas travestite da docce, e
non tutti sono inconsapevoli, a raccattare e dividere vestiti e beni personali
(trafugando quel che serve, a volte, per la sopravvivenza spiccia), a pulire
dai cadaveri nudi i locali avvelenati, a spalare e gettare al fiume la montagna
di cenere dopo ogni cremazione dei corpi…
Tra “i gasati”cdal Ziklon B, un
giorno, trova un ragazzo miracolosamente ancora vivo, che crede di riconoscere
come suo figlio. Un medico delle SS lo giustizia, soffocandolo con fastidio. Ma
Saul riesce a sottrarre il corpo alla cremazione e si impegna a trovare un
rabbino, a rischio di morire, pur di dare a quel corpo sepoltura ebraica, sottoterra,
con tanto di Kaddish. Come un simbolo di resistenza e di rivolta. Come un
sintomo di follia vendicatrice. La rivolta scoppia davvero, ma... Non è tanto
importante il racconto degli avvenimenti posteriori (anche il film sembra
disinteressarsene). Quanto il lavoro con gli attori e con la cinepresa di
Nemes. Un estremo micronaturalismo provoca - secondo la lezione di Pina Baush o
di Peter Stein, e utilizzando implacabilmente e claustrofobicamente il primo
piano e il “primo piano rovesciato” (cioé il protagonista è spesso inseguito in
piano sequenza ad altezza di nuca semovente) - un effetto astratto. Da
Raffaello Sanzio. Vediamo la violenza nella sua astrazione pura e non una messa
in scena. Notevole.
Lo stesso effetto di perdita totale dell'identità provocato
dalla situazione di un prigioniero nel lager nazi. Spossessati del corpo e del
nome, numeri deambulanti, i prigionieri possono diventare qualunque cosa,
trasformarsi anche in “rabbino”, per esempio, pur di sopravvivere una mezzora
di più, e lo stesso sguardo può opacizzarsi sui morti (sono tutti inquadrati a
distanza, fuori fuoco o in flou perché non si “vedono” più) o metamorfizzare
gli spazi e i corpi, come accade al ragazzo trasfigurato in altro
(probabilmente Saul non ha mai avuto un figlio, ma la prospettiva di un altro
David possibile è l'unica che permette di accettare un altro, più immane,
sterminio). Questo gioco tra naturalismo e sacralità è quel che fa il film
molto interessante e di Nemes un sicuro talento. Nonostante un finale che perde
la tensione “teatrale e documentaristica assieme” dell'inizio rifugiandosi nel
narrare standard dello scontro, della fuga e dell'inseguimento. Di cui
conosciamo già l'esito atroce.
Nessun commento:
Posta un commento