venerdì 1 maggio 2015

Reece del deserto. Satori in Oregon





Reece Whiterspoon in "Wild"

di Roberto Silvestri 

"Profondi e scuri sono i boschi e belli, ma ho promesse da mantenere e miglia da percorrere, prima di dormire" (Robert Frost 1874-1963)




il "mostro"

Vedendo il walking-movie desertico Wild - una giovane donna, Cheryl Strayed, sola nella natura selvaggia, sventaglia e affronta passo dopo passo e sotto un sole più che cocente ogni suo aspetto dark, un film che si svolge negli anni di impero musicale grunge dei Nirvana, e nei giorni in cui muore Jerry Garcia - penso a Werner Herzog che andò a trovare Lotte Eisner morente, non in macchina, non in treno, non in aereo, non a cavallo, ma a piedi, macinando centinaia di chilometri come si faceva nel medioevo per raggiungere Santiago de Campostela (La via lattea, di Bunuel). 

in libreria
Ciò che accomuna queste camminate è l’assenza di ombre rosse. Di ostili padroni della terra. In un certo senso la teoria della frontiera è proprio finita. Si avanza, ma i pericoli sono tutti dentro di noi e non fuori di noi. Per trovare una frontiera di vecchio stampo ormai bisogna scendere negli abissi, come sta facendo James Cameron anche nelal seconda e terza parte di Avatar. E anche migliaia di rifugiati e lavoratori afro-arabi nel mediterraneo.

Jean Marc Vallée e Reece Whiterspoon
Anche se timidamente sembra riemergere tra le mode giovanili occidentali del momento la passione per l’autostop, magari pre-organizzato nei social network, qui siamo proprio dentro un’esperienza drastica individuale di liberazione e di scrittura. Il film è bipede, ed è raccontato in prima persona femminile singolare neofemminista, nonostante una stedaycam che la segue perennemente. Ma ha bisogno esplicito di comunicare con qualcuno, e con ogni mezzo necessario. Visivo, sonoro, musicale (El condor pasa di Simon e Garfunkel, Hollies, Portishead, Presley, Schubert, Pat Metheny, i Greatful Dead...), poetico. Emily Dickinson, Ralph Waldo Emerson, Adrienne Rich e James A. Michener sono gli angeli custodi della interminabile camminata. Citazioni dalle loro poesie vengono citate ripetutamente. Anche se sulle spalle della ragazza giganteggia un mostro di zaino, quasi insostenibile, tipico della dilettante del trekking. Avrà modo e tempo per sbarazzarsene, così come della cultura libresca, facendosi penetrare dal paesaggio così come avviene, per alchimia del bel cinema, ogni volta che un romanzo di formazione si trasforma in un road movie che si rispetti.

Cheryl scrive il suo libro lentamente
Wild inizia come il libro, a metà viaggio. L'atmosfera è Wordsworth, Thoreau, Whitman, tra romanticismo, paesaggi sublimi, merito del direttore della fotografia Yves Bélanger, e feroce umorismo sotto traccia.  E stilisticamente si vola avanti e indietro nel tempo, come penetrando con il regista dentro un monoscopio interiore, che invece di complicare le cose, alla James Joyce, le semplifica perché ci libera dal deserto opprimente come set unico, proprio come nel film di Nanni Moretti perfino le riprese di un film cupo ci salvano dal perenne letto d’ospedale della madre morente. La mamma, Bobbi, muore anche qui, nel passato, e di cancro (è Laura Dern, che trascinò via la piccola Cheryl da un marito probabile uxoricida) e la relazione della ragazza con gli uomini del passato e del presente (non si sa troppo di Gaby Hoffman che sembra sia stato il suo migliore amico) non si discosta dall’imperfetta messa a fuoco della vita sentimentale di Margherita Buy… 
Bobbi, Laura Dern
La cosa che piace del film è soprattutto il disinteresse per l’equilibrio strutturale. Troppo montaggio nel centro film, troppa voce fuori campo nel finale, qualche cameraman riflesso nell'occhio del cavallo di Bobbi, lei che legge nel 1995 un libro, Gone Girl, uscito nel 2012...  mancanza di dettagli sulla vita da drogata di Cheryl e su un’estemporanea e distratta relazione lesbica “mentale”.  
Ma visto che il film vuole dirci due o tre cose non ovvie sull’imperfezione, sulla improvvisazione, sull’impudicizia nell’autoanalisi e sull’importanza (celebrata) degli errori per essere un po’ più saggi ma soprattutti più liberi, anche oggi, 2015, tutte queste asimmetrie e anacronismi e ellissi funzionano e commuovono.  

Il cammino solitario apre, attraversando il dolore, spazi utopici mai sperimentati. Il sapore è anche un po’ quello della prosa di Italo Calvino o di Eduardo Galeano. Avanzare, sempre e comunque, tra dolori e pericoli più che tra piaceri e serenità, dà altre vie di fuga, differenti prospettive e ritmi vitali, destruttura il mondo. Forse permette anche metamorfosi e illuminazioni transitorie.


L’eroe del film è una donna, la protagonista (nonché produttrice) è la commediante legally blonde Reese Witherspoon, già particolarmente brillante e imprevedibile in Election e  Inherent vice - e ha rinunciato a Big Eyes per farlo. Però siamo lontani dalla traversata desertica del bush australiano di Tracks (2013), perché in quel caso Lady Camel era una militante femminista storica che sosteneva la causa degli aborigeni (siamo nel 1977) e attraversò, dopo due anni di allenamento professionale, 1700 miglia in nove mesi per mostrare (attraverso la complicità di un fotografo del National Geographic che la raggiungeva di tanto in tanto) sia un pezzo di mondo e di civiltà rimossi sia il potere fisico e morale, sottovalutato, dell’altrà metà.   

Wild cattura potentemente gli sforzi di chi va prepotentemente avanti contro tutto e tutti - uomini, fulmini, eroina, donne, insetti, ricordi, pendii scoscesi, incubi, rota, probabili violentatori, animali  - in un viaggio al termine della notte che la trasfigura, la fa impazzire, la ferisce (soprattutto al piede), la rafforza, le dà piacere anche erotico e, infine, la guarisce. Forse. Ma della controcultura cerca di catturare la parte meno esterna e visibile, quella più intima e poetica ovvero la più paranoica In fondo lei sembra una piccola Burroughs. Sa quando smettere. Quando diventare eroina (intesa come sostanza tossica) per l'eroina (intesa come sostanza che schiavizza). 

Non a caso il regista scelto (dopo il rifiuto di Lisa Cholodenko) è esperto nel fuori campo, è Jean Marc Vallée, il filmmaker franco-canadese cui si deve nel 2013 il formidabile Buyers Dallas Club e che ha lavorato sul copione scritto da Nick Hornby (il romanziere da cui Andrea Molaioli sta trasponendo Tutto per una ragazza) proprio con Cheryl Strayed (dal suo autobiografico Wild: From Lost to Found on the Pacific Crest Trail, edito in queste settimanale anche il Italia da Piemme). La figlia di Cheryl Strayed interpreta proprio sua mamma da piccola, nel film. Ed è la scrittrice in persona ad augurare a Reece il buon viaggio!, prima dell’inizio dell’avventura (fatta senza uso di controfigure. Però bisogna criticare l’abuso dei primi piani ‘espressivi’ e una strana dimenticanza. Niente occhiali da sole. Il che è davvero improbabile, anche se divisticamente corretto).
I cinefili certo raccorderanno il film anche alle odissee desertiche ed esiziali, e piuttosto involontarie, di Greed e di Il tesoro della Sierra Madre, o al vagare zombesco e post-apocalittico tra le macerie in Il seme dell’uomo di Marco Ferreri  e in decine di altri incubi fantascientifici e horror (The Blair Witch Project, 1999; Discesa nelle tenebre, 2005 di Neil Marshall, Wolf Creek, 2005…). Gli appassionati delle serie tv poi avranno solo l’imbarazzo della scelta, perché l’immagine del camminatore solitario volontario, è ormai una icona a se stante (Lost, Csi, Ncis, Home and away, Ai confini della reltà…). Nel deserto oltretutto la musica interna delle cose, della natura, non è infastidita da rumori di fondo avulsi e impropri.
Gran parte del cinema contemporaneo più vitale e sperimentale, da Beyond the sea level a Avengers: Age of Ultron sta proprio elaborando, misteriosamente, ai bordi dell’umano, quando una persona affronta all’ultimo sangue se stesso, il proprio peggior nemico, ma avanza, anche senza strada e senza asfalto. E’ ossessionato, il cinema di punta, dal vagare e deambulare aleatorio e senza bussola, dal salto nel vuoto, nell’abisso, preferibilmente con la telecamera incollata alla nuca del protagonista. Lisandro Alonso, da La libertad a Jauja racconta finalmente l’Argentina “che non esiste”, quella del corpo di nano e non quella dalla gigantesca testa, Buenos Aires, la Pampa infinita dove si sterminarono gauchos e indios, la Patagonia desertica, l’oceano smisurato….In un film di Bruno Dumont, Twentynine Palms (2009), una coppia si unisce carnalmente al Joshua Tree Desert; Gus Van Sant, in Gerry, fa trekking controculturale e senza rete e in The sea of trees  (che vedremo a Cannes) trasforma Matthew McConaughey in un Jack Kerouac che medita sulla vita, sul sesso, sull’arte e sulla morte non a Big Sur ma sul monte Fuji, il simbolo vettista del pauroso  nazionalismo giapponese. Sean Penn (Into the Wild) e Gianfranco Rosi (Beyond the sea level) si sono contesi lo stesso psazio desertico del sud California per giocare a chi è più bravo nel documentizzare la fiction e viceversa......

L'escursionista molto esperto 
Una pulsione originaria, di derivazione neo-beat, pagana, liberatoria, mistica ma non ascetica, quella del camminare “senza lasciare traccia”. Stato zero di coscienza, satori, oltre i confini dell’Io fabbricare un altro io di scorta, per ricominciare a vivere dopo un trauma di difficile gestione. Proprio come quello che dà il via al romanzo e al film Wild. La morte della madre e la fine di una storia d’amore. Doppio shock che distruggerebbe perfino una ragazza spericolata come Cheryl Strayed. Per fortuna anche lei deve avere un vizio di forma. E’ fatta strana. E Reese Witherspoon è pronta a tutto per renderla credibile, fragile, nuda e ostinata. Elabora infatti una disperata risalita esistenziale che passa attraverso una serie di azioni autodistruttive, ieri come oggi, mescolate a versi poetici che ne attutiscono, come fossero le sue cinte e cinture, le ripetute cadute scomposte e a una meditazione interiore programmaticamente suicida. Va annichilito un corpo, per farlo rinascere dentro un’altra anima. Ma ci vuole un complicatissimo tragitto da intraprendere. Robert Frost insegna: “miglia da percorrere, prima di dormire”.  La temeraria intuizione di Cheryl, a metà degli anni 90, è infatti quella di camminare da sola, accompagnata dalla pura determinazione, per i circa 2000 km del Pacific Crest Trail, dal deserto del Mojave in su, oltre la California, l’Oregon e il Washington, fino al Canada. Un tragitto protetto, in qualche modo organizzato, con rifugi, spacci, telefoni di soccorso, saggi escursionisti che le danno cento dritte, amici simpatici e brutti ceffi, donne seduttrici. Non ci saranno più gli apache a minacciarci. Ma le ombre allucinanti non mancano.  

Cheryl Strayed e Reece Whiterspool
Oggi quelle solitarie incursioni nel buio sono un grande business che si ramifica in catene di abbigliamento, come Patagonia, e di accessori (bussole, coltelli, occhiali da sole, sacchi a pelo, tende, telefonini…). Case editrici specializzate (Kompass, Tabacco, Multigraphic, Igc) sfornano minuziose cartine e planimetrie dei posti tappa e dei rifugi di aree inaccessibili e quasi vergini. Intere sezioni di Barnes&Noble, la catena di librerie nordamericane, sono dedicate al trakking e all’hiking. All’escursionismo. Al camminare. Sui monti (127 ore…Ne sappiamo qualcosa in questi giorni, dopo il terremoto in Nepal), nei boschi e sui fiumi selvaggi (River Wild, con Meryl Streep, e prima ancora Un tranquillo week-end di paura), nel deserto.  Reece dal deserto trae sapori perfino bunueliani (la scena dell'unghia rimossa). E questo è davvero sorprendente.   

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