Questa sera, al Nuovo Cinema Aquila di Roma e fino al 12 Let's go è a Roma. Il 13 maggio tappa a Napoli, per un solo giorno, mercoledì 13 maggio, presso il cinema
La Perla. Antonietta De Lillo sarà presente in sala, agli spettacoli delle ore
19.15 e 21.00, per incontrare il pubblico al termine delle proiezioni.
Ingresso (a Napoli) 4 euro. Poi il giro continua...
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Luca Musella si confessa in Let's go di Antonietta De Lillo |
di Roberto Silvestri
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Luca Musella dal barbiere in Let's go |
Volete vedere un film
che guarda bene in faccia la crisi? Non
ci penso nemmeno. Ma Let’s go non
è di quelli che si compiacciono della degradazione (la volgarità imperante) o
che santificano quella degradazione (con postura populista, dal basso in alto).
Anzi a dirla tutta è un film che non parla neanche solamente di oggi. E neanche
solo di degradazione e immigrazione nella zona periferica di Milano, la Curt de l’America, dove partiva il tram
che portava alla stazione e da lì ai porti e da lì in America… Siamo sul
Naviglio, tra via Padova, via Crespi e via Clitunno, dove è dipinta una bella
icona della Madona, la Pietà di Crescenzago, restaurata tre anni fa. Già. Il
film rievoca sentimenti dimenticati. Scodella strani presagi. Fabbrica immagini
degni della collezione Kalzenere, la
mostra del visibile insostenibile ed estremamente strano che Marcello Garofalo
allestì a Milano proprio durante le riprese del film per invitarci a diffidare
della nozione di “capolavoro assoluto”.
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La troupe di Let's go |
Let’s
go potrebbe perfino essere stato
girato da Alberto Grifi negli anni sessanta del secolo scorso. Non nella Milano
periferica come questo, ma nel pieno centro di Roma, magari tra piazza Navona e
Campo de’Fiori, quando poveri ed ex ricchi si mescolavano promiscuamente alla
Pollarola e quell’innesto scatenò un sessantotto. Ci sono gli intellettuali che
hanno scelto di non frequentare i salotti bene, meglio i pregiudicati e i
ladri, il riunirsi tutti al vinaio dopo una giornata dai lavori saltuari, i
drogati minorenni che vagano in cerca di elemosina, quelli che sopravvivono di
espedienti giocando ai cavalli, e stanno sempre al bar raccontando i loro
libri, i pittori che non vendono un quadro, le signore con le sigarette di
contrabbando sull’uscio di casa, gli studenti che non hanno un soldo in tasca,
quella vagabonda incinta, i filmakers indipendenti che hanno appena mostrato il
loro super8 al Filmstudio. Eppure c’è
qualcosa di nobile e di sperimentalmente bello in quell’occupare un centro
storico che va in pezzi, nel vivere con stile e in comune un’altra vita
possibile. Senza polizia tra i piedi. E tutti a mangiare e a bere con chi quel
giorno ha i soldi. Magari l’amico di Victor Cavallo. Oggi questi incanti
avvengono sempre e solo fuori dai centri storici gentrificati. Nelle periferie
di cui i film di Pedro Costa si illuminano. Dove c’è un certo tipo di ricchezza
umana, che qui si è perduta, salvo arrivare da fuori. Ecco, l’impressione che
ho avuto vedendo questo film è l’impressione che mi fanno a Gaza o a Hebron gli
esperimenti teatrali portati avanti sotto le bombe chirurgiche che da Israele
arrivano per ritorsione e colpiscono inevitabilmente non i feroci capi di Hamas
ma gli attori, i drammaturghi, i musicisti, gli umoristi. Gli stessi annientati
da Fis, Isis, al Quaeda…. A proposito. E siamo sempre nel prologo.
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Luca Musella a Napoli |
“Qui, vicino ai frutteti privati delle loro
ombre, noi facciamo quello che fanno i prigionieri, che i disoccupati fanno,
noi nutriamo la speranza”. A spiegare con questi versi (tratti dalla poesia Stato di assedio) la condizione dei sem terra di tutta la terra, dei
profughi, dei migranti, degli emarginati, dei clandestini, dei nomadi e apolidi
per forza, del sottoproletariato sfruttato all’osso in tutto il mondo ricco e
povero, eppure mai domo, pronto al riscatto, o comunque ad andare avanti in
moltitudine, è il poeta Mohamed Darwish, la voce umile ma indocile della
Palestina fiera. Una terra che vive nel paradosso unico - neanche la comunità
yiddish negli anni trenta eurorussi, neppure i rom sempre - di esistere sui frutteti da cui sono stati sradicati tutti
gli alberi di frutta, e senza patria ma dentro confini “che chiudono”,
oppure di vagare, senza nazione, entro confini che “aprono”. Tutti quelli,
oppressi o cacciati, che cantano “nostra patria è il mondo intero, nostra fede
è la libertà” sventolano, infatti, nei giorni di lotta e di festa, la bandiera
di quello stato che non esiste ancora. Fanno fare passi avanti all’utopia. Ecco
perché, nel giorno della Liberazione, accanto alle bandiere rosse, sventola
anche quella….
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Antonietta De Lillo, Luca Musella e Giovanni Piperno |
Vengono in mente questi versi e questo
tragitto (“importante non è approdare, è
andare avanti, non il porto ma il viaggio” scriveva Eduardo Galeano)
davanti a un film, esempio sopraffino di “cinema del reale”, le cui prime
immagini (catturate dal regista Giovanni Piperno, qui operatore digitale e
coautore del soggetto e della sceneggiatura) ci scaraventano proprio dentro
l’Italia abietta che oggi respingerebbe volentieri in mare, ci fosse un
referendum, profughi e emigranti, neri e cinesi, zingari e girovaghi, perché
“la barca è piena”, mentre festeggia l’esposizione universale del rilancio,
dello sviluppo e della crescita, non si sa di cosa. Anzi è meglio tacere sul
tipo di tumore Pil di cui si invoca la crescita. Anche perché quel che si vede
crescere è piuttosto invece un barbaro blob che spaventa chiunque, il ‘blocco
nero’ che mette periodicamente in scena una rappresentazione medievale della
guerriglia urbana, tra fumi e travestimenti...
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La regista Antonietta De Lillo |
Esce infatti oggi 10 maggio, una domenica,
festa della mamma, a Roma, al Nuovo Cinema Aquila, e poi girerà in tutta Italia
il nuovo film di Antonietta De Lillo,
Let’s Go
(Andiamo), distribuito oltre che dalla Mariposa Cinematografica, da Miseria Ladra di Libera e dal Gruppo Abele, perché questo documentario ben
fiancheggia una campagna di solidarietà con gli homeless, i marginali, i
clandestini, gli “italieni” e i diversamente italiani.
Ed ecco la sequenza iniziale del film: un barbone nel centro di Milano, con
tutto quel che possiede nei suoi pacchi di plastica, circondato da passanti con
le buste dello shopping di via Montenapoleone, a un passo dal gigantesco
manifesto dell’Expo, l’evento che vorrebbe trasformare per magia “la fame nel
mondo” da molla molto ben congegnata per lo sviluppo (di pochissimi) nel
bersaglio da colpire e annientare di ogni ideologia caritatevole che si
rispetti.
E’ la scena che ci introduce nella vita
quotidiana di un nuovo povero, Luca Musella, che da un giorno
all’altro si è ritrovato nullatenente, esodato professionalmente ed
emotivamente, pur essendo stato per anni una star del giornalismo visivo e
anche il fotografo di scena di De Lillo durante tutta la carriera della
cineasta napoletana che da qualche anno, dopo Il resto di niente, si è dedicata, o meglio si è dovuta dedicare,
all’autoproduzione di documentari (ancora nelle sale sta facendo un lungo giro
nell’Italia profonda quello dedicato al poeta Alda Merini) e “documentari
partecipati”. Portare in tribunale il cinema pubblico per il reato di
insipienza cultural-imprenditoriale in uno Stato il cui cinema è assistito e
gestito pressoché integralmente dallo Stato è il dovere, non la follia, di
qualunque cineasta abbia ben interpretato il neorealismo come gesto etico.
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Luca Musella sul Naviglio |
Questo è un racconto in prima persona singolare maschile, perché anche questo film è partecipato, la regista lo ha imbastito
assieme a Piperno e soprattutto al suo amico e protagonista, che ha affidato la
lettura dei suoi testi, autobiografici e filosofici, alla voce fuori campo di
un doppio, l’attore Roberto De Francesco (il Leopardi nelle Operette Morali che Martone ha allestito
prima di Il Giovane Favoloso). Il
documentario, di lunghezza standard televisiva di poco più di 50 minuti,
comprende una lunga intervista al protagonista (a casa, in un sottoscala di
Milano, e non mancano i giochi di mascherino nero ad allargare o chiudere
l’inquadratura, e poi sul tram, in treno verso Napoli e nelle stradine dei
navigli e di Crescenzago) e scene rubate al bar, con Musella seduto tra gli
amici, per lo più extra comunitari.
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Luca Musella al lavoro nella sua casa scantinato |
Il nuovo povero è, come tanti altri
cinquantenni che hanno perduto il posto, un intellettuale della middle class in
metamorfosi. La sua carriera è rotolata giù giù, come una pietra dylaniana, dal
successo artistico, “ero come l’uomo del Mulino bianco” al nulla, alla miseria
più estrema. Un po’ più fortunato di chi vive per strada grazie all’assistenza,
non solo in cibo e bevande, di organizzazioni del volontariato laico come la
Ronda “Carità e Solidarietà”, la Coooperativa sociale Trasgressione e “Avvocato
di strada” (coinvolti tutti nel progetto). Luca Musella è un professionista
dell’immagine, un napoletano a Milano, ex fotografo di scena, ex fotoreporter
di primo livello (sue copertine indimenticabili di Espresso Der Spiegel, The Economist…), scrittore di romanzi (“pubblicati
da medi editori”), inventore delle “porno verdure” fotografiche che sarebbero
tanto piaciute al Joaquim Pedro de Andrade di Vereda Tripical, poi libraio fallito, dopo uno sciagurato e
sballato investimento a Viterbo.
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Luca Musella e il caffé |
Un lavoratore della cultura, un eccellente
artista, un tempo tutelato come personalità preziosa, valore primario (senza
ricerca estetica non si inventano nuove merci e l’economia di mercato si
paralizza…) che ha visto spegnersi via via tutti i luoghi del comunicare e del
discutere - giornali, librerie, agenzie
fotografiche, compagnie cinematografiche, gallerie, e anche cori, orchestre,
scuole… - ha scoperto di aver a lungo
amato “maschere e non persone”, e sopravvive oggi, senza rancore, anzi con con
eleganza e dignità (che non figurano ancora tra i parametri meritocratici) ma disperatamente solo. Abbandonato anche
dalla famiglia e lasciato dalla moglie, dopo il crac finanziario, che si è
portata via i figli, e senza una vera casa, come in una canzone metropolitana
di Enzo Jannacci (che infatti ne commenta, alla fine, il destino, perché Saltimbanchi si muore). Luca vende merci
varie nei mercatini dell’usato, ma coltiva legami profondi e affetti mai così
intensi con chi vive come lui. Brahim, Abdul, immigrati tunisini, badanti
rumene, baby sitter brasiliane, due donne che ama non troppo riamato: una
intellettuale della mente (“magra”) e una intellettuale del corpo, una ragazza
somala che fa la spogliarellista. Ma tutte e due lo trovano piuttosto
“pesante”. C’è Mustafa, per esempio, che fa 20 km a piedi per andare a lavorare
e 20 per tornare a casa. Anche con la testa rotta, se no lo licenziano. E’
stata la sua estroversione e solarità, l’allegria napoletana radiante, ad aver
contagiato gli angeli decaduti del
quartiere. Che lo hanno ben ripagato: “E’ stato il mio slittamento sociale,
paradossalmente, a impedirmi di entrare in depressione e di suicidarmi.
Scoprire che si ha molto più tempo libero per dialogare con le persone, per
ascoltarle per ore, e che si può bere, mangiare e dormire senza programmazione,
è finalmente riconoscersi come esseri umani e amarsi, non accoppiarsi come
animali, come succedeva prima”. Daniele Sepe mette in quadruplice intesa il
teremin, le campane, i fiati e un pianoforte, e con sei brani in forma di suite
tesse assieme alle immagini un avviluppato arabesco sonoro che spesso sfiora i
misteri della fantascienza, l’incubo horror o la contagiante e danzante world
music di strada. Mentre il montaggio di
Giogiò Franchini anche se non vuole costruire niente di strutturale interviene
nervosamente ad agglutinare ricchi strati emotivi, come faceva Ornette Coleman,
sintetizzando e sincopando velocemente ritornelli melodici, senza preoccuparsi
di abbellimenti e orpelli.
Il film, presentato in anteprima nel novembre
scorso alla 32esima edizione del Torino Film Festival è una coproduzione
Marechiaro (la società di Antonietta De Lillo) e… Rai Cinema, nuova gestione,
che negli ultimi tempi (pensiamo anche a Louisiana
di Roberto Minervini) ha finalmente capito che bisogna affrontare i tabù del
catechismo e svincolarsi del manicheismo da oratorio, aprire l’immaginario e
non rinchiuderlo, e fiancheggiare con tatto e sensibilità operazioni più
estreme, ad alta tensione, dal design più internazionale. Anche perché la
concorrenza sui mercati mondiali lo esige.
Essendo il protagonista rimasto poi un
profondo conoscitore dell’immagine, della sua vitalità, della sua facile
usurabilità, del suo potere metamorfico, ci fidiamo di alcune intuizioni
critiche di Musella a proposito del guardare, del visibile. Il giudizio
soggettivo deve avere validità universale, no? Stabilire quando una immagine è
nuova. O, se usata, come le merci che
Musella vende al mercatino, almeno “garantita”. Per tirare fuori il poetico che
c’è in noi un’immagine deve prestarsi alla ricezione multipla. Saltare
all’occhio di tutti, anche se in maniera differente. Essere (come scriveva
Roberto Longhi) un’illuminazione
terebrante, penetrante come il succhiello (la terebra) di un insetto. Un
angolo di pianura padana ecco che appare marino.
Un ragazzo vittima della mafia può liberare uno sguardo da indocile principe
rinascimentale, sulla copertina celebre dell’Espresso. Riprendi uno che va in bicicletta, eppure sembra un
pescatore hemingwayano. Come sui primi del Trecento Dante Alighieri
(Purgatorio, XI, 82) ammirando un codice miniato che un pittore bolognese aveva
illustrato con atroci scene splatter di tortura, si avvede “che quelle carte
ridono”, perché è la rosa dei colori a contare. In quei versi nomi di artisti
figurativi vengono equiparati a nomi di grandi poeti. E già sembra Godard che
con la politica degli autori impone
che il cineasta Renoir valga artisticamente quanto lo scrittore Flaubert.
Musella, parlando della sua opera d’arte preferita, La pietà di
Crescenzago, pittura popolare nella palazzetta di via Padova 275, segnatevi
l’indirizzo se andate all’Expo (vicino alla fermata della metropolitana
omonima, nella zona periferica nord est di Milano, dove scorre la Martesana),
un esempio di pittura popolare periferica, spiega che quel quadro, quella
superficie, quei colori che ballano, è come se l’accogliesse, e lo facesse
sentire “terra nella terra. Mi piace perché è buono e non mi fa domande”. La
risposta la dà un film come questo. Pessimismo della ragione, ottimismo della
volontà. E poi l’opera non sta mai da sola, è sempre in rapporto. Per esempio dove si
animano altre storie e personaggi da ballatoio. Avventure epiche di migrazioni,
vicende di lotta e di tenacia per la conquista della sopravvivenza quotidiana,
speranze, sogni, asprezze e abbandoni. C’è un film di Lemnaouer «Nordin»
Ahmine, algerino d'origine e milanese di adozione, che con Francesco Cannito,
ha girato proprio La Curt de l'America, e narra l'immigrazione con gli
occhi di un immigrato come qui si narra l’esodazione
con gli occhi dell’esodato.
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