martedì 26 maggio 2015

Georgio on my mind. "Mon Roi". Perché non siamo d'accordo con il premio a Emmanuelle Bercot

Emmanuelle Bercot e Vincent Cassel  in "Mon Roi" di Maiwenn
Roberto Silvestri 

dopo Cannes

Per farla finita con Cannes 68, anno 2015, ritorniamo su alcuni film che non abbiamo avuto il tempo di recensire nei giorni del festival. O perché sono particolarmente brutti, come questo di cui scriviamo, o troppo complessi, ed è bene pensarci sopra più a lungo, o perché sono sfuggenti, come quell'oggetto d'arte formato da sole lamette da barba acuminate di La collezionista di Rohmer....Purtroppo per difficoltà indipendenti dalla nostra volontà non siamo riusciti a vedere né i due film diretti dai Garrel, figlio e nipote, Philippe e Louis,  né Desplechin, né Gaspar Noé, né Jaco van Dormael, e neanche il film colombiano che ha vinto la Camera d'or. L'irrazionale palinsesto di Cannes, abitualmente sadico con gli addetti ai lavori, quest'anno era particolarmente mal congegnato.

"Tu, tu. Mio tetto, mio tutto, mio re" canta l'idolo pop uruguagio Elli Mederios. Inizierei proprio dal film-Eurocanzone Mon Roi, love story di Maiwenn, il genere sentimentale è quello che i registi e le registe transalpine sanno maneggiare con maggiore perizia e sfoggio di nuances - ma qui è più che altro idolatria da matrimonio - e che ha permesso alla attrice e regista Emmanuelle Bercot (nonché collaboratrice alla sceneggiatura di Naiwenn in Polisse che fu a Cannes misteriosamente qualche anno fa e miracolosamente premiato) di aggiudicarsi ex aequo il premio per la migliore sposina del festival. Con Vincent Lindon miglior attore maschile (per il film politico di sinistra Le leggi del mercato) la Francia prende tutto e manda giù dal podio il cinema italiano anche nel genere d'impegno civile, suo ex cavallo di battaglia. La giuria ha giudicato evidentemente le sue allegorie fiacche, compiaciute e formaliste. Bisognerà tenere d'cchio questo Alain Attal, il produttore, che ha portato a Cannes anche Les Cowboys (alla Quinzaine)  perché cerca di mixare gusti popolari all'appoggio della critica meno autocritica, e ama gli indipendenti amati da France 2 Cinema che, cioé, sanno fare mercato. E' infatti vero che l'ispirazione sembra quella operaia di Una moglie di Cassavetes capovolta per renderla masticabile al grande pubblico. Ma si sente troppo la puzza del format. E se si mima la struttura del film-jazz è solo a quello da ascensore che ci si aggrappa.

La regista, sceneggiatrice e attrice Maiwenn
 

La palma d'oro a Bercot però resta inspiegabile, anche se ex aequo, ma non si deve assolutamente confonderla con il riconoscimento scherzoso assegnato al cane di Le mille e una notte di Miguel Gomes, "miglior animale recitante" del festival. Eppure Bercot, nel ruolo di una donna autodistruttiva, non smania forse per essere o tornare ad essere "la più fedele adoratrice del maschio latino". Mi sa che per lei "Je suis Charlie" vuol dire "io seguo Charlie", vengo sempre dopo di lui... Se sono rotta dentro mi riaggiusto e ne riconquisterò la tenerezza che so nascondersi dentro la scorza del duro... Inquitante davvero se fosse così.

Emmanuelle Bercot
Il film è un inspiegabile duetto d'amore e odio, un'odissea di liberazione di oltre 2 ore, dopo una relazione decennale complicata da scenografie coi colori pop sparatissimi e oggettistica kitsch sbandierata ovunque, dentro e fuori gli interni domestici. L'idea centrale è quella che il super macho smetta a un certo punto di esser solo attratto da donne-manichino, tutte uguali e noiose. E a quel punto una donna che sa giocare di contro balzo e mettere nel sacco un paio di battute spiritose e inaspettate (aiutata da un fratello, Louis Garrel, per la prima volta davvero brillante, quasi lubitschiano) che riescano a sorprenderlo, a scoprirne le zone dark, intime e pornografiche del "sentimento", lo farà suo. Non troppo originale, vero, questa apologia della donna con le palle che sa sottomettersi?

Così lei, Tony, in un night riadesca nel giorno giusto (letto sull'oroscopo?) un lui, Georgio, Vincent Cassel, che già l'aveva fulminata da studentessa-lavoratrice. Ora è un imprenditore farfallone di effimero successo (ristoratore) e, non lo manda a dire, da sempre un impenitente sciupa femmine. Ma la fa tanto ridere.  Tony e Georgio in effetti sembrano nomi scelti per rendere universale il film, e farlo piacere non solo fuori dalla Francia ma anche dalle coppie gay e lesbiche. Georgia on my mind.... Mon Roi Cassel (che si compiace di farsi vedere, come al solito, dall'epoca di L'odio non riesce mai a portare se stesso in un viaggio schermico avventuroso e inquietante, fuori dall'ammirazione obbligatoria), il disinvoltone, miracolo, se la sposa. E prende tutti in contropiede. Poi il figlio. E le corna. Scandalo, urla, separazione. Forse un ritorno.. Più probabilmente un suicidio (di lei). Il pubblico dice: scappa! scappa!

Il film inizia dalla fine, e poi fa un lungo flashback, con l'incidente di sci che le rompe la gamba, malamente. Fatto sta che Tony viene ricoverata in un centro di riabilitazione dove la ritroveremo nel corso della storia. Una paziente in via di guarigione, attorniata da una assistenza di lusso (congratulazioni per il ministero della sanità) e soprattutto da una rosa multiculturale e sorridente di riabilitati, che neanche Benetton.  

La bionda Bercot, intimamente complice della regista, suo alter ego castano scuro, si è fatta confezionare una partitura rococò (merito anche di Etienne Comar) per sfogare narcisisticamente tutto il suo repertorio di smorfie, gesti di mano e sguardi, un po' come fa Mag Ryan o Camern Diaz quando producono un film con loro stesse super star.
Il suo personaggio si nasconde dietro il ben dire, ma non riesce mai a catturare una sonorità charming o la postura sexy e impudica di chi sa indagarsi dentro e rappresentare un orginale bersaglio del desiderio. Tony non è una donna problematica a tal punto da giustificare un approccio così  tecnicamente variegato e costantemente sopra le righe. E' una masochista moderata che ha perso la gioia di vivere, da quando il suo uomo, Giorgio l'ha abbandonata, facendole perdere l'equilibrio interno ed esterno. E soprattutto si è fatto pignorare un mobile di famiglia a cui teneva profondamente.
Così assistiamo all'ascesa e alla caduta  e alla ricucitura di un personaggio senza essere mai "trascinati dal vento", senza esserne travolti. Piuttosto sfogliamo un saggio da scuola di recitazione. Bercot è manierata nel pianto, nel riso, nell'urlo di disperazione; se la cava così così nei litigi, nella seduzione, nell'amplesso, nell'amore filiale, sfuma lo sbigottimento, accentua la perplessità... come soltanto una professionista da sit-com sa fare, stile Giorgio Albertazzi nella parodia di Carmelo Bene.
Non è, purtroppo, un robot commuovente che cresce tra le mani del dottor Frankenstein. E' Bercot. Al naturale. Rappresenta solo i bordi estremi di un personaggio (non standogli mai "un po' accanto", secondo il saggio metodo brechtiano di Margherità Buy in Mia maadre) memorizzato anche nei gesti più improvvisati, sempre conditi con tic e orpelli. Insomma passeggia sullo schermo come su un marciapiede. Diciamola tutta. E' tremendamente, oscenamente disinvolta. O è tutta colpa degli anti dolorifici? 

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