Charley Chase |
Mariuccia Ciotta
Diffidate di chi dice
“vado al cinema per farmi quattro risate”. E' un complice del
potere consolatorio, di una comicità che compiace villain e
intellettuali, beati nei chiché di ogni tipo, mentre “il Comico
può essere sovversivo, sì, ma in quanto rivela l'inconsistenza
delle pretese del senso” e le “impettite certezze del reale”.
La formula è estendibile oltre l'immagine della comicità e fa da
passe-partout a tutto ciò che frantuma il conformismo, provoca una
mutazione, produce uno scarto nei codici dell'ordine.
I misteri del ridere
“folle” aleggiano nelle pagine frizzanti come un film dei
fratelli Marx, del libro di Alessandro Cappabianca Ontologia
del corpo nel cinema comico (pag. 274, euro
11,90, edizioni ente dello spettacolo) che di serioso ha solo il
titolo mentre si rivolge al non-sense, dal silent-movie alla
sophisticated comedy, dalle “torte in faccia” al film d'autore,
fino alla scena italiana, con affondi filosofici ammalianti.
Perché si ride se
qualcuno scivola su una buccia di banana? Risponde Baudelaire
evocando la cacciata dall'Eden, ovvero la Caduta, scena archetipica
del Comico. La nostra è una risata “luciferina”, un modo per
allontanare il dolore e farsi beffe del verdetto di dio. Lo stesso
che muove il ragazzetto nel celebre corto dei fratelli Lumière
L'innaffiatore annaffiato,
ovvero prendersi gioco dell'etica (borghese) del lavoro. E qui entra
in scena Henri Bergson, il filosofo di L'evoluzione
creatrice e autore di Saggio
sul significato del comico, che parla di
“brezza profumata” dell'infanzia e del suo sottrarsi alla logica
adulta del prodotto e del profitto, o meglio del “senso”.
La risata come “esplosione
terapeutica dell'inconscio”, la risata “barbara” è quella che
piace a Walter Benjamin, e origina La
battaglia del secolo a colpi di quattromila
torte spiaccicate sulle facce di Stanlio e Ollio, capaci di
catalizzare le gag di altri illustri e meno conosciuti corpi comici,
come i dandy (muti) in bombetta Max Linder e Charley Chase, maestri e
“rivali” di Chaplin. In particolare il dimenticato Chase (ma non
da Cappabianca), “fisico snello, asciutto, elegante, senza nulla di
fisicamente buffo”, ma così maldestramente surreale e dotato di
fantasia eccentrica da concepire la più bella storiella (il libro ne
è zeppo) “senza senso”. “In The Rat's
Knuckles (di Leo McCarey, 1925) è il geniale
inventore d'una trappola per topi 'umanitaria', che non uccide il
topo che vi capita dentro ma 'lo fa vergognare' (appare un pupazzo
che lo sbeffeggia)”. Il senso, però, lo ha eccome, non certo
“comune”, tanto che ha ispirato Hitchcock per una scena
esilarante in Intrigo internazionale,
quando Cary Grant fa di tutto per farsi arrestare e snocciola le sue
malefatte a un agente che gli risponde: “E non si vergogna,
giovanotto!?”.
Buster Keaton |
Il libro ha una densità
impossibile da restituire nel suo percorso che tocca oltre a Harry
Langdon, Charlie Chaplin e Buster Keaton, entrambi amati dai
surrealisti (Aragon compone la poesia Charlot
mistique), anche se Chaplin fu messo da parte
con l'uscita di The Kid
(Il monello, '21) perché troppo “sentimentale”, giudizio che
ancora pesa tra i critici schierati con l'uno o con l'altro. Quando
tutti e due toccano i vertici dell'assurdo poetico, i corpi sospesi
in una ultrarealtà, corpi lunari. Artaud (di cui l'autore del libro
è grande conoscitore) preferiva il Chaplin delle origini, “meno
umano”, più crudele. Eppure proprio il primo Charlot è stato
modello di Mickey Mouse, anarchico e generoso supporter
rooseveltiano, e Monsieur Verdoux
è un assassino di vedove in uno degli ultimi film di Chaplin ('47).
Cappabianca dà
un'interpretazione più profonda della coppia di “avversari”
chiamando in gioco Gilles Deleuze e la formula della “grande forma”
(situazione-azione-situazione trasformata) e della “piccola forma”
(l'azione svela un aspetto della situazione, che dà inizio a una
nuova azione). Chaplin è per la “piccola”, e Deleuze lo inquadra
mentre di spalle sembra scosso dai singhiozzi (la moglie lo ha
abbandonato) quando in realtà sta agitando uno shaker per farsi un
cocktail. Variante di un passo irresistibile di Jerome K. Jerome con
la bambina che guarda rapita il cielo oltre la finestra, ma quando si
gira rivela che l'estasi è dovuta a una succosa caramella.
Spostamenti infinitesimali e rimandi. “Argonauta del sogno”,
“architetto dadaista per eccellenza”, Keaton “innalza il
burlesque alla grande forma” e ne sapremo di più nell'analisi
avvincente dei suoi film.
Spazio anche a Harold
Lloyd, il bravo ragazzo americano con la paglietta e gli occhiali
tondi, che chissà perché finisce sempre appeso al pennone di un
grattacielo o al celebre orologio. Il suo senso funambolico, però,
sfida le vere protagoniste (attrici, sceneggiatrice, registe) del
cinema comico delle origini, Mabel Normand, Clara Bow, Marion Davies,
Gloria Swanson, Mary Pickford, Marie Dressler, Beatrice Lillie...
“frutto di una smisurata rimozione”, sottolinea Cappabianca, che
dedica un capitolo alle “Funny Ladies”. Discorso a parte, che non
consiste in una compassionevole attenzione per le attrici
dimenticate. Sono loro, prima di tutti, a “rivelare l'inconsistenza
del senso” nella demolizione sistematica del gender, nel passaggio
dall'epoca vittoriana alla modernità, nella risata
diabolica contro simboli e potere.
Beatrice Lillie |
L'avventura continua con
il Lubitsch-touch (radiografia della commedia sofisticata), il
Picchiatello Jerry Lewis, l'architetto dell'impossibile Monsieur
Hulot e approda alla “Comicità all'italiana: la resistenza del
corpo”, ricognizione sulla risata delle “pratiche basse” ma
anche alte, da Fellini a Monicelli, con un omaggio a Maurizio Grande,
che scrisse pagine insuperate sulla commedia nostrana e sulle sue
maschere (Totò, Sordi, Manfredi, Tognazzi, Gassman...).
Sterzano
dalla tradizione Ciprì e Maresco e Nanni Moretti, sul quale Roberto
De Gaetano ha scritto un libro che colpisce nel segno l'opera del
regista-attore fino a Mia madre,
basta citare il sottotitolo: Lo smarrimento
del presente. Eduardo De Filippo chiude
Ontologia del corpo nel cinema comico,
prima delle “considerazioni conclusive” dove troviamo Roberto
Benigni e il suo Pinocchio “incompreso” (almeno per me).
Marion Davies |
Alla fine, è la mobilità
imprevedibile del trasformista - quello che prima è di carne e poi
di legno, che fugge alla forma, che si sottrae alla logica, che
cambia e rinasce - la magnifica virtù della comicità. “Che il
corpo del comico sia caratterizzato da questa particolarità, di
superare la morte ogni volta trasformandosi?”
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