di Roberto Silvestri
Merkava contro
Panzer
Questa volta sì. Vi sentirete più orgogliosi di essere
americani dopo aver visto l’elogio del carro armato, Fury. Ma non perché la seconda guerra mondiale fosse una guerra
giusta. Come diceva Sam Fuller, l’ultima guerra giusta. Ma perché in fondo piace a molti l’odore del
napalm la mattina, tra un surf e l’altro. Perché è affascinante perdere se
stessi, la propria umanità, moralità e fede. Perché tanto se vinci la guerra,
poi, te le ridaranno tutte queste cose. E loro le guerre le vincono tutte.
Applichiamo questo schema al capitalismo e scopriremo il perché della mancanza
in America del servizio nazionale sanitario per tutti. Anche i poveri
preferiscono non averlo. Se no come faranno a conquistare il Paradiso? E’ una
impresa solitaria, non collettiva. E’ un bene privato, non comune.
Invece. Non si spara mai a un uomo o a un paese disarmato.
Se si vuole “stare dalla parte giusta della Legge” - morale e qualche volta
anche scritta, come avrebbe detto Doc Holliday, la vendetta privata non è mai ammessa.
I giustizieri della notte sono “impresentabili”.
Ma è stata riciclata recentemente una scappatoia antica al
rovello morale che è al centro del peggiore filone wasp del cinema
hollywoodiano. Si può applicare al porno come all’horror, alla fantascienza
come al war-movie, al melodramma come alla commedia. Si va giù con le brutalità
e le abiezioni più terrificanti - che in confronto La Pelle di Malaparte-Cavani sembra un minuetto - quelle che fanno
molta cassetta, e poi si attende l’arrivo della giustizia divina a distribuire
le colpe e a emettere il verdetto e l’happy end.
E se dessimo
all’uomo quel che è dell’uomo e a dio quel che è di dio? Se una cosa è il mondo
ed esserne schiavi e un’altra rinunciare al mondo ed essere salvi? Il
finish religioso (anche un po’ buddista), in questo caso al blockbuster di
guerra (studiata combinazione di violenza, fratellanza, sacrificio, redenzione
accompagnata da dialoghi che saltano all’occhio, personaggi accattivanti come
in un bachelor party, accuratezza
storica…) ha antiche origini e un grande
obiettivo… Il profitto si fa con la brutalità più estremista che gli occhi del
pubblico amano divorare (il mondo) e
dopo l’apocalisse arriva alla fine la salvezza eterna. E non è detto che la
salvezza eterna, se non proprio il trionfo sulla Quinta Strada non sia per i
più brutali e vendicativi, a spulciar bene la Bibbia come si fa in questo Fury che ruba il titolo proprio alla
scrittura sacra (Ezechiele, 25:17 “la grande vendetta e la furiosa rabbia”). In
Fury un individuo della nostra
società contemporanea, uno di noi, si scontra con una solida cornice di valori
universalmente accettati. E lì, accanto al conflitto armato sorge parallelo un
conflitto umano, individuale, emotivo parallelo. “Qualunque film di guerra è un
vivaio – diceva Kubrick – che favorisce la crescita rapida e forzata di
atteggiamenti e sensazioni. Gli atteggiamenti si cristallizzano. Il conflitto è
naturale, mentre in una situazione meno critica sarebbe un espediente forzato e
falso”. Il fatto è che questo individuo,
uno come noi, alla fine viene risucchiato nel conformismo e nella tossicità
della febbre bellica. Perché adesso non allora sono i professionisti a
combattere. Quelli pagati tanto a cadavere. Sartre scrisse proprio nel 1944 il
dramma A porte chiuse che poi divenne
film (lo doveva fare Genina ma poi lo ha diretto Jacqueline Audry. Per Sartre
l’uomo che si contrapponeva alla scienza e alla tecnica non era condannato a
essere libero, solo, chiuso in se stesso, murato nei limiti angusti della sua
finitezza, abbandonato alla sua unica condizione, che è quella di essere
libero? Ebbene quel dramma invece del portello chiuso ha la porta. Ma si svolge
anche quela aziene all’inferno. Un inferno che è una camera d’albergo, in cui
viviono tre personaggi assortiti e inassociabili tra di loro. Ognuno è
l’inferno per gli altri due. Per Sartre la colpa, la vergogna, la stessa
coscienza non esistono se non in quanto esistono gli altri. Dai quali siamo
inseparabili, perché non possiamo smettere nemmeno un istante di combatterli,
per togliere loro la libertà e asservirli al nostro io, e senza dei quali non
possiamo sapere nulla, né nulla risolvere circa noi stessi. In terra ci sono
soste e tregue (il sonno, la fuga, il silenzio, la meditazione, le menzogne, il
sesso, l’ipocrisia, l’adulazione) ma nell’inferno non c’è difesa o evasione
possibile. Né sonno né parole, né sesso. L’inferno
è lo sguardo. E anche la soluzione di uccidere o di uccidersi è inutile.
L’inferno è l’eterno ritorno degli stessi problemi, delle stesse sensazioni,
degli stessi misteri, della stessa angoscia. Ecco un film ambientato nel
sommergibile o nel carro armato richiama un po’ questa situazione esistenziale
sartriana. Uccidersi o uccidere.
Logan Lerman, il roukie e Brad Pitt, il veteralo |
Ma torniamo un po’ meno indietro nel tempo.
Qualcuno si è lamentato perché American Sniper esaltava scandalosamente lo sciovinismo Usa di un
campione di tiro al bersaglio del
patriota arabo (il siriano internazionalista, ex campione olimpionico),
oltretutto guardia del corpo fascistoide di Miss Palin. Io penso che non lo glorificasse
affatto. Lo vivisezionava, analizzava impietosamente, certo, e perfino con lo
zoom.
Perché peggiori dei veri cattivi (perfino di Hitler) sono i nostri lati dark che eseguono
quello che i potenti cattivi vogliono.
Per servilismo? Opportunismo? Masochismo? Erotismo del leader carismatico? Vanno
messi bene a fuoco questi sentimenti e queste intenzionalità in un film che
faccia critica dell’immaginario e non apologia dell’esistente. Eastwood lo ha
fatto uscendo dallo stereotipo del cameratismo implicitamente omosessuale del
bivacco prima dell’attacco. Andando molto più in là del solito piagnisteo generico
e umanista sugli orrori della guerra. Bigelow non è passata invano. Non ho mai
visto niente di simile dopo quei documentari che Huston faceva tra i reduci con
il cervello fritto al ritorno dal fronte del Pacifico o da Auschwitz.
Ma le guerre dopo altra cosa. Non si fa la guerra in
Afghantistan e in Iraq per occupare posizioni strategiche o conquistare pozzi
petroliferi. E non si fa mistificandola dietro la fantomatica guerra santa al
terrorismo islamista. I cattivi erano dunque Bush jr. (o la Spectre che lo manovrava) i suoi alleati
e i suoi apparenti nemici terroristi che
stavano facendo, per lui, il lavoro, sporco ma utilissimo da guida indiana. Sempre pronti ad essere
eliminati, a tempo debito, quando diventano inutili, come è stato fatto con
altri alleati, da Saddam a Noriega, da Ben Alì a Gheddafi, da Mubarak. E si
farà con l’Isis. Ma la seconda guerra mondiale aveva una causa così giusta e un
nemico aberrante, tanto che perfino Stalin e Roosevelt divennero qualcosa di
più che semplici alleati!
Le cose si complicano con la crescente esaltazione ghignante
del Cattivo, del villain, del malvagio, del marciume che ci circonda tanto non
possiamo farci niente. L’adorazione della malvagità è malattia virale
inguaribile della contemporaneità, quasi una religione che ha i suoi devoti
nella confraternita degli anti-buonisti fanatici, d’oriente e d’occidente
(perché se no Salvini e i barbudos dell’Isis, stessa faccia stessa razza,
crescerebbe nei sondaggi?).
Costoro troveranno il loro vero film d’affezione in una operazione
simile e contraria ad American Sniper,
appunto nel war movie Fury, uscito
nelle sale nordamericane nell’ottobre del 2014, e con un successo decretato
proprio dal pubblico che più restò imbarazzato dalla spudoratezza e dal candore
di Clint Eastwood. Uno spettro si aggira per il mondo. Si chiama cameratismo
maschile. E produce testosterone atomico (da
testicoli).
Tutto l'equipaggio al lavoro |
Cinque soldati americani della Seconda Divisione Corazzata
in Germania nelle ultime ore della seconda guerra mondiale, fronte tedesco,
aprile 1945. Dentro un carroarmato M4
Sherman, quattro veterani ormai postumani che le hanno viste e fatte tutte, e
un quinto, Norman Ellison, ex dattilografo da fureria, rimpiazzo di un
mitragliere morto, classico pivello imberbe da svezzare a forza di Fuck! Kill! Drink! Il quintetto sembra proprio un amalgama da Ghostbusters, o un direttorio del Pd o
una band-rock: l’espertone, il leader quello che “ti seguirei all’inferno” (Brad Pitt); il mistico che cita sempre
la Bibbia Boyd “Bible” Swan (Shia
LaBeouf); l’etnico-ispanico Trini Gordo Garcia, cui è vietato perfino
parlare spagnolo (Michael Pena); lo
sfacciato, difficile da controllare ma meccanico divino Grady “Coon-Ass” Travis (Jon Bernthal) e il roockie Norman Ellison, estremamente femmineo (Logan Lerman). L’anima bella non
sopravviverebbe all’esperienza di uccidere se non ricevesse una traumatica
iniziazione all’orrore massimo. E si trasformerà in puro animale da caccia. Sarà
il sergente maggiore, il capo, l’uomo esperto di cui tutti si fidano, la
macchina perfetta da combattimento, a impartirgli quella lezione fatale. E’ Don
WarDaddy Collier (Brad Pitt), che cerca di rifare Lee Marvin o Ernest Borgnine,
ma non sa tracciare alcuna differenze tra il clima “lisergico e satirico” della
sua missione con la mazza da baseball ammazza crucchi in Inglorious Basterds, e l’americano consacrato da George Bush jr. quando,
mano sulla Bibbia, aizza alla guerra infinita senza pietà contro i terroristi
senza vero dio. Vinceremo! Il desiderio di tornare a casa con la valigia piena
di scalpi fa luccicare gli occhi del sergente Collier, in una imitazione
pallida del Lupo di Wall Street che ha appena piazzato titoli spazzatura. Uccidere
nazi sembra quasi un affare che rende bene.
Certo. Ogni film storico in costume mal dissimula costumi
morali e cronaca politica dell’epoca in cui il film è fatto e che emergono, in
sovrimpressione, dai fatti di cui si parla. In questo caso siamo non più nel
1945 ma in pieno 2013-2014 (ottimi gli incassi, quasi 230 milioni di dollari, e
arriva in Italia buon ultimo) e ci muoviamo cioé nei paraggi di American Sniper, fresco di meditazione
individuale sulla necessità o meno di sparare ai bambini o ai civili, magari
palestinesi, perché tutti, quando il fanatismo impera, sono potenziali
corpi-bomba. Dunque non rompeteci con tutte quelle statistiche sui civili
vittime di guerra, dice il cecchino e Clint Eastwood lo prende di mira con la
sua cinepresa e lo riporta alla famosa Etica di Norimberga. Ci sono ordini che
ci arrivano da ben più in alto o da ben più in basso, a secondo se si è
credenti o meno, del Fuher. A loro bisogna rispondere e non al superiore nelle
gerarchie militari. Si chiama coscienza. E anche coscienza di classe. Due
entità preistoriche, sembrerebbe. Ed
ecco invece Pitt ammonire quasi demonacalmente il soldato Norman (che, peggio
ancora, è un intellettuale, addirittura un pianista classico): i nemici armati
vanno sempre uccisi; i bambini e le bambine con la divisa vanno sempre sterminati;
gli ufficiali prigionieri vanno sempre giustiziati, con un colpo di pistola alle
spalle; le donne vanno sempre scopate (meglio se con classe per non fare come i
buzzurri violentatori sovietici se no sembriamo tutti Pol Pot!). Niente
convenzione di Ginevra, dove orrore vige. Sono SS! Se non fai così muori. Se
non apprendi la lezione non sopravviverai mai. E soprattutto ci farai
massacrare. E non c’è niente di più emozionante dello “spirito da spogliatoio”
di un carroarmato. Il film aderisce a questo slogan omocentrico con sempre
maggiore gusto e con retrogusto inquietantemente religioso. E secondo me lo
spirito è anche un po’ da revisione del verdetto severissimo contro i
responsabili americani della strage di Mi Lay in Vietnam. “Altro che civili,
erano terroristi travestiti….”.
Hitler (fuori campo) pretende, nel frattempo, che tutto il
popolo combatta e muoia per lui. Donne vecchi bambini. Chi si rifiuta è un
traditore e va impiccato. Prima ancora di arrivare a Mathausen il nostro
equipaggio deve così farsi largo tra villaggi infidi e corpi appesi sui piloni
più alti, spezzoni di un esercito ancora coriaceo (sono tedeschi), generali che
si suicidano dopo l’orgia nel bordello di prammatica e panzer nazisti, molto più
veloci e potenti come si ammirerà in uno dei duelli finali (l’acme da videogame
del film). Sono i King Tiger da 70 tonnellate, e incombe addirittura la
minaccia che appaia da un momento all’altro un Sdk.Fz 205, il famigerati Maus.
Topolino contro il Big Topo. Non c’è partita.
Il regista David Ayer a sinistra con Brad Pitt sul set di Fury |
I 4 moschettieri veterani e nichilisti dopo aver superato tutti i gironi dell’ inferno
bellico, dall’Africa alla Sicilia, dalla Normandia al Reno nella scena più
imbarazzante del film, l’iniziazione sessuale del ragazzo vergine, trasformano
la brutalità così tanto decantata e che li ha resi comportamentalmente torbidi,
in un ipocrita balletto romantico sentimentaloide, peggiorato dall’uso della
cantata in lingua tedesca che farà cascar la gonna della ragazza prima ancora
della ripetizione del ritornello. Insomma
Fury non solo non è Lang, ma
non riesce neppure a rievocare Attack!
di Robert Aldrich o Orizzonti di gloria
e Full Metal Jacket di Kubrick
(sull’idiozia criminale dei generali i primi due e dell’aggressione orribile
del Vietnam il terzo) ma anche l’inanellar di suggestioni tratte da Rommel la volpe del deserto, Il giorno più lungo, The big red one e Salvate il soldato Ryan è un
congiungere i soliti riferimenti ad effetto come il mare diventato rosso per il
sangue o i chilometri e chilometri di cavalli feriti, fatti fuori uno a uno per
non farli soffrire di più. E qui credo che lo sceneggiatore e regista David
Ayer, che ha fatto il militare nei sommergibili e ha esordito con un film sui
sottomarini tedeschi, U-571, si
confonda con la prima guerra mondiale per colpa di Spielberg e di War Horse. Il tutto per dichiarare un
grande sì alla guerra. Uccidere e distruggere il nemico e le sue città senza
pietà è il “mestiere più bello del mondo”.
Fury insomma non
mi piace per niente. Devo però avere seri dei problemi con i film che si
svolgono dentro i carriarmati. Molto più del filone sommergibili (di cui Walter
Chiari faceva deliziose parodie il sabato sera in tv) quelli stipati nei tanks,
se non sono in odorama, estremizzandoin questo caso esperienze olfattive degne di John Waters,
risultano kammerspiel ancora più claustrofobici e soffocanti. Per esempio nei
duelli, così pesanti. Sarà poi colpa di Lebanon,
scritto e diretto nel 2009 da Samuel Maoz e che ha pure vinto il Leone d’oro
glorificando le coraggiose avventure di quattro carristi israeliani spediti a
bombardare oltre confine e che non vedi l’ora che venga colpito in piena fronte
da un missile hezbollah. Trasudava sciovinismo da tutti i cingolati quello
spottone pubblicitario in omaggio al vanto nazionale israeliano, il carroarmato
Merkava, col blocco motore anteriore, tutto costruito solo da Tel Aviv, made in
Israel, e che ha un nome interessante.
Merkava vuol dire Carro di fuoco, e
il riferimento biblico è al profeta Ezechiele. Ebbene Ezechiele è super citato
in Fury per il suo spirito
guerrafondaio. Il film per ironia della sorte è stato girato nell’Oxfordshire, in Inghilterra e
ripreso da Roman Vasyanov con i colori dei cinegiornali d’epoca, nello sforzo
di nascondere obiettivi più attuali. Un ulteriore motivo di disturbo è la
musica di Steven Price che non ha il coraggio di combattere prepotentemente per
farsi ascoltare, come la cavalcata delle valchirie di Apocalypse now o gli inni
patriottici più sfacciati di John Williams in Private Ryan o il sitar dei Rolling Stones di Paint’it Black. E riesce ad essere ancor più retorica e
patriottarda.
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